giovedì 31 agosto 2017

CORE - RACCONTO DA SELVA E DA BATTIGIA

http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/gialli-noir/352735/di-giallo-e-dalacri-ombre/

Libro partecipante al concorso "Il mio libro 2017" 
contenente il racconto "Core"

Eccomi. Sono qui, aggrappata alle parole. Passeggio tra le lettere, respiro il profumo dell’inchiostro.
Eccomi sveglia, dopo chissà quanto. Sono sveglia, improvvisamente, e non capisco.
È pergamena la materia che mi circonda, pelle disseccata di pecora. La vedo per quel filo di luce che filtra da una crepa nel legno. Che ci sarà oltre?
Provo ad avvicinarmi. Un muro, e un’altra fessura. Una stanza bianca, pulita, straordinariamente pulita.
Non c’è fuliggine sulle travi, non c’è terra sul pavimento. Ma dov’è il focolare? Perché deve essere una cucina: il profumo di buon cibo è forte. Tanto da svegliarmi.
Incollo un occhio alla fessura. Un occhio? Ho gli occhi? Ma chi, “cosa” sono io? E perché sono qui?
C’è una donna là, nella stanza. È bionda, bella, indossa uno strano vestito, bella, bella, ma pare inspiegabilmente anziana.
Le vecchie non sono mai belle. Lei sì. Bionda, e con un bel sorriso: ha tutti i denti. Canticchia, e maneggia lucide pentole di metallo. Lucide come spade.
Che torpore. Mi sono svegliata, ma non ricordo di essermi addormentata. E dov’ero? Dove sono? Lettere e parole intorno a me, un rotolo di gialla pergamena in cui riesco a scivolare, inciampando appena nei rilievi dell’inchiostro. Sono morta, sono viva: non è tanto diverso; ma non è neanche la stessa cosa.
Mi vedranno? Mi sentiranno?
In fondo, povera e piccola come sono, la gente non mi ha mai visto. Mi incontrava, ma non mi vedeva. Come se fossi già morta. E se sono morta, chissà se anche la morte, come la vita, avrà una fine.
E chissà se adesso mi sarò svegliata in un’altra vita. Afferro con le mani (ho le mani?) un lembo del foglio e provo ad uscirne. Sono rinchiusa tra pareti di legno (una cassa?) illuminate da quell’unica, lunga fenditura. Però, poi, c’è un muro. Sento la polvere della malta.
Sono morta, viva, o pazza; è un sogno? Chi, “cosa” sono?
Fermi! Zitti! Ora c’è un uomo nella stanza, sento la sua voce. L’occhio appiccicato al buco mi si annebbia per lo sforzo, però riesco a vedere le mani dell’uomo, e i suoi fianchi.
È un uomo o un gigante? Deve essere molto, molto alto.
Rotolo, rotolo. Mi avvicino a un’altra crepa, quella nel muro dalla quale mi arriva un forte odore d’erba bagnata e di fiori. Rotolo, rotolo, esco dalla cassa, rotolo verso la luce e l’umido fragrante.
Una vertigine. Cado. La luce mi abbraccia e l’aria mi solleva.

domenica 27 agosto 2017

"IO RIPRESI L'AEREO E LASCIAI L'ETIOPIA"

Si tratta di una mia vecchia intervista del 2002; nel frattempo, Giuseppe Calcagno è morto. Sono felice di aver raccolto per tempo la sua testimonianza
Terre d'Africa


