ESAI DELLE RONDINI
C’era una volta una mamma che
viveva vicino a una sorgente, ai limiti del deserto.
Aveva appena messo al mondo il
suo bambino, il piccolo Esai (che significa ‘dono’), e se ne stava, tutta sola,
in una povera capanna di paglia e fango, addossata a una palma da datteri, insieme
alle pecore, alle caprette, ai colombi, a una mucca, un gallo, due galline e un
gatto rosso.
Il marito era dovuto partire
prima che il bimbo nascesse: il suo mestiere richiedeva spostamenti e, da mesi,
era andato a prestare la sua opera come carpentiere al palazzo del re.
La reggia era molto distante,
nella grande città capitale del reame, e l’uomo sarebbe ricomparso solo a
lavoro concluso. La moglie aveva una vecchia madre, tuttavia questa viveva
lontano, sulle rive del lago dall’altra parte del deserto, insieme alla figlia
più giovane e al genero che, di mestiere, faceva il pescatore. Era partito con
il pianto nel cuore, il falegname, perché sapeva quanto sarebbe stato difficile
per la moglie, finalmente incinta, occuparsi di tutto e in perfetta solitudine.
Soltanto dopo diversi anni e
tante preghiere, tante suppliche all’Altissimo perché concedesse loro il dono
della vita, Esai era comparso nel grembo della mamma e il sogno si era avverato.
Era nato con lunghi capelli
rossi, del tutto identici al pelo del gatto, e grandi occhi blu.
Sorrideva sempre. Guardava la sua
mamma e sorrideva. «Ridi, ridi, piccolo mio, mio tesoro. Sei venuto da lassù, e
il cielo ti è rimasto negli occhi», lo vezzeggiava lei, mentre lo allattava,
legato nella fascia, e, intanto, attingeva l’acqua alla fonte.
La capanna era piccola, con una larga
tenda dinanzi che la riparava dal sole. Sotto quella tenda, tre pietre
costituivano il focolare su cui poter preparare i cibi. Bathsheva, la mamma di
Esai, cuoceva ogni giorno il suo pane sulle pietre, prima di portare le bestie al
pascolo e poi ad abbeverarle alla fonte. Con il marito Hadas, aveva potuto
costruire la propria abitazione vicino all’acqua in cambio di una promessa agli
esattori del re: i due sposi, oltre a occuparsi del pascolo, avrebbero irrigato
anche un campo di grano, dopo averlo arato e seminato, per poi portarne tutto
il ricavato alla reggia.
Perfino il letame della mucca,
ben essiccato, la giovane Bathsheva doveva ammonticchiarlo e poi consegnarlo
agli esattori, perché sarebbe stato utilizzato come combustibile per le cucine della
reggia. A ogni primavera, nell’umile capanna arrivavano le rondini. Fabbricavano
tanti nidi sotto il tetto di paglia e sapevano che nessuno si sarebbe lamentato
per la loro presenza, sapevano di essere ospiti gradite. Sapevano che i padroni
della casupola non le avrebbero allontanate a causa dei bisognini dei loro
piccoli che imbrattavano di bianco le pareti. Bathsheva avrebbe semplicemente
ricoperto di fango quegli schizzi e le avrebbe salutate alla loro partenza, non
come il re, che dal palazzo le aveva cacciate:«Forza, uccidete quei maledetti
uccellacci!», aveva ordinato alle guardie, «Sporcano i miei marmi preziosi!
Via!» Così, le guardie avevano distrutto tutti i nidi, e le rondini erano
fuggite nel deserto.