giovedì 22 ottobre 2020

LA CAPRA BIANCA DELLE FATE

 

La capra bianca delle fate


Le fate vestono di bianco e hanno bisogno dell’acqua corrente per lavare ogni giorno i loro panni, perciò, di solito, vivono nei pressi di un fosso, dove un tempo c’erano i mulini.

Le fate sono incorporee; si nascondono nelle grotte e capita di scorgerle danzare sulla cima delle alture, anche lassù sul Ventasso, e paiono nuvole. Lassù, possono viverci soltanto i falchi, le poiane, le aquile. Potrebbero anche salirci le capre.

Lassù, si è inerpicato Umberto, appassionato di fotografia naturalistica, con l’amico Marco, con Giovanni, bravo reporter, con Roberto, Bruno e altri. Tutti alla ricerca di un animale diventato leggenda, quasi uscito da una fiaba. Tutti stregati da questa speciale creatura.

Nemmeno i caprioli e i lupi osano arrampicarsi su quelle “grotte” (ripe scoscese), solo le capre potrebbero abitarci. E le fate.

D’altra parte, lo scrittore Carlo Lorenzini sapeva bene che le fate possono trasformarsi in caprette. È lei, la fata dai capelli turchini a regalare al Grillo Parlante la casetta dove poi si riparano Pinocchio e Geppetto fuggiti dal ventre del Pescecane.

Carlo Lorenzini nacque a Collodi, in quella Toscana non lontana dalla valle del Serchio abitata dalle fate e da altre fiabesche creature. Sapeva delle fate, Lorenzini, forse pure di quelle che si trasformano in capre.

Le fate vivono anche qui, sull’Appennino reggiano: “in t’el fade”, su uno dei versanti del Monte Ventasso, e in altri luoghi. Dalle rocce di “in t’el fade”, sopra Busana, scende il rio Riccò, dove un tempo c’era un mulino e dove oggi c’è un agriturismo: quello del signor Vincenzo.



Da queste parti sono state ritrovate misteriose pietre incise e del ritrovamento ci dà notizia “Mingh”, Domenico, altro componente del gruppo di ricerca della capra.

Anni fa, il padre di Vincenzo, Sergio, era a caccia e, sedendosi, notò una grossa pietra con delle incisioni. Più avanti, anche “Mingh”, s’imbattè in quel sasso, così ne parlò con la studiosa e storica Rosi Manari, la quale contattò il linguista Adolfo Zavaroni.

Questi, analizzò e decifrò i graffiti, attribuendoli ai Liguri Friniati che permasero sulle nostre montagne fino al 100 a.C circa. Zavaroni afferma che un’iscrizione trovata al centro del Frignano, testimonia che gli antichi Friniati chiamassero se stessi Umbri, sebbene Tito Livio li avesse definiti Ligures. Altre scritte in grafìa e lingua friniate sono state rinvenute dallo stesso linguista sul Monte Valestra e sotto la Pietra di Bismantova.

POESIE FINALISTE AL CONCORSO NAZIONALE "ESSERE DONNA OGGI" 2020

 

Non hai dimenticato


Tutto è nel tuo grido: la selva,

l’acqua, le fiamme

la resistenza del mondo, le gemme,

la fame e la quiete della belva.


Ogni gesto d’amore, le voci,

e le farfalle ad ogni primavera,

le lacrime a irrorare la semina

per uscire viva dalla bufera.

Non hai dimenticato mai la libertà,

donna, fiera: lei è ciò che illumina.


Tuo grido, forza che contamina,

carne partoriente

che dal naufragio fugge dirompente

e l’universo protegge, e salva.













Diffida dei demoni


Diffida sempre delle stelle ardenti

dell’infinità procace dei mari

della purezza di boschi accoglienti.


Diffida di realtà commoventi,

di ombre infelici, di luci spavalde,

non fidarti dei demoni dormienti:


solo fidati delle parole salde

che piano l’anima sussurra, calde.






SCRIVO POESIE

 

Scrivo poesie perché tu non lo fai,

per strapparmi dall’anima le spine 

e far saltar le idee come bambini,

come fili danzanti sugli arcolai

o gazze e passeri a beccar susine.

