sabato 27 febbraio 2021

ENZO CRISPINO - LA FOTOGRAFIA E LA POESIA DEI NON LUOGHI

 


Certi luoghi li sentiamo nostri, li riconosciamo e li respiriamo anche se mai, prima, li avevamo frequentati. Capita così, come capitano i “déjà vu”: un improvviso, travolgente senso di soprannaturalità, di familiarità con qualcuno o qualcosa a noi sconosciuto.

Sensazioni che Enzo Crispino ricorda di aver avvertito subito la prima volta che la sua fidanzata, originaria di Montecastagneto, nel comune di Castelnovo ne’ Monti, lo ha condotto sul nostro Appennino. Enzo Crispino è un fotografo autodidatta che potrebbe situarsi tra la “urban exploration” - abbreviata in “urbex”, cioè l’ “esplorazione urbana” - e la “street photography”; è uno di quei fotografi che sanno guardare sia alla totalità dei luoghi, sia a ogni singolo dettaglio, anche al più insignificante, come se fotografare fosse soltanto un atto secondario. Uno di quelli che sa cogliere il contrasto tra la bellezza e il decadimento e focalizzarsi su particolari che poi risultano fondamentali per ottenere foto straordinarie.

Nato a Frattamaggiore, in provincia di Napoli, Crispino risiede da tempo nel reggiano. Fu la zia, che abitava a Cavriago già da molti anni, a suggerire a Enzo e al fratello gemello, allora ragazzini, di venire a vivere con lei. In quel periodo, in Campania, i bambini che lavoravano illegalmente erano 90.000 e, nella sola Napoli, secondo uno studio condotto allora dall’Azione Cattolica, se ne contavano 35.000. I genitori dei due ragazzi, che avevano altri sei figli, volevano offrire loro migliori opportunità di crescita e di vita, così accettarono l’offerta della zia, sorella del padre.


Da quel momento, la vita di Enzo cambiò: la scuola, un lavoro e poi, ultimamente, una passione che lo ha portato a diventare il protagonista di mostre fotografiche personali e collettive, sia nazionali, sia internazionali (una anche a Palazzo ducale, a Castelnovo ne’ Monti).

I suoi progetti fotografici sono stati pubblicati in Italia, Francia, Inghilterra Germania, Austria, Stati Uniti e Australia. Un successo che il ragazzino di Frattamaggiore non avrebbe forse mai immaginato di ottenere.

venerdì 5 febbraio 2021

PLUTO E L'AMORE PER LE PECORE - STORIE VERE DAL BOSCO DAL CIELO E DAL FIUME

 


Vincenzo meditò di procurarsi un cane da pastore già ai tempi della capra bianca, quella scappata sul Ventasso e diventata, ormai, una leggenda.

Successe una decina d’anni fa, ed è un fatto che già abbiamo raccontato: un cane randagio spaventò la capra bianca e le altre intente a brucare, beate, nei pressi dell’agriturismo di Rio Riccò, inducendole a fuggire.

Se ci fosse stato un cane da pastore (anzi: un cane da protezione, che ha competenze in più), il randagio si sarebbe trovato in grosse difficoltà, perché il cane da protezione non ci pensa due volte a dare la vita per il suo gregge. Addirittura per gli asini, in alcuni casi, negli allevamenti, presi di mira dai lupi. Ci sono infatti cani che non aspettano indicazioni e non hanno bisogno di segnali dal padrone; cani che sanno già cosa fare, così che non è la volontà dell’uomo a guidarli, ma la loro.

Hanno grande dignità, fierezza, intuizione e istintivo senso di responsabilità.

Se Vincenzo avesse avuto un cane simile, la capra bianca non sarebbe fuggita.

Nobili, indipendenti e molto equilibrati, se educati bene, sono ostinatamente irremovibili.

Stiamo parlando di loro, dei pastori maremmani abruzzesi; cani che in realtà non ti ubbidiscono, ma decidono di compiacerti. Scelgono di fare come vuoi tu, però a decidere sono loro.


