giovedì 5 febbraio 2015

"COME SPICCHIO DI MELAGRANA - MATILDE, DONNA DEL MEDIOEVO" LIBRO VINCITORE DEL SECONDO PREMIO SILVIO D'ARZO


PROLOGO


Marola, Monte Borello, anno domini 1089

Era proprio un lupo.
Fermo, gli occhi metallici, pervasi d’apparente inermità, lo fissavano.
Il pelo, lungo e scuro, si sollevava sul petto, accompagnando gli sbuffi di vapore fuori dai canini serrati.
Era un lupo; immobile, e pareva enorme, seduto accanto all’altro animale bagnato di sangue.
Lo guardava, e in quegli occhi scorrevano il vento e il tempo delle stelle, la neve dell’inverno e il bollore estivo, le piume dei nidi e l’esalazione tiepida del letame.
Fermo, come un dio antico, stava lì, illogicamente - lui, belva - a proteggere un cinghiale ingannato dalla tagliola. Tutt’intorno si levava un puzzo di fango, di foglie di castagno e il felpato profumo della guazza.
L’eremita si avvicinò. Estrasse uno zufolo dal mantello. Non ne uscì alcun suono, quando vi soffiò dentro, eppure il lupo parve avvertire qualcosa.
Mosse le orecchie, annusò l’aria; sbadigliò, tirando fuori la lunga lingua, e chinò il muso.
L’uomo ripose lo zufolo. Si avvicinò ancora e gli parlò piano, come in preghiera.
Bello, quanto sei bello amico mio. Non aver paura.
Non si mosse, il lupo, superbo. Bambino e schivo negli occhi. Abbassò ancora il capo, ma impercettibilmente, quasi annuendo.
            Bello, non aver paura; vediamo cos’è successo al cinghiale, vuoi?
Dignitosamente, il lupo scosse la pelliccia liberandola dall’umidità, poi si rizzò e, con misura, si avvicinò all’uomo.
            Con misura, l’eremita fece ancora un passo verso di lui, si curvò, pose un ginocchio a terra e aspettò che la bestia gli fosse proprio di fronte, fino a sentirne il fiato umido e l’odore pungente.
            Lo accarezzò; lui reclinò le orecchie e guaì piano.
            Bravo, amico, bravo. Guardiamo cos’è successo al cinghiale.
Come di comune accordo, a passi lenti, uomo e lupo si accostarono al mucchio di pelo e sangue avviluppato dai rovi.
            È morto, vedi? Era un cinghiale giovane, inesperto. Non respira più. La tagliola gli ha rotto l’osso del collo.
            Il lupo osservò la bestia, poi l’uomo; scrutò intorno annusando l’aria e, inaspettatamente,  divenne irrequieto; negli occhi bambini si accese un galoppare smanioso di luci.
            Dal cielo stillava, intanto, pioviggine invisibile di nevischio.
Una foschia rada, cotonosa, sostenuta dal vento, si abbarbicava alle cime degli alberi, rotolava nelle radure e, come stormo di colombi confusi, turbinava sull’erba secca.
D’improvviso, il lupo puntò in direzione dei castagni e sparì, a passi morbidi, quasi in volo.
            L’eremita sorrise, lo salutò con la mano e si girò verso la preda.
            Ti ho preso. Lo sapevo che la siepe non ti avrebbe fermato. Dopo il tasso, ora è toccato a te. E la tua carne mi basterà per un bel po’. E i miei cavoli, fino al prossimo ladro, saranno salvi.
Cavò un lungo coltello dalla cintura e ne infilzò la lama tra il capo e il tronco della bestia; poi sollevò l’enorme tagliola, la bloccò e ne estrasse la preda.
Non mi resta che portarti alla mia capanna, scuoiarti e ridurti a fettine da far seccare. Accenderò un bel fuoco di ginepri e appenderò lì innanzi la carne. L’aria, il gelo e il fumo del focolare basteranno, visto che sono senza sale. Sei anche bello grasso, il che non guasta.
Si coprì il capo col cappuccio e s’incamminò, trascinando l’animale in direzione di quella che sembrava una costruzione in pietra, giù, oltre il castagneto.
Ogni tanto si fermava, scacciava le cornacchie che becchettavano i grumi di sangue sulla bestia, controllava il tronco delle piante, ne esaminava le scortecciature e le abrasioni - forse dovute ai palchi dei cervi e alle zanne dei cinghiali - e scuoteva il capo.
Alla marchesa non piacerebbe vedere questo scempio, bisbigliò. Devo suggerirle, quando tornerà, di permettere ai villani di cacciare in queste zone, perché i lupi non riescono a contenere la crescita della selvaggina e i castagni ne soffrono. Però aveva ragione quando insisteva perché si piantasse questo castagneto… quanti poveri stiamo già sfamando!
In terra, tra le foglie, alcuni ricci sfuggiti alla raccolta, o caduti in ritardo dagli alberi, custodivano ancora poche, piccole castagne.
L’uomo ne raccolse alcune, le spellò a dentate e prese a rosicchiarle. Erano acquose, croccanti, di sapore acidulo, vagamente alcolico.
Sono già in amore, mormorò tra sé; quelle che scamperanno al gelo e agli animali germoglieranno e tante nuove piante ingrandiranno il castagneto. Poi dovrò innestarle… Ah! Chi avrebbe pensato, quando ho cominciato, che questa terra rossa, appiccicaticcia, dura sotto il sole, avrebbe dato così tanti buoni frutti?