Lo so: lei è isola alla deriva

in onda distruttiva

d’impulsi programmati, frivolezze, 

zapping, social e schermi di miserie;

rispunta tra macerie,

eppure, la poesia, e amarezze,

musa che incede, disturba, sorprende, 

ribelle amica che mai s’arrende.


Era il raro, il poeta, era il ritròso 

il parassita; era l’innamorato

di un linguaggio inutile, per pochi,

per gli amanti del dire acquitrinoso,

e tagliava erbacce, accendeva fuochi

tra le parole con dita efficienti

aspirando frammenti

di luci e tenebre, di urla, rottura

e spigoli, di volti sfilacciati. 

Non più così: paura

ha oggi, il poeta, poiché acclamati

sono i ritmi tecnologici, il rumore

l’ovvietà, le grida, lo squallore.


Poesia, tu non implori 

il permesso, non dai spiegazioni. 

Apro la porta ai tuoi colpi distorti, 

al divenire, alle sorti:

celebro il non sapere, le abdicazioni,

celebro l'eccesso e la perplessità

e ti scrivo, poesia, con felicità.



lunedì 12 ottobre 2020

NON DIRE NIENTE - RACCONTO VINCITORE DEL PREMIO LETTERARIO NAZIONALE "ESSERE DONNA OGGI" 2020

Non dire niente

Aveva provato a chiamare la sala operativa della questura, poi, alla risposta dell’agente, – una donna, che si era qualificata come “Angela” – era riuscita soltanto a sussurrare: «Mi chiamo Veronica Vieste. Lui ha detto che mi ammazza… aiutatemi!»

Aveva chiuso in fretta la telefonata, dopo averlo sentito forzare la maniglia del bagno, poi era uscita in salotto. Per fortuna, il suo aguzzino non aveva intuito nulla; stava imprecando, tentando di trovare le chiavi di casa, quindi l’aveva afferrata per un braccio e le aveva ordinato di prendere solo la borsa, una bottiglia d’acqua e di salire alla svelta sul camper.

Sarebbero partiti. Destinazione ignota. Ma lei sapeva.

Sentiva che da quel viaggio rischiava di non tornare viva.

Questa volta, Daniele aveva probabilmente esagerato con la coca, era in uno stato di agitazione tragico e non era nemmeno in grado di comprendere ciò che, con calma, la ragazza provava a spiegargli: che lei doveva andare al lavoro, che era mattina; che sì, lui era stato in giro tutta la notte, ma che questo non scusava ciò che le stava imponendo: «Tu, oggi non esci, non esci, hai capito? Tu, quello non lo devi vedere più! Basta! In ditta non ci vai più… Basta, o ti ammazzo. Lui e te: vi ammazzo tutti e due!»

Veronica aveva fatto in tempo a nascondere il suo cellulare nella borsetta ed era salita sul camper senza opporsi, gli occhi bassi e l’aria docile per non indurre reazioni nel compagno. Aveva imparato, con il tempo, che quella era l’unica possibilità per salvarsi.

Non aveva idea di dove lui volesse dirigersi, non aveva idea di quali fossero i suoi piani; sapeva soltanto di essere in pericolo, in grave pericolo e sapeva che doveva mantenersi calma il più possibile.

A scatenare il tutto, la solita gelosia morbosa di Daniele nei confronti di un nuovo, bravo manager da poco arrivato in ditta: un giovane compagno di Veronica del liceo.

Nulla c’era tra di loro, ma chiarirlo non era servito, anzi: aveva acuito ancor più la collera e la violenza del ragazzo.

Ora, il camper si era immesso in autostrada; lei riuscì solo a leggere la direzione “Firenze – Roma”, poi, la velocità troppo elevata la intimorì a tal punto che le si annebbiò la vista e si sentì mancare.

«Hai una caramella o dello zucchero?» Domandò con cautela e tono dolce: «Ho un calo ipoglicemico e, se dobbiamo viaggiare per molti chilometri, non vorrei svenire e crearti problemi…»

Lui non replicò. Schiuse il portaoggetti del cruscotto, ne estrasse una merendina al cioccolato e gliela porse: «Mangia questa, ma non ho altro. Quindi, datti una calmata e stai zitta!»

«Sì, scusami. Vedrai che mi passa tutto. Cerca di essere prudente, però… lo so che sei un bravo autista, ma in giro c’è gente che alla guida è una sciagura e poi tu lo sai che io in autostrada vado comunque nel panico».