Quando su questi cani si raccontano misfatti, si tratta, in realtà, di cuccioli ai quali è stato permesso di ascendere nella scala gerarchica ‘di casa’, nei confronti dell’essere umano, prima che compissero un anno di età. Mai concedergli, in quel periodo, a detta degli esperti, di sentirsi capobranco: nel momento in cui un maremmano stabilisce di essere il capobranco, rispetto all’amico umano, subentrano i problemi. Invece, se cresciuti come si deve, l’appagamento del rapporto ‘alla pari’ che dà un cane di quella razza si dice che sia unico.

Autonomi e un po’ selvatici, si pongono come alleati e collaboratori del padrone, amando le pecore più del pastore e più di sé stessi, quasi per un secolare marchio atavico conservato nel cuore.

Belli, con il foltissimo pelo bianco - così simile al vello delle pecore - quando sono sdraiati a sorvegliare il gregge, distaccati e pacifici, li si percepisce del tutto integrati nella natura, come un qualsiasi animale selvatico. I loro occhi neri con il taglio a mandorla, un po’ orientali, paiono narrare storie arcaiche. In effetti, il cane da pastore maremmano abruzzese e il patou, o pastore dei Pirenei, (quello del romanzo e poi film ‘Belle e Sebastién’) non sono altro che una derivazione di un altro antico cane da pastore (per millenni meticcio) che da un po’ di anni è stato riconosciuto dalla ‘Federazione cinofila internazionale’ con il nome di ‘cane da pastore dell’Asia centrale’.

Quella del maremmano abruzzese è davvero una razza straordinaria e lo sapeva anche il proprietario dell’agriturismo di Rio Riccò da dove era fuggita la capra bianca. Certo, però, probabilmente non immaginava di cosa sarebbe stato capace il cane che poi si procurò.

Dunque, riepilogando, un bel giorno Vincenzo, che aveva comperato anche le pecore, decise di portare a casa un cane da guardiania, perché un pastore che si rispetti deve averne uno.

Guardiania, cioè protezione: sono cani che hanno il compito di proteggere il gregge, impiegati da millenni come custodi delle pecore, con un comportamento difensivo, non aggressivo, mentre il cane da pastore - o da conduzione – sa soprattutto condurre e ‘comandare’ il gregge.


Di quest’ultimo, un cane da conduzione, ci parla il nostro investigatore naturalistico Umberto Gianferrari: “Avevo conosciuto, anni fa, un pastore di Monteorsaro soprannominato ‘Mucchia’, nel senso dell’imperativo ‘ammucchia!’, che era l’ordine da lui dato al cane quando era ora di radunare le pecore. Il nostro ‘Mucchia’ mi raccontava, ormai vecchio, di aver avuto un gregge di cinquecento pecore. Al mattino si alzava, liberava le sue pecore dall’ovile, prendeva la strada per andare in Cusna e saliva lassù, fino ai Prati di Sara, luogo veramente incantevole, dove le sue pecore pascolavano indisturbate. All’epoca non si sentiva parlare di lupi, li avevano sterminati tutti, mentre vi si trovavano, in certi periodi dell’anno, da settembre ad aprile, i pivieri dorati, uccelletti migranti che possono provenire dall’Islanda, dalla Groenlandia, dalla Siberia e che scelgono l’Italia per svernare. Giunto lassù, Mucchia lasciava a guardia del gregge una cagna, una bastardina uguale a tutti quei bastardini che i pastori allevano da un anno all’altro, scegliendo il migliore della cucciolata, e scendeva di nuovo a Monteorsaro.

giovedì 4 febbraio 2021

LA LUCE DELLA PIETRA DI BISMANTOVA - ALESSANDRO COLOMBARI E LA SUA ARTE

 



Era ancora un ragazzino, quando si perdeva ad osservare la cugina Maria Pia che dipingeva quadri a olio. Fu lei a regalargli una cassetta con i tubetti dei colori che, però, finì presto dimenticata nel solaio. Intanto, Alessandro Colombari cresceva e studiava.

