venerdì 15 ottobre 2021

L'ITALIA FU OPERA DI UN POETA - DANTE ALIGHIERI


Lo battezzarono Durante per augurargli di saper “durare” a lungo, reagendo con forza alle difficoltà della vita. Era infatti nato in un periodo in cui era arduo conquistare i settant’anni di cui parla la Bibbia, “ottanta per i più robusti”; siamo nel 1265, quella speranza era solo una chimera. “Durante”, nome augurale, perché fosse più fortunato di Bella, sua madre, scomparsa giovanissima o, a detta di qualche dantista, morta nel metterlo al mondo. “Durante”, nome un tempo diffuso anche in Appennino, visto che, dagli studi della professoressa Maria Teresa Cagni, risulta un Durante Bernardo Cagni del 1894 a Frascaro, frazione di Castelnovo ne’ Monti, dove pure la famiglia Muzzini ha ben tre persone di nome Dante nell’albero genealogico. Ma su Dante e Frascaro torneremo più avanti.

L’aspetto fisico del poeta

Non esiste un atto di nascita di Durante (Dante) Alighiero degli Alighieri, così come quasi nulla ci è stato tramandato dell’infanzia e del suo vero aspetto fisico. Sappiamo solo che fu battezzato il 26 marzo 1266, giorno del Sabato santo. Di lui ci sono giunti due soli ritratti, attribuiti a Giotto, uno nella Cappella del Podestà del Bargello a Firenze e un altro a Padova, nella Cappella degli Scrovegni: il volto è meno affilato e il naso e il mento sono più regolari rispetto all’iconografia consueta. È vestito con il lucco rosso ornato di vaio bianco, indicatore del ceto sociale e dell’Arte cui i cittadini appartenevano; i medici, i giudici e notai, ad esempio, indossavano abiti rossi. La “laurea”, la corona sul capo, aggiunta nei dipinti seguenti, indicava invece il trionfo della poesia. In realtà, Dante non si laureò mai, eppure diventò il poeta per eccellenza, rinomato in tutto il mondo, nonché il padre della lingua italiana. Dal 2007, noi conosciamo, finalmente, il vero aspetto di Dante grazie al lavoro di tre equipe delle università di Bologna e Pisa. Il loro studio si è basato sui dati raccolti da due antropologi nel corso della ricognizione sui resti del poeta nel 1921. In base a quella relazione è stata poi realizzata una ricostruzione del cranio, modellandone il capo in tre dimensioni. La fisionomia convenzionale del poeta deriva da un lungo succedersi di ritratti più psicologici che reali, il cui stereotipo basilare fa capo a Boccaccio, il quale, tuttavia, non aveva mai visto l’Alighieri: “Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo, e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso”. Un Dante scuro, barbuto e nero, in quanto aveva attraversato l’inferno: un ritratto originato dalle storielle che si raccontavano su di lui e che Giovanni Boccaccio aveva udito. Il vero volto si presenta, invece, con tratti più armoniosi e il naso probabilmente rovinato da un colpo, forse un pugno che ne aveva deviato il setto. Il fatto che Dante fosse un po’ gobbo è l’unica diceria che ha fondamento, perché un nipote del poeta, Andrea Poggi, ben conosciuto dal Boccaccio, si diceva somigliasse molto allo zio e, come lui, camminasse curvo.

giovedì 14 ottobre 2021

I MAESTRI DELLE ELEMENTARI CHE FECERO L'ITALIA - STORIA DI ALDA E NELLO

 

Potremmo definirli “maestri di frontiera”: sono tutti quelli che, tra il primo e il secondo dopoguerra, accrebbero in modo rilevante l’alfabetizzazione della popolazione, con un dispendio di energie che oggi sarebbe impensabile. Se avessimo potuto intervistarli tutti, avremmo ricavato testimonianze omogenee. Maestri “di frontiera” in quanto raggiungevano gli avamposti più remoti, non solo isole o montagne sperdute, ma anche i borghi del nostro Appennino, luoghi marginali perché quasi inaccessibili, nonostante la relativa vicinanza ai centri più grandi.

Infatti, i concetti di distanza, isolamento, separazione sono mutati solo dopo gli anni sessanta, con la costruzione delle strade e, più recentemente, con l’avvento delle nuove tecnologie telematiche.

Qualche dato: nel 1951, in Italia, su poco più di 47 milioni di abitanti, 7.581.622 anziani erano analfabeti, 13.037.627 adulti erano privi di titolo di studio anche se sapevano leggere qualcosa, 24.946.399 avevano la licenza elementare (anche solo la terza) e 3.514.474 possedevano la licenza media inferiore, mentre 1.379.811 erano i diplomati e solo 422.324 i laureati.

I “maestri di frontiera” hanno concorso a rimettere in piedi la nazione con un lavoro silenzioso e forse mai abbastanza riconosciuto. Abbiamo raccolto due di queste storie, quelle dei maestri Alda e Nello, proprio per ricordare anche tutti gli altri che hanno percorso i nostri monti e colline, e la natura in fondo “pionieristica” della loro azione pedagogico didattica e pure biografico esistenziale.




La scuola popolare per adulti a Febbio fu la prima esperienza di insegnamento per la Alda Roffi, diplomata nel 1955 all’istituto magistrale di Reggio Emilia. La giovanissima maestra aveva trovato alloggio a pensione lassù e tornava a casa al sabato mattina, neve permettendo. “I miei studenti mi prendevano in giro perché regolarmente, ogni sabato, quando aprivo la porta, trovavo un muro di neve. Una volta, per varcare la neve fino alla corriera, mi caricarono su un asino. Un’altra volta, mi diede un passaggio il dottore ma, su un ponte, l’auto cominciò a sbandare e io mi presi un grande spavento. Poi, ci fu una frana enorme, per cui si doveva prendere una corriera fino al cedimento della strada, camminare sulla frana, infine salire su un secondo autobus che aspettava dall’altra parte.”