Il dipinto, nelle diverse tonalità del colore del cielo, ritraeva uno zingarello che giocava con un bastoncino. Il “maestro” era nel suo “periodo blu” e allo scolaretto, che sostava sognante dinanzi all’opera, chiese: “Il te plait?”   “Oui, maestro” , rispose il bambino. “Italianito?” continuò Picasso e, alla risposta affermativa del piccolo, staccò il quadro dalla parete e glielo donò.  A quella mostra di pittura a Vallauris, Giuseppe Calcagno  era stato accompagnato dagli insegnanti con tutti i bambini della scuola; aveva poco più di dieci anni e viveva in Provenza da quando ne aveva tre. Da quando il padre, socialista convinto, aveva dovuto abbandonare la sua Torino per “incomprensioni” con il regime dell’ Uomo della Provvidenza, come papa Ratti aveva definito un altro ex socialista di Predappio. Lo incontriamo a Cervarezza, nella sua bella villa di foggia alpina, dove si è stabilito da qualche anno con la moglie dopo aver condotto una vita nomade in vari paesi del mondo. Qui ha ricreato un piccolo angolo di terra provenzale, con gli stessi profumi forti della lavanda, del timo, dell’erba limoncina. “Ah la Provenza! – ci racconta – è il paradiso sulla terra! Mio padre lavorava nella compagnia francese dell’alluminio, la Pechiney, e nel villaggio di operai dove abitavamo erano presenti ben 16 nazionalità diverse. Soltanto gli arabi vivevano separati e ad essi erano assegnate le mansioni più pericolose, che comportavano l’uso del cloro. Ne morivano tanti. Noi, invece, stavamo bene. Ricordo che la mamma apparecchiava sempre per qualcuno in più, perché era normale che a tavola si aggiungessero, di volta in volta, socialisti o anarchici italiani. Ai primi di giugno del ’40, quando gli alpini irruppero nel villaggio, li accogliemmo con una grande festa.”  Nel ’43 la famiglia Calcagno rientrò in Italia, ma alla frontiera venne letteralmente spogliata di ogni avere dalla polizia, compreso il ritratto dello zingarello, dono di Pablo Picasso. Cominciò così una lenta e faticosa risalita, fatta di tanto lavoro, sacrifici, intelligenti intuizioni, che permisero a Giuseppe di conseguire un diploma e cominciare un’attività di venditore all’estero per conto di grandi ditte. “L’unico paese dove mi sono fermato soltanto per ventiquattrore è l’Etiopia- continua Giuseppe- erano gli anni ottanta e il mio primo incontro ad Addis Abeba fu con i soldati cubani di Fidel.
Stavano maltrattando dei bimbi che giocavano su un marciapiedi; intervenni chiedendo spiegazioni. Mi aggredirono insultandomi;  io ripresi l’aereo e lasciai l’Etiopia.” I corpi di spedizione cubani, insieme con navi ed aerei dell’Armata Rossa, erano in Etiopia dal ’77 per respingere le offensive del Fronte di liberazione dell’Eritrea (anch’esso marxista- leninista come il regime etiopico) e dell’esercito somalo. Negli anni successivi  la politica dissennata e violenta di Menghistu portò alla completa catastrofe agricola, amplificata dalla siccità, che sprofondò il paese in una miseria inenarrabile. Soltanto “Médicins sans frontières”  ebbe il coraggio di opporsi agli inutili e controproducenti aiuti internazionali, compresi quelli, famosi, della campagna delle rockstar americane, interpreti dell’inno We are the world che, ancora nel 1985, foraggiarono il dittatore lasciando a mani vuote il suo popolo. Ma sono tanti i popoli e i paesi di cui ci narra il signor Giuseppe, e il suo racconto è “affollato” e difficile da dipanare:“ In Afghanistan arrivai per caso, perché in Iran avevo incontrato l’architetto generale della città di Kabul. L’Afghanistan era poverissimo, ma meraviglioso, impressionante per la gentilezza, la pulizia e l’onestà della gente.

