giovedì 29 febbraio 2024

ACQUA BIANCO LATTE ALLA CAMERA DELLA MADDALENA - BERGOGNO/ DOVE FORSE C’ERA UNA GROTTA

 

"Latte di monte" alla Camera della
Maddalena, foto di Roberto Ronchetti

Da un fenomeno curioso, spunti di riflessione sugli antichi culti delle divinità femminili, passando per Santa Maria Maddalena, la santa delle grotte, per poi arrivare alla Madonna del latte o della neve: la “Virgo lactans”

La giornata è gelida, senza nubi, perfetta per un’escursione in quel di Bergogno, giusto a un mese dal solstizio d’inverno. Nel parcheggio l’auto segna 5 C° e sappiamo che saranno certo di meno al bosco della Péntoma e alla “Camera della Maddalena”. Scendiamo lungo le pieghe basse dei monti, seguendo il “Sentiero Matilde”: intorno, poderi curati e resti di quelle che erano le “piantate” della vite maritata agli “oppi”. D’altra parte, Bergogno era il granaio di Matilde e il suo microclima è idoneo anche per la produzione del vino. Ad avere senz'altro favorito la sua prosperità è la sua posizione su una via un tempo fondamentale. Il pensiero va a Pietro Gambarelli, alle sue ricerche e al suo impegno nel recupero del bosco della Péntoma, toponimo che significa “dirupo” e che contiene il nome del dio celtoligure “Penn”. Certo, la “Camera della Maddalena”, nonostante la definizione, non è una grotta, tuttavia “camera” viene dal greco “kamára”: “ciò che è ricoperto da una volta”; nei tempi antichi potrebbe essere stata davvero una cavità. Mentre per Pietro Gambarelli il nome “Maddalena” deriverebbe dal germanico “Mädchen”, “ragazza”, o avrebbe a che fare con i folletti, ma certo non con la santa, una leggenda locale dà un’altra spiegazione. Una donna, certa Maddalena, per sfuggire alle violenze del marito avrebbe trovato rifugio lì, dove sarebbe poi morta cadendo dall’alto. Lo storico Arnaldo Tincani, comunque, a titolo informativo, pur non dichiarandolo luogo di culto (che di fatto non è), lo inserisce (a pag. 52) nel volumetto dedicato alle sedi cultuali di Santa Maria Maddalena nel reggiano, forse perché la santa è da sempre associata alle grotte.

Quadro del Correggio con la Maddalena e
la Pietra di Bismantova sullo sfondo


Maria Maddalena anche a Bismantova

A tal proposito, il primo nucleo dell’attuale santuario della Madonna di Bismantova (del latte!) era posto nell’originaria grotta della montagna e, come riportato proprio da Tincani: “...ben si prestava al richiamo cavernicolo del messaggio magdalenico. Il che induce a ritenere il culto della Maddalena a Bismantova nell’ambito fondativo di prima o seconda generazione”. Nella chiesa un affresco quattrocentesco, poi trasferito su tela nel 1958, presentava la Maddalena, il Battista, il Salvatore e il Padre Eterno benedicente. Maria Maddalena, raffigurata con i lunghi capelli rossi (che, in alcuni casi, le coprono il corpo nudo), riporta al mito della “Donna Selvatica”. Lo spiega l’antropologo Massimo Centini: “La Donna Selvatica ha legami con le divinità femminili delle foreste e delle sorgenti d’acqua, con le pratiche di guarigione e i riti connessi alla procreazione. In alcune rappresentazioni antiche perfino Maria Maddalena sembra una Donna Selvatica e ne possiede le caratteristiche distintive, con poteri taumaturgici legati alle acque”. Del culto magdalenico nel reggiano, Arnaldo Tincani parla in modo approfondito, attestando che, in montagna, l’epicentro di tale devozione era proprio Bismantova. In un dipinto ora al museo del Prado (del 1523-1524), sul cui sfondo si eleva un monte simile alla Pietra, il Correggio raffigura il Cristo che si rivela a Maria Maddalena. Sempre Tincani riporta di nuovo il culto magdalenico alle grotte: “...talune cavernicole che, nel nostro territorio, rispondono a romitori sommitali dei monti Valestra e Ventasso, nonché quello situato alla base di Bismantova”. Aggiungiamo la grotta di Lagoforno a Saccaggio… Fu dal romitorio magdalenico di Cerezzola che, stanca per le troppe persone intorno, nel 1378 partì suor Richildina diretta a quello del Ventasso.

Bosco della Péntoma


La santa delle grotte

È ormai acclarato che Maria Maddalena non sia stata la peccatrice che lavò i piedi a Gesù, ma che sia la sintesi di tre figure dei Vangeli: Maria di Magdala, Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro e, appunto, l’anonima prostituta. Fu papa Gregorio Magno a fonderle in quelle della peccatrice penitente. Il decollo del culto avviene a Vézelay, in Borgogna. Nel 1050, l’abbazia allora dedicata alla Vergine Maria (una Madonna nera) passa sotto la protezione della Maddalena: i monaci (o monache?) scoprono una sua reliquia e il luogo diventa fulcro ispiratore dei Templari. Papa Stefano IX proclamò dunque, nel 1058, che il corpo della santa “riposava” a Vézelay. Un altro polo diffusivo sarà poi San Maximin-Sainte Baume in Provenza dove, a partire dal secolo XII, si racconta che la Maddalena sarebbe vissuta, come eremita, nella grotta della Sainte Baume e, alla morte, sarebbe stata sepolta in un castello. La teoria trova il sostegno di papa Bonifacio VIII il quale affida ai domenicani la cura del luogo. Che poi Maria Maddalena fosse davvero approdata in Francia o che fosse invece morta e sepolta a Efeso, dove la tomba fu venerata sin dal VI secolo, e poi trasportata in Borgogna, non è dato saperlo; di sicuro, le sue reliquie sono attestate a Senigallia, a Bergamo (portate dal Colleoni) e un piede era a Reggio Emilia, nella chiesa abbaziale di San Prospero fuori le mura (ora è nella basilica di San Pietro a Modena). Sarà il francescano Salimbene de Adam, di Parma, di ritorno dalla Sainte Baume, a propagare nel parmense il culto della Maddalena. Tincani distingue le dedicazioni alla santa: quelle originate dai benedettini cistercensi di Vézelay o dai Templari (prima generazione, anteriori al 1280), e quelle della seconda, di matrice provenzale.

