
il Blog di Normanna Albertini - Insegnante e scrittrice. "Ogni persona brilla con luce propria fra le altre. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente neanche il vento e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l'aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si può guardarli senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende." (Eduardo Galeano)
venerdì 21 settembre 2012
giovedì 13 settembre 2012
QUANDO LA VITE SI MARITAVA AGLI OPPI - Racconto di settembre
http://www.redacon.it/2012/09/13/quando-la-vite-si-maritava-agli-oppi-il-racconto-di-settembre-di-normanna-albertini/
la vallata di Felina, con le viti a piantata, nel 1961 |
La tina - al femminile
- era il grembo sicuro in cui l’uva diventava vino.
Piazzata in cantina,
era un’alta, maestosa signora dall’abito di legno bruno; le doghe
tenute insieme da possenti cerchi di ferro.
Femmina, come le botti
ben allineate lì vicino, sui basamenti contro una parete, emanava un
alcunché di magia e mistero dietro la piegatura sinuosa delle assi,
la loro perfetta saldatura.
Magici e misteriosi
erano i rumori, i brontolii sommessi che ne scaturivano nei
dieci/venti giorni seguenti la pigiatura, come indiscreto, eccessivo,
aspro e felpato, era l’odore che invadeva tutte le stanze e
impregnava abiti e cose. Quando sentivi quell’odore, già
t’immaginavi le “mondine” ritirate dalla stufa, sbrigativamente
spellate e tuffate, ancora calde, nel vino novello.
Il dolce della polpa
delle castagne e dei marroni, soavemente combinato con l’acido di
quel vino appena rosseggiante, dalla bassissima gradazione, ma dal
sapore speciale, era una delle finestre che s’apriva sull’autunno.
L’estate era davvero finita.
Io avevo paura a
scendere in cantina. Era una paura infusa a dovere, a furia di
raccomandazioni e favole, e serviva a tenere noi bimbetti a debita
distanza dal pericolo di ruzzolare per le scale.
E lontano dal vino e
dai salumi, quasi di sicuro.
Per quel che avevo
capito dalle parole di mio nonno Carlo, in cantina soggiornava la
Burda, una creatura spaventosa, forse una strega; un essere
che mi avrebbe acchiappato per le trecce e divorato al volo.
martedì 21 agosto 2012
lunedì 20 agosto 2012
PIETRO DA TALADA: QUEL PITTORE MISTERIOSO E SCONOSCIUTO
Pietro da Talada: quel pittore misterioso e sconosciuto.
Intervista a Normanna Albertini
http://www.loschermo.it/articoli/view/45616
REGGIO EMILIA, 19 agosto- Un pittore misterioso di cui, sino a qualche decennio fa, gli storici dell'arte ignoravano l'esistenza. Un pittore di cui, ad oggi, si conoscono un pugno di opere che però bastano per farci capire il calibro di un artista straordinario che qualcuno ha definito “uno dei più grandi pittori della storia dell’umanità”.
Un pugno di opere sparse tra la Garfagnana , l'Emilia e la Valle del Serchio a cominciare dall’inconfondibile trittico di Borsigliana, con la “Madonna col Bambino tra i Santi Prospero e Nicola”, poi con la “Madonna col Bambino” della chiesa di Santa Maria di Capraia di Pieve Fosciana. Per proseguire con la “Madonna col Bambino”, conservata nel Museo Nazionale di Villa Guinigi a Lucca, ma proveniente dalla chiesa di Rocca di Soraggio e la “Madonna Assunta”, fino alla chiesa di Santa Maria Assunta di Stazzema, in Versilia.
Opere realizzate sempre per luoghi romiti e solitari, raffiguranti, quasi ossessivamente, immagini di Maria, della Madonna col bambino, una madre-maestra che insegna la scrittura. Immagini di maternità arcaica e precristiana realizzate con un attenzione maniacale verso i particolari dei volti e degli abiti, sempre con un espressione malinconica, quasi distante.
È una storia misteriosa, che si perde nei meandri del tempo, si mescola, diventa leggenda quella del pittore noto, a critici e storici, come "maestro di Borsigliana", il cui nome era Pietro da Talada, paese emiliano in cui era nato e cresciuto “tra vacche e letame”, come ha scritto Maurizio Maggiani.
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Alcune presentazioni dei libri su Pietro da Talada |
Realizza opere di inaudita bellezza per luoghi inattesi, chiese solitarie di terre di passaggio tra il Tirreno e le zone padane (tra le vie del sale e quelle dei pellegrini), capolavori per un popolo di pastori e boscaioli che volevano regalarsi il lusso di un quadro sacro.
A Borsigliana, per esempio, non più di dieci case, qualche stalla e un reticolo di metati smarriti nei boschi, i contadini gli fecero dipingere un trittico di una bellezza straordinaria.
Ma quello che ancora di più stupisce critici e storici è il suo stile. Il periodo storico e artistico in cui egli lavora è chiamato dal Giorgio Vasari “la seconda età” dell’arte. Cioè quella della Rinascenza. Eppure, Pietro sposa pienamente lo stile del gotico internazionale, almeno a vedere dalle sue enormi tavole a fondo oro che a una lettura superficiale paiono fuori luogo.