Nato nel 1966 a Castelnovo ne’ Monti, lì, nella frazione di Maro, ai piedi della Pietra di Bismantova, ha sempre vissuto e abita tutt’ora con la moglie Michaela.

Disegnare e dipingere erano le attività in cui riusciva meglio durante la scuola media; era davvero bravo, perciò, una volta diplomato, scelse di frequentare a Castelnovo l’Istituto tecnico per geometri, scuola che, secondo lui, dava più spazio e valore al disegno.

Terminato il percorso di studi, Alessandro, grazie al suo profilo tecnico, trovò lavoro in una importante casa di moda reggiana (Fashion Group, la si definisce con termine inglese).

Ma la cassetta dei colori lo aspettava in solaio. Erano gli anni Novanta, e Alessandro li rinvenne, quei tubetti di colori a olio della cugina, così cominciò a usarli.

Nell’aprile del 1995, la sua prima mostra personale fu ospitata dalla galleria della signora Crovetto, di fianco alla Cartolibreia Casoli, a Castelnovo. Negli anni seguenti, altre mostre, personali e collettive, accolsero le sue opere nel capoluogo della montagna.

Di lui scrisse allora l’artista Roberto Mercati: “La cornice è quella naturale della Pietra, la culla è questo antico borgo medioevale a pochi chilometri da capoluogo montano. Ambienti antichi e rurali dove ancora, facendo un giro in bicicletta intorno al masso dantesco si possono davvero gustare i caldi sapori e la bellezza della vita contadina che, come in ogni altro paese della montagna, senza troppo rumore vanno perdendosi”.


Dopo aver iniziato dipingendo su ordinarie tele comprate nei negozi qualificati, Alessandro ha in seguito intrapreso la preparazione dei supporti: tavole di legno e tele. L’imprimitura, la preparazione che precede la pittura, può essere fatta non solo su tela, ma anche su cartoni telati, su tavole di legno e, per assurdo, anche su carta o su un sacco. Il nostro artista ha dunque imparato a usare diversi materiali, dalla sabbia, alla colla, al gesso e, ultimamente, ha utilizzato come supporto addirittura i teli del caseificio, quelli nei quali viene raccolta la cagliata che diventerà la forma del parmigiano reggiano.

A proposito dei materiali usati, dice ancora Mercati: “Nell’interno dell’artista c’è proprio l’idea di poter creare un effetto antico, storico, per riprendere la storia vissuta dai nostri avi ed il sacco, in questa operazione, è di per sé un materiale molto adatto, povero e fortemente evocativo. Osservare un’aia, un cortile da lui dipinto è come tuffarsi nel passato della cultura contadina che anche a detta di Alessandro andrebbe salvata e conservata in tutti i suoi aspetti: non solo materiali ma anche culturali , con i suoi dialetti e terminologie.”


Il soggetto principale dei suoi quadri è la Pietra, soprattutto vista dal versante “bismantovino”, quello verso Maro, quello che Alessandro ha avuto negli occhi e nel cuore fina dalla nascita. “Ogni volta che guardo la Pietra mi dico che è sempre più bella”, ci confida, “e ogni volta che torno a casa è una emozione sempre diversa. Ombre, luci, anfiteatri… è una meraviglia. Lo sostengo convintamente: se in Trentino avessero la Pietra, chissà cosa farebbero!”

È guardando a lei, alla rupe di Bismantova che Alessandro Colombari, in collaborazione con la moglie Michaela Kadanikova, ha avuto l’idea di costruire un sito dedicato all’Ars Bismantova (www.arsbismantova.eu) in cui raccogliere le sue opere e tutto ciò che potrebbe servire per promuovere il territorio grazie all’arte legata alla Pietra.

Proprio il 29 giugno scorso, è stata riattivata la fontana pubblica situata vicino a piazzale Dante e, in concomitanza con la riapertura, una scultura lignea opera di Alessandro, raffigurante un rocciatore in arrampicata, è stata posta lì accanto. Perché il nostro artista sa anche scolpire. E sa arrampicare.