Piede della maddalena, reliquia

Le madri: preziose “vie” per il futuro

Maria Maddalena avrà soppiantato quindi dei culti femminili pagani? A questo proposito, Franco Cardini e Marina Montesano offrono, nel libro “Donne sacre. Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici”, un excursus approfondito attraverso l’archetipo della donna entrata a contatto col “sacro”: “Non c’è uomo, a parte Adamo, che non sia figlio di una donna: che non abbia albergato per mesi nel buio, caldo, sicuro ricettacolo del suo ventre; che non si sia attaccato ai suoi seni in cerca di vita (…) Senza quel ventre, senza quel seno, senza quegli occhi che lo guardavano, senza quelle mani che lo proteggevano e lo accarezzavano, l’uomo non sarebbe stato nulla.” Le comunità preistoriche riconoscevano il valore delle donne all’interno del gruppo, riservando loro un posto di rilievo. Solo attraverso le madri, per questo onorate, c’era possibilità di futuro per la tribù, il clan, il gruppo di famiglie. Le donne erano in grado di dare la vita, ma anche di nutrirla senza fermarsi durante gli spostamenti, e ciò le rendeva preziose, vicine al divino. Tra i tanti culti, miti, divinità femminili ci sono dee o entità legate all’acqua (è nell’acqua che viviamo per nove mesi prima di nascere). Molti reperti archeologici sono statuette femminili con forme esagerate e si è spesso spiegato il fenomeno con il culto della fertilità. Tuttavia, è forse più logico che si volesse, con quei manufatti, dare un valore sacrale alla donna, al suo potere generativo, di cura, e alla vita stessa.
Via medievale per la Camera della Maddalena


Le rocce galattofore

Prima della “Camera della Maddalena”, sulla sinistra c’è una sorgente di acqua solforosa, sicuramente ritenuta curativa dalle antiche popolazioni: già nella medicina ellenica si parla degli effetti terapeutici di suddette acque. Proprio dietro alla fonte, notiamo un liquido bianco, della stessa densità del latte, che fuoriesce dalle rocce sfaldate - quasi “friggendo” - e scorre sulle foglie cadute: “Ecco: abbiamo anche le rocce ‘galattofore’… e se il fenomeno lo abbiamo notato noi, l’avranno notato anche nei tempi antichi...”, commenta Roberto Ronchetti, studioso delle pietre incise e appassionato di archeoastronomia. Chiediamo a un’amica geologa: “Effettivamente il territorio è modellato sulle marne di Antognola e sulle marne di Ranzano. Le marne sono argille che ‘ce l'hanno fatta’. Cioè, sarebbero argille, quindi terreni, che però, a volte, vuoi per la presenza di CaCO₃, vuoi per sovraconsolidazione, diventano quelle che chiamiamo rocce tenere. Sorgenti solforose si trovano spesso vicino alle formazioni marnose che, poi, raramente sono solo marnose! Troviamo, infatti, marnoso arenacee, marnoso calcaree eccetera. Insomma rocce sedimentarie. Quindi, il bianco dell'acqua potrebbe essere dovuto a una reazione, che porta a un processo chimico, tra il carbonato di calcio del calcare e le acque sulfuree”. Un cartello posto in loco recita: “Una colata calcarea (travertino)”, dunque il calcare c’è. E Ronchetti, che parlava di rocce “galattofore”, cosa intendeva?

Culto delle rocce


Le Madonne del latte e della neve

Qui si apre un capitolo per molti di noi sconosciuto… che parte dalle grotte “sacre” e culmina nel culto delle “Madonne del latte” (vedi Bismantova). Intanto, impariamo che, perché avvenga il fenomeno di quell’acqua bianca, la temperatura deve essere tra 3,5 C° e 5 C°, giusto quella rilevata prima. In quanto all’effigie delle “Madonne del latte” deriverebbe da quella della dea egizia Iside Lactans. Dall’Egitto copto le “Madonne del latte” passarono nell’arte cristiana occidentale, dove si diffusero soprattutto tra il XIII ed il XIV secolo. A bloccare questa tendenza sarà la Controriforma, infatti trovare un’icona di “Virgo lactans” posteriore agli ultimi anni del XVI secolo costituisce una rarità. A Bergogno non c’è un culto della “Madonna del latte”, però, si festeggia, intorno al 5 di agosto, la “Madonna della neve”. L’appellativo è legato alla basilica di Santa Maria “ad Nives” a Roma, che celebra il dogma di “Maria madre di Dio” e che prende il nome dalla leggenda di una nevicata estiva: è il più antico santuario mariano d’occidente. La “Madonna della neve” sembrerebbe essere una delle tante ierofanie dell’arcaica “dea bianca”, o Leucotea, dea sia del cielo coperto di neve sia della schiuma bianca del mare. Maria Vergine non è forse definita “regina del cielo” e “stella del mare”? “Bella tu sei qual sole /bianca più della luna...”