Madonna del Soccorso opera di Pietro, foto di James Bragazzi |
Albertini ma chi è, veramente, Pietro da Talada?
“Del pittore non c’è, ad oggi, nessuna notizia biografica, la località di nascita dovrebbe essere appunto Talada, che si trova nel comune di Busana, in provincia di Reggio Emilia. La sua firma, poi andata persa, venne rinvenuta sul basamento della tavola della “Madonna col Bambino di Rocca Soraggio”, conservata dal 1986 al Museo di Villa Guinigi, datata 1463. A quell’opera vennero affiancate ad altre, tutte nel territorio garfagnino e apuano. Attorno al trittico di Borsigliana, reso noto nel 1963 da Giuseppe Ardinghi, si costituì un corpus di dipinti: la tavola di Stazzema, la Madonna con il Bambino ora in collezione privata a Firenze, i tre pannelli di predella con il viaggio e l'arrivo dei Magi e l'adorazione dei pastori, la Madonna con il Bambino ora a Villa Guinigi, un S. Giovanni Battista di cui si ignora l'attuale collocazione e infine il polittico di Corfino e la Madonna di Capraia”.
Come e quando ha conosciuto questa figura?
“Lo “conobbi” su uno dei volumi di “Storia delle donne” di Duby e rimasi piacevolmente sorpresa di fronte alla sua capacità di imprigionare e diffondere la luce, ma già l’avevo incontrato in una mostra a lui dedicata a Talada, curata da Pierdario Galassi. Ma ciò che più mi toccò furono i volti diafani, sempre soffusi di mestizia delle sua Madonne; una, in particolare, suscitò la mia curiosità: era Maria che insegnava a sillabare a Gesù tenuto sulle ginocchia. Un donna che insegnava a leggere e scrivere! Per di più utilizzando la pagina del Magnificat, la preghiera più sovversiva e rivoluzionaria che sia mai esistita.”
lunedì 30 luglio 2012
POESIE A SELVAPIANA - I GINESTRI DI PORTELLA, DI FRANCESCO BILLECI
I GINESTRI DI PORTELLA
Era lu primu maggiu ru quarantesetti
cu li cavusi curti e li scarpi senza quasetti
cu me matri e me patri n’capu li carretti
iamu vicinu ‘a chiana pi manciari
zemmula cu avutri cristiani a festeggiari.
U tirrenu era chinu ri ginestri in ciuri,
tuttu era chinu di l’oduri
i fimmini si mittianu li falari
e la tuvagghia n’terra ri parari.
Li masculi circavanu a ligna sicca r’addumari
lu focu p’arrustiri avianu a preparari
e quantu fumu biancu viria spagghari.
Un picciriddu m’addumannava
me matri calata c’arrustia
mi taliava ‘nta facci e mi ricia
“Senza curriri figghiu mio,
comportati bonu e nun fari vucciria”
eu la vasava cuntentu e comu un furmini
mezzu lu furmentu scumparia.
Era na bedda jurnata, eu jucava a mucciareddu
lu suli cucenti sbattia nta li petri comun enti
e d’oru li facia viriri a la genti.
C’era cu vivia e cu arrustia
cu vasava la zita e poi riria
cu si curcava nto virdi e poi s’addummiscia.
E mentri taliava me matri nca riria
e me patri nca cu n’avutru cristianu riscurria
tuttu nsemmulla sintivi li botti e bitti faiddi,
nun capia chi succiria
nterra ceranu tanti picciriddi
r’allatu a mia li cristiani
sammucciavanu comu li cunigghia
e circavanu addannati la famighia.
giovedì 19 luglio 2012
giovedì 12 luglio 2012
CON LE MANI, CON LE BRACCIA E CON IL CUORE - "Ieri e oggi il lavoro delle donne"
Serata sul lavoro femminile alla festa della Biasola (RE) - 16 giugno 2012
Apertura: Canti “Son la mondina son la sfruttata”
“Senti le rane che cantano”
Video: Proiezione in sottofondo delle foto delle mondine (Filmato)senza musica
Narratore
mia mamma mi diceva che… i mal di testa feroci che cominciarono in risaia, quand’aveva solo 14 anni, non l’hanno più abbandonata per tutta la vita. Acqua sotto, spesso acqua sopra, piegate, nella tensione continua, nella fatica disumana.
Erano quasi tutte ragazzine, allora. Alcune, di soli tredici anni, partivano per la prima volta , spensierate. Salivano all’alba su quel lungo treno-bestiame che le raccoglieva attraverso le campagne padane. Era, di solito, il 24 maggio. La sera tardi erano già in Piemonte, a Novara , a Vercelli . Venivano a prenderle alla stazione, con i carri, e poi via, verso le cascine, per quaranta, quarantacinque interminabili giorni. Sempre in gruppo, nel lavoro, nel canto, nella vita. Nello stanzone dormivano in venti (ma, a seconda delle dimensioni, anche in cinquanta o sessanta), coi fili per la biancheria stesi a raggiera tutt'intorno, c'era il pagliericcio da riempire di fieno e da cucire grossolanamente, delimitandolo a un'estremità con quella cassetta in legno che, per la mondina, era tutto: valigia, armadio, tavolo, cassaforte, rifugio, casa.