Viaggiavano ormai da un’ora e le automobili sfrecciavano intorno, tentando sorpassi azzardati. Erano troppe e troppo veloci. Sembrava che tutti avessero fretta, in quella limpida mattinata.

Troppi, per il suo stato d’animo, anche gli spazi aperti oltre il guardrail: campi di girasole a perdita d’occhio, stoppie dove si era trebbiato il grano, rotoballe di fieno e paglia.

Il disordine di una terra che era ancora terreno coltivato, violata, tuttavia, da autostrade, superstrade, circonvallazioni e dal grigio dei parallelepipedi di cemento, obbrobri di industrie ormai in declino.

Troppi i rumori, dai barriti degli autocarri al frinire stizzoso delle vecchie utilitarie scolorite.

Troppo l’azzurro, in alto: scuro, come è degli abissi marini; troppa la vita in pericolo.

Veronica provò a concentrarsi sulle nuvole sfrangiate che correvano via sopra la sua testa e sulla sagoma di un aereo quasi certamente decollato da qualche aeroporto nei dintorni, ma non riusciva a calmarsi.

Il suo compagno guidava meccanicamente, come un robot, in silenzio, eppure pareva più tranquillo. L’effetto della droga stava scemando. Ora, forse, sarebbe stato possibile ragionare con lui.

La ragazza si sciolse la coda di cavallo e distese i capelli sul petto, accarezzandoli; lo faceva sempre quando era nervosa, e li annusava per calmarsi. Erano gesti che sua madre non accettava e che le costavano sberle e punizioni, da bambina.

All’improvviso, le immagini di un episodio che l’incoscio aveva sepolto – rimosso? - le apparvero in tutta la loro spietatezza. Come poteva averlo dimenticato?

Sua madre? Era stata sua madre?


Era piccola, piccolissima. In età da scuola materna. La madre l’aveva afferrata per i capelli e, dopo averla strattonata tanto da strappagliene un bel pugno, l’aveva trascinata su per le scale, fino alla porta del solaio. Lei l’aveva implorata, avevo puntato i piedi contro ogni gradino, strillando come un animale portato al macello, ma quella donna, sua madre, con il foulard che le era scivolato sulle spalle, scoprendole i capelli scompigliati, era stata inflessibile.

«Ora ti faccio vedere io chi comanda, brutta schifosa! Ora la paghi, così impari a obbedire!»

Era sempre stata bella, sua madre, ma ora le sopracciglia nere parevano tremarle sul viso, in una smorfia di repulsione, come non fosse sua figlia quella che stava maltrattando, ma una pericolosa vipera da schiacciare.

Con la poca forza dei suoi quattro anni, la bambina si ero aggrappata allo stipite della porta, inorridita dal buio e dalle ombre che intravedeva nella stanza. Sul collo, la sua maglietta a righe rosse e bianche si era leggermente scucita e lasciava intravedere i graffi dovuti allo scontro con la mamma.

«Faccio la brava… Non lo faccio più… te li lavo i piatti, te li asciugo… Te lo prometto!»

Uno schiaffo rabbioso l’aveva stordita, tanto che avevo mollato la presa e la donna, svelta, l’aveva spinta dentro, richiudendo la porta a chiave dietro di lei.

La piccola riprese a urlare, ma i singhiozzi le impedivano ormai di articolare le parole, il fiato le moriva in gola, mentre il cuore batteva all’impazzata. Intorno, fiotti di luce penetrati dalle crepe delle persiane balenavano come coltelli, mostrando profili e sagome di mostri, lunghe zampe di ragni, teste di rospi, bisce saettanti, diavoli.

«Mamma… mamma… apri… apri… Non lo faccio più…»

Era ancora lì, sua madre? Era dietro la porta e godeva nel farla soffrire? Certo, era stata una bambina disubbidiente: invece di aiutare in cucina, era uscita in cortile a giocare a pallone con i cugini e gli altri maschi del borgo. I maschi potevano divertirsi. Le bambine no.

Era ancora lì? «Mamma… apri, ho paura!»

Tremava e i singulti le spezzavano le parole. La porta si aprì.