Canossa da Bergogno


La donna che nutre e la “Grotta del latte” a Betlemme

In vari documenti troviamo che, in alcune caverne, un liquido biancastro fuoriesce dalle pareti o dalle stalattiti: è il “latte di monte”. Sono state documentate usanze in cui le madri spalmavano questo liquido sui seni per garantire una adeguata lattazione. Prima che si inventasse il latte artificiale il timore più grande di una puerpera era quello di non riuscire ad allattare. Avere il latte e averne tanto significava garantire ai neonati la sopravvivenza. Proviamo a immaginare, dunque, che problema fosse non avere latte nelle epoche antiche, e proviamo a metterci nei panni di quelle comunità e di quelle donne. È possibile che alla “Camera della Maddalena”, ben prima che venisse così denominata, le donne andassero a invocare qualche dea per il dono di una lattazione abbondante? Il culto delle pietre, insieme a quello dell’acqua, in più zone della Penisola si è conservato fino agli anni Sessanta. Ad esempio, il regista Luigi di Gianni, in un documentario del 1967, mostra dei devoti che, a Raiano, in Abruzzo, si addentrano nelle grotte sottostanti un santuario, strofinano le mani sulle pietre, poi se le passano sul viso e sul corpo per ottenere chissà quali grazie. Tornando all’acqua biancastra, è chiamata “latte di monte”, ma anche “latte di luna”. Di recente, uno studio sul “moonmilk” della Grotta Nera nella Majella (reperibile online e presentato dalla professoressa Lisa Foschi), è stato condotto dai ricercatori dell’Università di Bologna guidati dalla dottoressa Martina Cappelletti.

Pietro Gambarelli a sinistra


In ambito cristiano, la “Grotta del Latte” di Betlemme è uno dei santuari mariani più visitati di tutta la Terra Santa. È qui che Maria, secondo antichi racconti, si fermò per allattare Gesù; in quel frangente alcune gocce del suo latte caddero a terra e la roccia divenne bianca. Ed ecco che la grotta diventò meta di pellegrinaggio per le donne che avevano difficoltà ad allattare o a concepire un figlio. Come direbbe il professor Piero Camporesi: “La sacra umidità primigenia stillante dal corpo della terra madre, fonte perenne di forme vitali...” è ciò che descrive anche, senza dubbio, il bosco della Péntoma e la “Camera della Maddalena di Bergogno.

Grotta di Lagoforno, vicino all'oratorio di
Santa Maria Maddalena di Saccaggio














mercoledì 28 febbraio 2024

ALBERI DI NATALE DELL’EDEN E COPPELLE PESTAROLE - QUANDO LE GHIANDE ERANO CIBO PER GLI UOMINI

 

Natività con pigne e ghiande

La narrativa sulle origini dell’albero di Natale fa riferimento alla cultura celtica. Si tratterebbe di una pianta sempreverde che i druidi - gli antichi sacerdoti dei celti - onoravano in varie cerimonie. Un pino o un abete? O forse una quercia che non perde le foglie, come il leccio? Capita poi di imbattersi nell’immagine di un rilievo del IV secolo a.C. raffigurante la Natività, conservato nel museo di Atene e proveniente da Naxos. Il Bambinello in fasce dorme nella mangiatoia e, ai lati, ha due alberi, oltre all’asino e al bue. Gli alberi sono un pino e una quercia: si vedono le pigne sulla pianta a sinistra e le ghiande su quella a destra. Quasi certamente si tratta di un pino domestico e di una roverella, specie utilizzate dall’uomo per trarne cibo ben prima del Neolitico, quando finalmente iniziò la domesticazione e coltivazione delle piante. La farina più antica ad oggi conosciuta risale infatti a trentaduemila anni fa, più di ventimila anni prima dell’avvio dell’agricoltura nel vicino oriente. Gli amidi sono stati rinvenuti su un pestello trovato nella grotta Paglicci, a Rignano Garganico, Foggia. Insieme alle avene selvatiche, è provata, sul pestello stesso, la trasformazione in farina delle ghiande. Quindi, il Bambinello di Naxos sembra collocato in un “Giardino dell’Eden” di alberi selvatici che producevano semi commestibili: ghiande e pinoli, i più antichi alimenti amidacei del Mediterraneo. Ma come era possibile trasformare le ghiande, amare per l’eccesso di tannino, in una farina commestibile? 

Monte Sassoso (Ceriola): coppelle e il ricercatore
Roberto Ronchetti con il cane dello studioso Rino Barbieri

Le coppelle nelle rocce: antichi mortai?

Il processo era lungo, laborioso e potrebbe aver lasciato dei segni anche in alcune zone del nostro territorio. Parliamo, almeno per una parte, delle famose coppelle scavate su rocce - non del tutto rovinate dagli agenti atmosferici - come quelle di Ceriola/monte Sassoso e del monte Lulseto. Perché le coppelle? Come abbiamo già scritto in altri articoli, questi incavi nella pietra avranno avuto diverse funzioni - utilitaristiche e rituali - ma una è sicuramente la macinazione di semi per l’alimentazione. Foto e filmati dei primi del novecento, in California, ci mostrano le donne native mentre producono farina di ghiande, togliendoci ogni dubbio riguardo ai metodi di lavorazione. Vero che, sia a Ceriola, sia al Lulseto, in mezzo alle querce sono presenti dei castagneti, fonte di un amido più adatto all’alimentazione umana (perché senza tannini). Tuttavia, la coltivazione del castagno pare sia successiva e si debba ai Romani, pur essendo la pianta già presente allo stato selvatico anche nella preistoria. Sull’indigenato del castagno in Italia si è molto discusso. Alcune ricerche attestano, in base alle analisi di pollini fossili della pianura costiera apuana, la presenza del castagno già diecimila anni fa. Quindi, il castagno avrebbe resistito alle ondate di freddo glaciale susseguitesi nel tempo; pertanto, l’ipotesi che l’ultima glaciazione lo avrebbe fatto scomparire, per poi vederlo ritornare dall’Asia Minore, portato dall’uomo, è stata abbandonata. In ogni caso, nei periodi particolarmente rigidi, la quercia resisteva e dava frutti, il castagno no.