Sveglia alle 4.30, al più tardi alle 5: il caposquadra passava tra i pagliericci addormentati tirando più o meno scherzosamente i piedi ancora stanchi. Seguiva una rapida lavata nella fredda acqua della roggia, il fosso vicino alla cascina. Gli uomini direttamente impegnati nella monda del riso erano pochi: si trattava soprattutto di "cavallanti", circa quattro o cinque ogni cinquanta donne.
Mondine e cavallanti raggiungevano le terre bagnate, distanti anche mezz'ora di cammino, e lì iniziavano la giornata di lavoro che durava dalle otto alle dodici ore, spesso superando "inavvertitamente" la soglia sindacale.
Il lavoro era duro veramente. Nelle varie "quadre" o "piane", misurate in pertiche, in cui venivano suddivise le risaie, le donne, da sei o sette fino a dodici, si disponevano in file parallele. Così, a testa in giù, in mezzo all'acqua anche al ginocchio, fino a pomeriggio inoltrato, a mondare il riso,
Di tutti i tipi, erano gli animali: innanzitutto, bisce. Venivano afferrate, dalle più coraggiose, per la testa, fatte roteare due o tre volte in alto e poi scagliate all'indietro.
E c'erano tafani; i cervi d'acqua grandi come una noce, con vere e proprie corna; i sòregh, i topini d'acqua, che facevano il nido nel riso e che, mondando, si finiva per cogliere con la mano.
E la mariètta? La mariètta e il fa prèst, appena un po' più grande, erano insidiosi, invisibili come i pappataci; il loro morso, rapidissimo tra le dita affaticate, "faceva quasi perdere la ragione",
Per gli inevitabili bisogni fisiologici si faceva un passo indietro o lateralmente; non si poteva uscire dalla fila, non era permesso
"Sta' giù, piegati!", brontolavano le più vecchie, che la miseria ottocentesca aveva forse costretto a piegarsi non solo nel corpo.
I sacrifici quotidiani si prolungavano nel mangiare: scarso, ai limiti della sussistenza. Riso e fagioli, fagioli e riso. Per cambiare, maccheroni e riso. 1 kg . di riso al giorno, verso il '50, era anche l'aggiunta alla paga, da portare a casa. Volendo, si poteva comprare qualcosa da mangiare ma era un orgoglio, oltre che una necessità, tornare a casa con la "campagna" tutta intera.
martedì 10 luglio 2012
LA MAGIA DEL PANE - RACCONTO D'ESTATE
Nonno Carlo e nonna Eva: il vino in tavola il giorno della sagra |
La scodella, protetta da un tovagliolo, sostava per una settimana in un angolo del “tricantun” di lucido legno nero. Il mobile era in sala, stanza fresca anche d’estate, anzi: gelida in inverno, essendo solo la cucina riscaldata dalla stufa.
La scodella emanava un profumo acido già dal secondo giorno e contribuiva ad arricchire quell’orchestra di odori che ti avvolgeva appena dischiudevi l’anta.
Sinfonia di profumi unici: di frutta secca, di funghi, di caffé, di spezie.
C’era poco di tutto lì dentro, pochissimo, ma c’era di tutto: cartocci ben chiusi di prugne e amarene seccate, sacchetti di funghi, il barattolo del caffé vero e quello dell’orzo, i vasi di “savurett” e di marmellata di prugne, i pacchetti del sale, qualche contenitore con i chiodi di garofano, la cannella e la noce moscata.
Erano le spezie più usate nei cibi: per lo stracotto, per il vin brulé, per la torta di castagne, e, in particolare, la noce moscata era indispensabile nel “peng” (ripieno) dei cappelletti e dei tortelli di zucca. Profumo di bosco era quello delle coccole di ginepro, raccolte per tempo sul Monte Battuta e conservate in un involucro per essere tuffate, all’occorrenza, nella marinata del coniglio arrosto.
E poi, lì dentro, c’era, per l’appunto, la scodella dell’ “alvadur”, il lievito madre. Un pugno di pasta estratto ogni settimana, bello fresco, dal pastone del pane e riposto al buio, dove seccava quasi completamente. La pasta madre. La magia del pane.
Mia mamma, la sera prima della giornata dedicata al pane, prelevava dal “tricantun” quella crosta preziosa (diventata, in sette giorni, un tutt’uno con la scodella); già si era cenato e sparecchiato, e lei cominciava allora il rito delle operazioni preparatorie.
Calcolando che s’era alzata alle quattro del mattino (come tutte le donne del paese…) per andare nella stalla e che non si era fermata un secondo durante la giornata, io la guardavo e mi chiedevo dove trovasse l’energia per lavorare ancora fino a mezzanotte.
Eppure ce la faceva. Doveva: non c’era alternativa.
venerdì 6 luglio 2012
IL PATTO DI KATHARINE - Gli strani casi di Dario Lamberti - Romanzo di Massimo Storchi

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