martedì 22 agosto 2017

QUANDO I NAZIFASCISTI USAVANO IL FUOCO: LA COOPERATIVA BRUCIATA DI FELINA

A Felina, e nei paesi limitrofi, quell’edificio lo si è sempre definito “cooperativa bruciata”, anche se il giusto
La Casa del Popolo, poi cooperativa di consumo di Felina
appellativo sarebbe “Ca’ Martino”. Tuttavia, il motivo del presunto incendio cui fa riferimento il nome - e la dinamica stessa dell’evento - sono sconosciuti ai più.
Sembra che nel centro abitato, nel corso degli anni, nessuno ne abbia mai parlato, quasi ci fossero ambiguità da occultare, oppure dolori troppo pesanti da accettare. Intanto, vediamo cos’erano le cooperative di consumo come quella di Ca’ Martino.
La prima nacque nel 1854 a Torino: era uno spaccio dei “magazzini di previdenza”, sorto per difendere il potere d’acquisto dei consumatori attraverso l’acquisto della merce direttamente dai grossisti, rivendendola poi ai soci a prezzo di costo. Nel decenni seguenti, queste cooperative divennero realtà radicate in tutt’Italia. In provincia di Reggio Emilia, la prima fu costituita a Fabbrico nel 1886, mentre quella di Ca’ Martino venne inaugurata nel nel 1908; a quella data fa riferimento un libro sulla cooperazione in cui si parla, infatti, della costituzione della “Cooperativa di Consumo, Produzione e Costruzioni casa del Popolo di Felina”, attiva poi anche durante il fascismo e ancora nel 1946. Il sovrapporta di ferro battuto, datato 1906, è ancor oggi al suo posto.
Alla guida della Lega delle Cooperative, era giunto, nel 1912, Antonio Vergnanini, socialista, interprete di una linea di dialogo con il fascismo per provare a tenere in piedi ciò che si era creato. L’avvento del fascismo, però, significò violenza squadrista e irreggimentazione nel nuovo assetto totalitario del sistema cooperativistico.
Le cooperative di consumo erano state pensate come centro della vita sociale dei soci: vendita di generi alimentari, bar, circoli ricreativi, attività assistenziale. Difatti, in quella di Felina c’era pure un salone adibito a “teatro”, dove recitava la “Filarmonica” del paese.  
Eppure, dell’incendio e dei suoi perché, in seguito nessuno proferì parola. Persino il motivo dell’intitolazione di “Via Maiotti”  alla vittima – strada che, a fianco dell’edificio, si addentra nella borgata - pare rimosso dalla memoria popolare.
I genitori del giovane Daniele Ghirelli, per esempio, sono cresciuti proprio lì, ma più di tanto non sapevano; è toccato a lui, il nipote, il privilegio di raccogliere le confidenze dei nonni, ed è lui che ci riferisce una prima versione di quell’evento: “Ero ancora un bambino quando me lo raccontarono, ma mi ricordo piuttosto bene le parole di nonna Laura Manfredi e del mio bisnonno Remo Manfredi. All’epoca, abitavano nella casa a fianco della cooperativa. Mi dissero che, a seguito dell’uccisione di due soldati tedeschi chiamati ‘mongoli’ (russi di provenienza asiatica che avevano disertato e si erano arruolati nell’esercito tedesco), erano confluite a Felina alcune truppe d’assalto tedesche per operare rastrellamenti. Prima di incendiare la cooperativa fu ucciso il gestore, che non aveva rivelato informazioni riguardo ai partigiani e ai loro nascondigli. L’azione fu condotta principalmente da truppe d’assalto tedesche (sia Wehrmacht che SS), con la collaborazione dei tedeschi del presidio. Erano presenti alcuni militi fascisti della Gnr e un sottufficiale, che si limitarono a guardare e non ebbero parte attiva. Ricordo che mia nonna mi riferì di un giovane milite proveniente da Reggio, il quale era disperato, angosciato per le conseguenze personali che avrebbe potuto subire. Stando ai fatti, credo si possa parlare di eccidio nazifascista in quanto la componente fascista era presente e appoggiò l’azione, anche se fisicamente l’uccisione e l’incendio furono opera dei tedeschi.”
Ma chi era Clarenzio Maiotti, il gestore, il “banconiere” che venne trucidato? Ce lo riferiscono due dei nipoti, i cugini Eliseo Incerti e Graziella Canovi.
Intanto era un falegname, bravissimo a fabbricare mobili di pregio; la professoressa Cleonice Pignedoli, ricercatrice storica per Istoreco, dice di avere ancora in casa un bell’armadio realizzato da Clarenzio. Graziella, la nipote, ricorda di aver accompagnato il nonno nel suo laboratorio, dove ancora si dedicava al suo mestiere, pur gestendo la cooperativa.
Come capo falegname, Maiotti aveva lavorato alla costruzione della diga e della centrale idroelettrica di Ligonchio, iniziata nel 1919 e terminata circa dieci anni dopo, per cui Clarenzio si era trasferito a vivere a Giarola, con tutta la famiglia. I figli più grandi avevano frequentato dunque le scuole sul crinale, fino a che tutti erano tornati a Felina.