lunedì 12 febbraio 2024

DUE DOCUMENTI: UN ROGITO E UN TESTAMENTO - GOMBIO, NELLO STATO DI PARMA DI MARIA LUIGIA D’AUSTRIA

 

Soraggio di Gombio


Una dozzina di zecche, quasi trecento sistemi monetari, una selva di dogane: questa era l’Italia prima dell’unità. La frazione di Gombio non solo apparteneva al comune di Ciano, ma anche al ducato di Parma

Era il 1844 quando, a Ciano D’Enza, venne redatto un documento di compravendita che andremo a esaminare. Siamo nell’anno del trattato di Firenze, stipulato tra il duca di Modena, il granduca di Toscana e il futuro duca di Parma. Secondo gli accordi, alla morte di Maria Luigia d’Austria, duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla, tutti i territori parmensi (exclave) della sponda destra dell’Enza sarebbero passati al ducato di Modena e Reggio, mentre quelli (sempre exclave) di Bazzano e Scurano sarebbero ritornati a Parma.

Gombio, con le sue “ville” (gruppi di case), e Beleo erano in quella propaggine incuneata nel ducato estense e governata da Parma. Il confine più a sud tra i due ducati si trovava sul monte Battuta, verso Villaberza. Soraggio, collocato a nord dello stesso monte, ricadeva pertanto nello stato di Parma e ci sarebbe rimasto fino al 1848. In seguito, il via vai delle terre gombiesi, come spiega bene lo storico Giuseppe Giovanelli, sarà tra i comuni di Ciano, Casina e Castelnovo. In quest’ultimo, Gombio entrerà in modo definitivo soltanto nel 1959. Ma il va e vieni di Gombio, per diverso tempo, riguardò anche le due diocesi di Reggio e Parma.

Torniamo al 1844, quando un certo Natale Scarenzi, gombiese, e il signor Prospero Pedroni, calzolaio di Soraggio, vanno a rogito davanti all’allora sindaco di Ciano, Angelo Birzi. Oggi, a Gombio, il cognome Scarenzi resta soltanto a denominare una delle “ville”, essendosi estinto. Anche il cognome Birzi è quasi sparito, mentre era un tempo molto presente, tanto da far pensare a un’origine nel luogo stesso.






Pretura di Traversetolo, ducato di Parma: un rogito

La famiglia Pedroni di Soraggio scomparve, invece, con Antonio Luigi (figlio di Prospero), di cui si raccontava fosse partito per le Americhe e mai ritornato. I beni dei Pedroni, casa e terreni, vennero poi acquistati dalla famiglia Albertini, compresi quei castagneti dei “Valetti” o “Valeti”, situati di fronte a Leguigno e Beleo, di cui si parla nel documento qui riportato (compreso di evidenti errori ortografici)!

“Stato di Parma, Comune di Ciano - Pretura di Traversetolo Gombio - quarto Giorno tre 3 - novembre Mille otto cento quaranta e quattro, 1844.

Colla presente benché privata Scrittura, la quale la parte voliamo che sta valendo come pubblico

legale documento anche melio, si dichiara che il qui presente Natale di fu Luigi Scarenzi domiciliato a Gombio, che a venduto e vende a libera vendita, una porzione di uno fondo castagnativo posto nel territorio di Gombio, loco detto alli Valetti a cui confina, a matina il venditore, a merigio Violi Giovanni, a sera ed al nord l’aquirente. Al qui presente Prospero di Giuseppe Pedroni nativo e domiciliato in detto luogo, che compra stipola ed accetta per se, e con denari propri riccavati sotto la sua professione di calzolaio cosi dichiarando come dichiara in aqui. E questo pel prezzo di lire nove di Parma, trenta e cinque 35. prezo giusto convenuti amichevolmente. La qual soma è stata sborsata prima d’ora in mane del sudetto Scarenzi il quale dice e confessa d’averla anche ritenuta presso di se, facendole fini quietanze in ogni (?) E le predette cose tutte hanno asserito e asserivano le contraenti parti essere vere promettendone la piena osservanza sotto l’obbligo di se stessi beni tutti presenti fatturi (?) Li sopra descritti contraenti non si firmano, che Scarenzi, perché Pedroni e ileterato, pero viene pubblicato alla presenza di me infrascritto e degli sotto scritti testimoni cioè Costi Giuseppe, e Francesco Birzi tutti di Gombio, Scarenzi Natale afermo quanto sopra, Francesco Birzi testimonio Giuseppe Costi testimonio. Angelo Birzi Sindaco al Comune di Ciano, scrissi di comisione delle parte e fui testimonio: segue la registrazione a Langhirano il 16 gennaio 1845 con le tasse pagate

(N.B: il resto è incomprensibile)”

venerdì 8 dicembre 2023

IL VOLO DI MELUSINA - UN RACCONTO TRATTO DAL LIBRO

 

RACCONTO TRATTO DAL LIBRO

Il libro è disponibile su tutte le librerie online anche in formato ebook: 

https://www.amazon.it/volo-Melusina-Normanna-Albertini/dp/8832870606

La tempesta della notte le aveva buttate tutte a terra, tanto che, ora, intorno agli alberi, si stendeva un tappeto di susine, una molle frittata sulla quale pranzavano sinistri calabroni e un nugolo di moscerini del vino.

«Che peccato, che disastro, Renzo mio, e adesso? Dovrò bollire marmellata per una settimana».

Eugenia avanzava china, con il cesto di vimini quasi colmo, prestando attenzione a schivare gli insetti e, al contempo, cercando di non calpestare i frutti gialli, già ammaccati e rovinati dalle intemperie.