La madre la osservò con gli occhi spenti, con una pezzuola le deterse il volto, controllò i segni bluastri della sua manata sulla guancia, i graffi sul collo, poi le sussurrò: «E adesso taci, non dire niente a tua nonna, né a tuo padre, capito? Dì che hai tirato la coda al gatto…»

Annuì, la piccola, e scese con lei in cucina.

«Questa qui era andata in solaio e si era chiusa dentro, non riusciva più a uscire…», provò a spiegare la madre, poi tornò alle faccende domestiche. Non una carezza a rincuorare la bimba, solo un cupo sguardo di biasimo.

La nonna, però, l’aveva presa in disparte e le aveva detto: «Tua madre è nervosa, sai… il raschiamento… l’emorragia… è stata in ospedale, ricordi?»

Quella parola, “raschiamento”, l’aveva udita diverse volte, ma solo da adolescente ne aveva poi capito il significato.


Quando fu lui, il suo compagno, a prenderla per i capelli e a strapparglieli, scaraventandola contro il muro, per Veronica fu quasi naturale. Fu come tornare a salire quelle scale e precipitare nel buio della soffitta. Lui l’aveva spinta in casa con fermezza crudele, tirandole la treccia, incurante dei suoi lamenti.

Lei aveva alzato gli occhi, ne aveva rapidamente indagato lo sguardo, sorpesa, stordita: in fondo, era uscita soltanto un attimo per salutare un vecchio amico che non vedeva da anni.

Riuscì appena a sussurrare: «Perché?», quando lui la colpì in pieno viso.

Uno schiaffo, poi un manrovescio potente, tanto da farla sobbalzare, la testa spinta all’indietro e il sangue che usciva da un orecchio. Non cadde, perché lui continuava a tenerla per i capelli. Allora, finse di perdere le forze e crollare, tanto che l’uomo mollò la presa.

Lei provò a balzare verso la porta, ma lui la raggiunse e le sferrò un pugno nello stomaco talmente violento da farla piegare in due; poi, le slogò un ginocchio con un calcio e, unendo le mani, la colpì sul capo, facendola stramazzare a terra. Con un ultimo rabbioso calcio, le fratturò un braccio, infine restò lì a guardarla, le mani penzoloni, finché afferrò la giacca e, dopo aver bestemmiato e averla ricoperta di epiteti infamanti, uscì sbattendo la porta.

Lei era rimasta così, stesa a terra, chissà per quanto tempo.

Era svenuta, percepiva l’esigenza di recuperare le forze e la lucidità, tuttavia, si ritrovò sprofondata fino alle voragini di un ovattato delirio.

La parte cosciente di lei non voleva saperne di abbandonarsi a quella immaterialità onirica, a tutta quella serie di immagini che le scorrevano davanti.

La sua anima si agitava, voleva uscire, risalire dal limbo dell’incoscienza e ritrovare il possesso del corpo. Invece no. L’anima scivolò sempre più in basso ed entrò in una sorta di allucinazione visionaria. Sapeva di sognare, eppure soffriva come se fosse vero.

Era di fronte alla porta della camera dei suoi e li osservava, seduti sul letto. Si baciavano e suo padre accarezzava mamma sul volto, sul collo, le scioglieva i capelli e lei diceva no, che doveva andare, che non aveva tempo, che non erano soli: c’era la bambina…

Veronica si era spaventata, aveva provato a chiudere la porta, ma la madre l’aveva vista e si era alzata: «Che vuoi? Perché non sei a fare i compiti? Brutta strega: vai subito in camera tua!»

Le parole del padre, allora, le erano giunte in soccorso: «Dai, lasciala in pace, Marta, vedi che non ha fatto niente di male. Ora l’aiuto io a studiare».

Aveva parlato con la sua bella voce profonda, sollevando un po’ il sopracciglio destro e storcendo leggermente il naso, poi si era scostato i capelli ondulati dal viso e si era messo in piedi, infilandosi la camicia. Era un bel papà, con un portamento energico e uno sguardo che dava sicurezza.

Nel sogno, Veronica pensò che, una volta adulta, avrebbe cercato un marito come lui.

Eppure, c’era quella parola, “raschiamento”, che le creava disagio.

Ricordava anche la nonna che toglieva le lenzuola dal letto dei genitori: erano rosse di sangue… «Emorragia…», aveva sussurrato.