PAOLO CAVECCHIA: IL SEMINARIO, LA TUNISIA, TANTI FIGLI E L'AMORE PER LA PACE

Paolo Cavecchia con la seconda famiglia
Avrà avuto circa sette anni, Natalina, quando vide quell’uomo comparire sull’aia. Smise di giocare e lo osservò avvicinarsi: era vestito come un vero signore, aveva un “borsalino” in testa e due bei baffoni. “Chi sei?”, le disse. La bimba non si scompose: “Sono la figlia della Lisa.”, e lui: “ La tua mamma dov’è?”, “Nei campi a lavorare...”, “Bene, portami da lei.” La bimba si alzò, poi, un po’ incerta, gli chiese: “Ma tu, chi sei?”, l’uomo sorrise: “Sono il tuo babbo...”. Natalina lo prese per mano e lo condusse da mamma Elisa.
Paolo Cavecchia era tornato; il babbo di Natalina era tornato.
Il signore (che pareva un possidente), era nato nel 1882 a Fontanaluccia, in una famiglia di contadini. Dopo la morte prematura del padre – originario della Val D’Asta – era stato costretto a spostarsi quotidianamente alla Macchiaccia, con la madre, per lavorare in un podere enorme, di quelli necessitano di molti braccianti.
Il padrone era soprannominato “Macchiacin” e le sue terre andavano da Fontanaluccia fino a Montefiorino, comprendendo anche il paese di Riccovolto. Il signor “Macchiacin” (Stefani?) si accorse presto quanto quel ragazzetto fosse sveglio, troppo dotato per restare tutta la vita nei campi, e suggerì alla madre di fargli proseguire gli studi: “Avessi avuto i soldi per farlo studiare, non sarei certo qui a lavorare.”, rispose lei. “Macchiacin” non si scompose: quel bambino doveva assolutamente andare a scuola, pertanto si offrì di pagargli la retta del seminario di Marola.
Latino, greco, filosofia, francese e tutte le altre materie del ginnasio vennero affrontate senza problemi dal giovane Cavecchia, tanto che si diplomò nei tempi prestabiliti. Anche la musica, l’opera e il canto gregoriano lo appassionarono e divennero parte del suo bagaglio culturale. Poi, però, c’era da scegliere: diventare sacerdote, o abbandonare per sempre la talare, vestiario obbligatorio per tutti gli studenti del seminario?  
Aveva dei dubbi, il giovanotto, dubbi che riguardavano il celibato: “Al nonno piacevano troppo le donne”, sostiene oggi, ridendo, il nipote Flavio, che ci ha aiutati a ricostruirne la storia. Comunque, il rettore ascoltò Paolo e lo consigliò di diventare un buon padre di famiglia: “Molto meglio che un cattivo prete!”, gli disse, così Paolo tornò sui monti a lavorare la terra.  
Prima, però, cercò lavoro a Genova, dove già viveva la sorella Carola. Lui, che parlava e capiva il francese e il latino, a Genova si trovò immerso in una lingua indecifrabile. Girovagando per la città con un amico, s’imbattè in un cantiere; si avvicinò ai muratori e domandò se avessero bisogno di operai. Quelli lo guardarono perplessi, mostrando di non capire una parola d’italiano, e gli risposero in dialetto stretto: a lui sembrò che dicessero “masacàn”, ma ancora non sapeva che indicasse proprio il “muratore”. Il capocantiere, più “erudito”, si rivolse ai due giovani in un italiano stentato, chiedendo s’erano “capaci a portar pietre” e Paolo rispose: “Be’, se non sono troppo pesanti...” Paolo, dunque, rimase per un periodo a lavorare a Genova e, per imparare il dialetto, si comprava – e leggeva regolarmente - due giornali (‘U Balilla e ‘U Tramvai) scritti in genovese.