Il marito la osservava dal pollaio, dove era indaffarato a rimettere in piedi la recinzione; lavorava nervosamente, considerando che avrebbe dovuto ripulire pure la piscina, del tutto scomparsa sotto una montagna di foglie e rami. Bel disastro, questi cambiamenti climatici.

Renzo, nei suoi ottandadue anni di vita, non aveva mai visto un vento tanto potente da sollevare i tavolini di ferro sotto al porticato, raffiche con chicchi ghiacciati delle dimensioni di una pesca lanciati come proiettili. Non era molto credente, tuttavia, un pensiero all’Apocalisse e ai suoi terribili cavalieri gli era scappato. Anche Luna, la sua cagnolona dal pelo color crema fiorentina, pareva confusa, seduta in alto, su un muretto, fra i tralci sbrindellati di un vecchio glicine.

Della loro casa, Eugenia e Renzo, da anni pensionati, avevano fatto un bed and breakfast, conservando l’architettura del vecchio edificio colonico toscano. Avevano mantenuto anche i pavimenti di graniglia, le piccole piastrelle di ceramica a fiori, i bagni con grande vasca e la scala centrale, che portava ai piani superiori, dotata di ringhiera in svolazzante ferro battuto.

Tutt’intorno, orti, un frutteto, un giardino e la vigna, poi alberi di ulivo a spezzare, con bagliori d’argento, il verde dei gelsi, dei ciliegi, dei pruni e dei meli.

«Si è alzata, la nostra ospite, o dorme ancora?», domandò Renzo togliendo il cesto di prugne dalle mani della moglie.

«Johanna? La professoressa Rolff? Le avevo preparato la colazione, ma ancora non s’è vista. Forse, con il temporale, sarà rimasta sveglia, vorrà recuperare».

«E la nipote? Ancora a letto pure lei?»

«Ah, quella… Karin van… van… Comperen, vero? Quella dorme sempre fino a mezzogiorno. I giovani scambiano il giorno per la notte, è una moda, ormai».

«Bene, allora faccio in tempo ad affettare un po’ di salame e aprire una formetta di pecorino. Da buone olandesi, apprezzano il cibo italiano, e pure il vino! Ti porto in casa il cesto, così non sforzi la schiena, Eugenia mia».

Era sempre stato così, il suo Renzo: attento e premuroso fin da quando si erano incontrati, cinquant’anni prima.

Bionda, esile, la pelle chiara e gli occhi azzurri, Eugenia non aveva certo l’aspetto di una brasiliana e nessuno le credeva quando raccontava di aver avuto una nonna india. Invece, babbo e mamma si erano conosciuti proprio in Brasile, in una piccola cittadina dello Stato di Santa Caterina, dove era poi nata Eugenia. Successivamente, c’era stata la scelta di ritornare in Italia, al paese degli antenati, in Garfagnana.

Un po’ come tutti i brasiliani, Eugenia era il risultato di un miscuglio prodigioso di etnie, colori, culture. Era italiana, india, irlandese e portava dentro la sapienza antica di tutte le sue antenate.

Nei rituali “Rodas di cura”, che praticava di nascosto a chi si affidava a lei, usava il “rapè”, una miscela polverizzata, composta di tabacco e da una mistura di altre erbe capaci di aprire il cuore, radicare a terra e scaricare le energie negative.

Raccontava che la nonna india, Isadora, era stata colpita da un fulmine da bambina, mentre si trovava vicino al fiume. Non era morta e, quando si era svegliata, forte del dono ricevuto attraverso la scarica elettrica, aveva iniziato a guarire la gente. Anche dopo che si era sposata con un italiano, incontrato nella fazenda dove lavorava, Isadora riceveva saltuariamente le visite di uno sciamano che usciva dalla foresta e veniva a trovarla. Allora, parlavano per ore e si scambiavano le loro conoscenze sui diversi rituali di guarigione utilizzati.

giovedì 30 novembre 2023

UN SAGGIO SULLA POLITICA DI DE GASPERI - IL LIBRO DI GINO FONTANA

 

Gino Fontana

L’idea di una Europa federale come forte elemento ideologico nella politica estera del grande statista. “Mai dare per scontati la nostra democrazia, il nostro benessere sociale, la nostra pace”.

È uscito in libreria, per i tipi di “Consulta libri e progetti”, “De Gasperi e l’Europa unita”; l’intento è quello di aiutare a riscoprire il lascito dello statista e la distinzione fra i valori della vita religiosa e quelli dello Stato e delle leggi. Il volume deriva dalla tesi di laurea magistrale di Gino Fontana, classe 1993, nato tra i monti dell’Appennino reggiano. Abbiamo intervistato l’autore, chiedendogli di presentarci questo suo pregevole saggio.

Come mai, per la tua tesi, hai scelto una figura come quella di De Gasperi? E qual è stato il tuo percorso di studi che poi ti ha condotto a quella scelta?
Mi sono laureato in triennale in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Forlì, e in magistrale a Parma in “Relazioni internazionali ed europee”. Ho poi frequentato il Master in Diplomacy presso l’ISPI di Milano (Istituto per gli studi di politica internazionale). La politica estera italiana mi ha sempre incuriosito, tanto che ho scritto diverse analisi per il centro studi Osservatorio Globalizzazione. La scelta di studiare la politica estera di De Gasperi è stata quasi naturale: parliamo di uno dei padri fondatori dell’integrazione europea, Ministro degli Esteri prima, poi Presidente del Consiglio dell’Italia che sorse dalle macerie della guerra e dalla dittatura. La sua opera politica e pensiero mi hanno sempre ispirato.


Come hai suddiviso il libro? Quale struttura e sequenza hai scelto?
Il libro è suddiviso in tre capitoli, con la postfazione finale del professor Bruno Pierri che ora insegna a Forlì “Storia delle relazioni internazionali”. Per meglio comprendere le scelte di politica estera, ho scelto di analizzare tre tappe fondamentali del secondo dopoguerra: la prima comincia dal governo Badoglio, il ruolo giocato dagli aiuti internazionali americani e delle Nazioni Unite, arrivando sino alle prime elezioni democratiche, la nuova forma di governo e la Costituzione repubblicana. La seconda parte, invece, analizza gli sforzi profusi dai Paesi dell’Europa occidentale per arrivare a una vera e propria forma di integrazione militare. Infine, la terza parte del libro riguarda il primo vero traguardo dell’integrazione, ovvero la nascita della CECA, in cui De Gasperi ebbe un ruolo fondamentale.

Che politico fu, Alcide De Gasperi? Un restauratore? Un conservatore? Un moderato “creativo”, in un Paese devastato dalla guerra?
È sempre difficile classificare i politici del passato secondo i canoni odierni. Studiando attentamente un personaggio storico, emergono sfumature a volte difficili da comprendere con gli strumenti attuali: vanno piuttosto analizzate secondo i valori dell’epoca in questione. Come scrivo nel libro, per De Gasperi non vi era contraddizione nell’essere simultaneamente un patriota italiano - quindi difensore degli interessi della nazione - un atlantista e un federalista. Se guardiamo all’Italia di inizio anni ’50 comprendiamo il perché di certe scelte.

martedì 28 novembre 2023

IN UN LIBRO: GALLINE IN CITTÀ - LE CRONACHE DI ILDE DAL SUO POLLAIO

 

 


Corredate da meravigliosi acquerelli, ecco le vicende di cinque galline abilmente raccontate dall’autrice

Diceva Italo Calvino a proposito dello scrittore Luigi Malerba - uno dei migliori e più apprezzati autori italiani del secondo Novecento – che osservare le galline voleva dire esplorare l’animo umano nei suoi inesauribili “aspetti gallinacei”. Malerba aveva pubblicato “Le galline pensierose”, storielle collocabili tra l’umorismo surreale e gli apologhi zen.


I racconti di Ilde Rosati, invece, nel suo “Cronache dal pollaio”, Edizioni Cdl, riflettono più che altro l’atteggiamento dei nostri nonni nei confronti dei loro animali: cura, affetto, volontà di comprenderne il carattere e le particolarità individuali. I vecchi di un tempo con gli animali parlavano e, in genere, li “battezzavano” tutti con un nome proprio, che fossero le vacche nella stalla, le galline o il maiale.

Erano, dunque, come i cani o i gatti, anche animali da compagnia, non soltanto fonte di cibo o di reddito. Dice Ilde: “Credo di essere, nel mio profondo, un po’ contadina come i miei nonni che mi hanno ispirato l’amore per il verde e gli animali da cortile”.

lunedì 27 novembre 2023

“FROLE E BAGGI”, LE POESIE DI RALFO MONTI IN LIBRERIA - UNA NUOVA EDIZIONE DI “ALTE VOCI”


Il poeta dipinge, con affetto, ironia e tenerezza, una realtà umile, scomoda: quella dei monti, dei piccoli borghi (Civago e dintorni), della più varia umanità. A quarant’anni dalla scomparsa, un omaggio al cantore del crinale



Sono come tracce sulla neve, quando dopo una nevicata, se non si usava la pala, le impronte poi ghiacciavano, formando essenziali passaggi tra le case, le stalle, i pollai.

Sono come macchie di colore, squarci nei quali si insinuano immagini lontane. Sono le poesie di Ralfo Monti, bella voce di Civago, per fortuna ancora presente nella memoria collettiva.

Un poeta montanaro, tuttavia marinaio, dato che i montanari si son sempre dovuti spostare al piano, al mare, perfino al di là dell’oceano; “nomadi” per bisogno ma anche perché, dall’alto dei monti, l’orizzonte si allarga e appare più vasto, e affascina: chiama all’avventura.

Raccolte, finalmente, in una pubblicazione di “Consulta libri e progetti” - dall’elegante veste grafica di Elisa Pellacani – le poesie sono ora nelle librerie con il titolo “Frole e baggi”.

La selezione, la sequenza e la revisione dei testi sono state curate da Lino Paini e Paola Ranzani, mentre le note introduttive e la postfazione sono di Benedetto Valdesalici, dello stesso Paini, e di Emanuele Ferrari.

“Frole e baggi” sarebbero le fragole e i mirtilli e viene dai versi dedicati apertura della strada Civago – Piandelagotti. È un testo in cui, con impudente ironia e, soprattutto, con sarcasmo beffardo, il poeta dipinge l’evento, non trascurando qualche frecciatina diretta ai politici e agli amministratori.

Questa la conclusione: “La strada!/ Non vi dico che vantaggi!/Andremo in vespa fino in Garfagnana,/spediremo col camion frole e baggi/e le greggi di pecore in Toscana/e in autunno la bella cameriera/a servizio, d'accordo, ma in corriera!”

La poetica di Ralfo ha tanto della pittura; a volte è impressionista, con la capacità di recuperare immagini parziali, collegando, nello stesso momento, più fatti e sensazioni.

È colta, come quella del Pascoli, soprattutto nei sonetti: “Là dove il cielo al mare si confonde/di rosea luce si dipinge a sera./È l’ora in cui mia madre si nasconde/il volto in seno e dice una preghiera./Triste una lieve nenia si diffonde/forse è il mare che bacia la scogliera/O forse è il pianto abbandonato all’onde/di donna che pel figlio suo dispera.”

Ralfo Monti


L’influsso dei due anni di studi nel Seminario Vescovile di Reggio Emilia è indubbio. La poesia di Ralfo non è naif, non è ordinaria; la padronanza, da parte del poeta, delle forme metriche della poesia lirica e della poesia narrativa emerge chiaramente. Forse perché in seminario si studiava latino fin da subito, insieme alle altre discipline? Il latino, infatti, con la sua complessa sintassi, affina e potenzia le capacità linguistiche dell’italiano.

Erano tempi in cui, per accedere alle medie del seminario, si doveva sostenere un difficile esame di ammissione dopo le elementari; la quinta non era obbligatoria, quindi il piccolo Monti l’avrà frequentata “in più” proprio per continuare gli studi e perché era un ottimo allievo.

Colto, dunque, ma spontaneo, genuino. In altre rime, come facevano i macchiaioli, Ralfo dipinge una realtà umile, scomoda, non certo da mondo intellettuale. È quella dei monti, dei boschi, dei piccoli borghi (Civago e dintorni), delle campagne, della più varia umanità, sempre guardati, comunque, con implicita tenerezza.

Anche con “malinconia”, nell’accezione di nostalgico rimpianto e desiderio irrealizzabile che questo termine assume dalle nostre parti: “e sogno le tranquille ore passate/in casa tua, fra un litro di buon vino/e una padella colma di bruciate./Vedo Graziella intorno al lavandino/fra piatti ed acqua fresca dei miei monti,/Silvio è in lettura, scherza Edda con Lino.”

Civago in una vecchia foto

E poi c’è l’ottava rima, che Ralfo usa in più componimenti, costituita da strofe in endecasillabi, sei in rima alternata e le ultime due che terminano con lo stesso suffisso.

La stanza, o ottava, ebbe grande successo sia tra i poeti letterati sia tra i poeti privi di istruzione.

«HER – STORY», IL SECONDO SAGGIO DI ANNA LOMBARDI - LUCCA/PREMIO TRALERIGHE STORIA



Con una tesi sulla lotta delle donne curde per l’autodeterminazione, la ricercatrice storica felinese vince di nuovo il prestigioso premio nazionale


Il fatto che una giovane ricercatrice abbia mostrato sensibilità e curiosità per le donne curde, ignorate dai media, è abbastanza inconsueto: “Mi sono interessata alle combattenti curde quando le ho viste in una foto su un social, sorridenti, con tanto di Kalashnikov imbracciato. Stavo per laurearmi in storia alla magistrale, eppure, di loro non sapevo nulla. Nessun corso universitario mi aveva mai parlato dei curdi né, ancor meno, delle donne curde, benché l’esperimento del Confederalismo democratico di Abdullah Öcalan fosse in atto ormai da dieci anni. Il mio interesse è nato proprio dalla consapevolezza di essere all’oscuro di quel mondo e di averlo scoperto soltanto, per caso, su Facebook.” Grazie a questa consapevolezza, e a ciò che ne è seguito, Anna Lombardi, di Felina, ha poi vinto per la seconda volta il “Premio Tralerighe Storia - Opere inedite di storia contemporanea, militare, memorialistica e diari”, che si tiene ogni anno a Lucca. Il suo libro, “Her – Story, la lotta delle donne curde per l’autodeterminazione”, ha infatti ottenuto un contratto di edizione come opera vincitrice. “Si tratta della mia tesi del Corso di Laurea Magistrale in Sociologia dei conflitti”, dice Anna, “con la quale mi sono laureata a Modena nell’aprile 2022. La tesi parte proprio dall’analisi del Confederalismo democratico curdo e dalle teorie elaborate da Öcalan che, nonostante l’incarcerazione fin dal 1994 nell’isola-prigione di İmralı, in Turchia, riesce ancora a guidare, a distanza, la sua ‘rivoluzione’.”

La dottoressa Anna Lombardi con l'editore Andrea Giannasi



L’importanza di avere storiche donne

Andrea Giannasi, l’editore, è ben contento di aver dato alle stampe “Her – Story” , innanzitutto perché i curdi, in questo momento, sono un po’ i “nemici” di tutti: dei turchi, degli iracheni, dei siriani di Assad (difesi da Putin), ma anche perché parla di donne, e quelle curde sono l’asse portante della loro società: “Imbracciano il fucile e combattono,” dice Giannasi, “quando, nella primordiale struttura mentale maschile, questo non viene accettato: non è ammesso che un maschio sia ucciso da una donna. Se, in più, si tratta di maschi musulmani, è convinzione che quella morte per mano femminile precluda loro il paradiso. È un atto che va difatti a contrastare la supremazia maschilista, che è anche religiosa. Inoltre, l’ho pubblicato perché è un saggio che… non esisteva. “Her”, il pronome femminile in copertina, simboleggia un cambio di passo che io auspico da anni. Il cambio della saggistica e della costruzione di un ruolo della donna, nella letteratura, che non sia più soltanto secondario, ‘alla Emily Dickinson’, ma che diventi qualcosa di dirompente. E quel dirompente è la libertà del pensiero femminile, anche, e anzitutto, nella saggistica. Spingo molto per avere saggiste donne, per avere il punto di vista di una donna sulla storia, anche quella militare e contemporanea. Anna Lombardi, donna, rappresenta, quindi, il terzo motivo per cui ho pubblicato questo libro: è una studiosa che affronta, con tenacia, voglia e strumenti che le appartengono, un argomento difficile, e lo fa, appunto, da – e - con un’ottica diversa da quella di uno storico maschio. In più, per le ragioni che ho spiegato prima, si tratta di un argomento che gli uomini non vogliono raccontare. Quindi, questo elemento minore, che sono i curdi, in realtà ha l’enorme forza della presenza femminile che, secondo me, può essere utile in tanti altri nostri campi.”

sabato 14 ottobre 2023

LE ULTIME RISULTANZE ARCHEOLOGICHE SUL MONTE LULSETO E NOTE A MARGINE


CROVARA /CONFERENZA DI GIULIANO CERVI  


L’enigma delle canalette incise e le nuove scoperte: coppelle, triangoli, simboli fallici e altro ancora. E poi la testa in pietra di Crovara: un manufatto celtico o una semplice “Marcolfa”?



Partecipata e degna di interesse è stata la conferenza dell’architetto Giuliano Cervi il 25 agosto scorso a Crovara di Vetto; dopo aver ripercorso le conoscenze già acquisite grazie al comitato scientifico del Cai, e già pubblicate, Cervi ha presentato le ultime risultanze archeologiche sulle incisioni del Lulseto. Un luogo di culto, ha confermato lo studioso, dove l’acqua aveva un’importante funzione sacrale, attestata dalla presenza di una fonte: un incavo nella roccia a forma di bacile.

Fonte nella roccia
(forse da indagare tutto intorno?



Ha inoltre avanzato un’ipotesi senz’altro verosimile sul “diavolo di Crovara”, il volto con le “corna” murato su una parete della chiesa. A margine della conferenza, sorgono alcune considerazioni e interrogativi. Il primo riguarda lo scopo e la formazione delle canalette: cosa sono? Perché e come sono state incise? Con quali attrezzi, visto che la roccia è arenaria silicea, certamente meno friabile rispetto ad altre e, d’altro canto, più dura da lavorare? L’ipotesi di Cervi è che quei solchi siano stati scavati in tempi molto lontani - benché più recenti rispetto ad altri segni - e poi ripassate, negli anni, accentuandone l’incavo, dai bambini dei dintorni, i quali le usavano come scivolo e parco giochi. Di primo acchito, rievocano le “cart ruts”, i famosi “solchi di carro”, sennonché, soprattutto in questo caso, le canalette non possono essere state impresse da ruote, sia pure rivestite di ferro, o da slitte – le “tragge” – dato che la troppa inclinazione della roccia non ne avrebbe favorito l’utilizzo e anche perché non sono linee parallele. Vediamo di cosa si tratta.

L'architetto Giuliano Cervi durante la conferenza
(foto di Davide Costoli)

sabato 1 luglio 2023

GATTA/ DAL MEDIOEVO IMMAGINARIO L'AMORE CONTRASTATO TRA LEDA E RAIMONDO


Dipinto del pittore Fabio Rota: Leda che si trasforma in serpente

Sono quasi scomparse, sui nostri monti, le leggende che narravano di mostri, serpenti, giganti, folletti dispettosi. Poi c’era il diavolo che appariva qua e là, specialmente - da bravo capitalista - nei dintorni o dentro ai mulini. “La commovente vicenda di Leda, figlia di Azzo signore della Gatta, e di Raimondo, figlio del Conte di Vallisnera” è un’antica novella  - già pubblicata su Tuttomontagna nel 2011 - che vogliamo riprendere per analizzarne i simboli e i contenuti, i quali riportano, in parte, proprio a quelle figure magiche. 


Palazzo Gatti

Ci spiega Fabrizio Fontana, di Civago, che la famiglia Gatti è proprietaria di molti terreni nella zona di Carniana, comune di Villa Minozzo. La terra in questione ha inizio a Carniana e si sviluppa fino al Secchiello; proprio a metà c'è una specie di avvallamento dove sembra nasca un piccolo rio: potrebbe essere quella la sorgente “del Groppo” di cui si narra nella favola? Il Concilio di Trento - e la seguente opera di cancellazione dei culti pagani – debellò quasi del tutto le “superstizioni” rimaste intatte nelle zone più remote. I pochi miti scampati alla cristianizzazione si fusero, in seguito, con le vicende cantate nel Maggio drammatico: episodi su paladini, re, crociate, guerre contro il male, la stessa Matilde di Canossa. Insomma: il Medioevo “immaginario” che un po’ tutti ci portiamo dentro. Come afferma la professoressa Francesca Roversi Monaco: “Il medioevo corrisponde a un esotismo temporale, l’Oriente a un esotismo spaziale”. Perché il passato è come “un paese straniero” e il Medioevo è davvero esotico. Lo dichiarava anche Giosuè Carducci: “Al poeta è lecito, se vuole e può, andare in Grecia e in India nonché in Persia e nel Medioevo”. 


Raimondo e Melusina

A proposito dei Maggi, tre sono le ipotesi circa la loro nascita e il loro sviluppo: la prima riguarda il legame tra il Maggio e i riti primaverili ancestrali; la seconda è legata alla lauda medievale, divenuta poi col tempo “Sacra rappresentazione”; la terza - come ben chiarisce il professor Davide Villani in un suo saggio - “...indicherebbe l’origine dei Maggi come frutto della classe dirigente toscana ottocentesca che, per soddisfare il proprio programma etico - politico, innestò tratti morali e ideologici su una rudimentale struttura già appartenente alle popolazioni rurali toscane”. Ma torniamo alla leggenda raccolta nel 1961 da Quinto Veneri e pubblicata sul Resto del Carlino. Intanto, la protagonista è Leda, figlia di un ipotetico Azzo della famiglia Gatti. Azzo è un nome longobardo che, con le varianti Atto, Attone, Azzone, dovrebbe significare “nobile”; Leda ricorda, invece, la bellissima regina di Sparta, sedotta da Zeus - trasformato in cigno - e poi diventata la madre di Elena di Troia. Il toponimo “Groppo” potrebbe altresì derivare dal dialetto “gròp”: collinetta, oppure sempre dal dialetto “gröp”: nodo, nodosità. In quest’ultimo caso ricordiamo che la difterite veniva chiamata “mâl dal gröp” perché chiudeva la gola e strozzava. Nella famiglia Gatti è presente il nome Azzio, che però deriva dal latino Accius o Attius (Azia, della gens Atia/Attia, era la madre di Ottaviano Augusto) e non ha a che fare con Azzo. È proprio Azzio Gatti, nel 2011, a ritrovare e salvare questa favola.