sabato 28 settembre 2019

IL VOLO DI MELUSINA - RACCONTI

Reale e fantastico sono due aspetti dell'esperienza che l'animo umano ha imparato a distinguere ed a gestire separatamente. Con il primo si vive al quotidiano, ci si guadagna il pane e, venuto il momento, si muore. Con il secondo si sogna, si fan castelli in aria e, venuto il momento, si comincia una nuova avventura da anima come per Platone, da cadavere come in Agatha Christie o da zombie come per Mary Shelley. Nel reale si muore il più delle volte nel proprio letto, in un incidente o, talvolta, per un crimine indagato dalla "scientifica". Il corpo è lì, lo si esamina, lo si interra e non se ne parla più. Nel fantastico invece i morti sorgono a nuova vita. Giocano a nascondino, si volatilizzano e riappaiono,  ritornano a darci i numeri del lotto o a rivendicare i loro diritti. I primi ci lasciano dei ricordi, i secondi dei misteri, delle leggende e dei miti.
Per noi, smaliziati cittadini del mondo, la distinzione è chiara. Non si legge "Gargantua e Pantagruel" o "Il Visconte dimezzato" nello stesso spirito con cui si legge "Una vita violenta" o "Germinale". Anche per i bambini la differenza è evidente: c'é il telegiornale che guarda il papà, e ci sono le favole che racconta la nonna.
Ma le cose non sono sempre così semplici. Perché di tanto in tanto spunta fuori in letteratura un alchimista come Garcia Marquez o E.A. Poe (ce ne sono altri) che si diverte a mescolare i generi nei suoi alambicchi ed a servirceli nello stesso boccale.
Normanna Albertini, almeno in questi racconti sparsi fra boschi, paesini e montagne tra cui tutto si immagina fourché un delitto, è nella loro scia. Con lei il fantastico sfumato dalle tinte dell'arcobaleno prende il  colore di una vecchia Panda sgangherata. Scompaiono maghi, principi e fate. Compaiono farmacisti, antiquari e brigadieri. Tuttavia, con lei ci si scopre a credere nei ponti del diavolo (quelli le cui intersezioni fra le pietre non formano mai una croce), o nelle sirene a due code di tradizioni ancestrali.

TALADA TERRA DI SAN MICHELE - GIUSEPPE GIOVANELLI

Lo spostamento della viabilità moderna con la costruzione di nuove strade, adatte al movimento delle automobili e degli altri veicoli su ruota, ha fatto sì che molte borgate, nei secoli precedenti collegate tra loro e ai centri più grossi, perdessero di importanza e ne venisse in gran parte dimenticata anche la storia. Addirittura si fatica a capire come potessero apparire terre appetibili per i nobili che, abitualmente, se le contendevano.
È nel 1315 che compare nel “Libro dei fuochi” (che sarebbe poi il registro, estimo, dei capi famiglia del distretto di Reggio), l’elenco dei nomi di quelli di Talada, comune composto da tre borghi: Casale, Ca’ Ferrari, Talada.
In quel periodo i signori Dalli di Piolo, con i signori di Vallisnera, di Bismantova, con i Fogliani e i Canossa, avevano l’incarico di garantire la sicurezza delle strade di montagna, compresa quella di Talada, sulle quali si muoveva il commercio tra Lucca e Reggio e persino quello tra Venezia e Genova. Nel settembre del 1315, per esempio, in alta Val Secchia una carovana di mercanti veneziani venne assalita dai banditi e ci furono morti, feriti e, ovviamente, furti.
A Simone da Dallo il comune di Reggio darà poi, cinque anni dopo, l’autorizzazione a imporre un pedaggio sulle merci in transito lungo la via regale della Lunigiana. Non è difficile capire il perché si cercasse di avere il controllo su queste vie di comunicazione e quanto fosse ragguardevole il ritorno economico. Un ramo dei Dalli, longobardi provenienti dalla Garfagnana, dopo Piolo si insedierà a Busana, come risulta da un diploma ducale del 1442.
I feudi di Busana, Crovarola, Quara e Gova vennero formalmente investiti ai conti Galasso e Luigi (Aloixe) Dalli nel 1453; per Crovarola, si intende proprio Talada. 
Il 15 settembre 2019, in occasione del millenario di questa minuscola parrocchia di montagna, è uscito il pregevole libro di Giuseppe Giovanelli “Talada terra di San Michele” - dedicato a monsignor Giovanni Costi nel sessantesimo della sua ordinazione sacerdotale - frutto di un’immane lavoro di ricerca tra i manoscritti degli archivi e le pubblicazioni reggiane dei secoli scorsi.
Da questo notevole volume sono tratte le notizie che riportiamo, con l’invito a leggere il libro per completare il quadro storico.
Un toponimo unico in Italia: un nome longobardo, Talada, perché è ai Longobardi che si deve la sua nascita. Nella lingua dei Longobardi, “tal” (o thal) significa “valle”, dunque, il nome di luogo “Talada” significherebbe “vallata”.
Viene dunque a cadere l’ipotesi di “calada” in ricordo di una enorme frana che, secoli addietro, avrebbe dato origine a quel breve tratto pianeggiante su cui sorge la borgata.

LETTERE DALLA ROCCA DI MINOZZO - LIBRO DI GIUSEPPE GIOVANELLI

Chi fa ricerca storica e poi la diffonde deve, in ogni caso, essere anche un abile scrittore, con una cura speciale per la forma comunicativa, i metodi narrativi, le scelte stilistiche e il linguaggio utilizzato. Ci riesce benissimo il professor Giuseppe Giovanelli, storico di primario valore, allievo di monsignor Francesco Milani, che dalle carte degli archivi, spulciate e accantonate negli anni, riesce a ricavare testi divulgativi di piacevole, facile lettura, eppure di grande impatto culturale. Autore del nostro Appennino, Giovanelli ha alla spalle una produzione di almeno una ventina di libri e la partecipazione a molte altre opere, come la storia della Diocesi di Reggio e Guastalla. Due anni fa, sollecitato da alcuni amici di Minozzo, ha pubblicato un volume che è un affresco coinvolgente degli anni tra il 1426 e il 1448, non solo del territorio minozzese, ma di tutta quella parte di montagna facente parte del Ducato estense, comprendente anche la Garfagnana, con relazioni in Lunigiana. Il libro si intitola “Lettere dalla rocca di Minozzo” e l’autore lo introduce così: “Le lettere, oltre a dare una collocazione precisa nel tempo ad alcuni eventi storici fondamentali, descrivono, con una lingua semplice e ancor quasi dialettale, la vita quotidiana dei Minozzesi di allora, il loro rapporto di fraterna convivenza con i Garfagnini, le modalità – non sempre entusiastiche come vorrebbe la vulgata ufficiale – della loro sottomissione agli Estensi, la loro voglia di libertà e autonomia, il loro sentirsi Chiesa allo stesso modo in cui si sentivano comunità civile.”
Senza l’instancabile lavoro di indagine, studio e decifrazione degli originari atti d’archivio, non avremmo “la storia”. “Lettere dalla rocca di Minozzo” è frutto di questo certosino lavoro di ricerca e ci conduce in un mondo, quello della montagna del basso medioevo, sottovalutato dai più, sconosciuto, dimenticato. Innanzitutto, però, quando si tratta di storia “locale”, dovremmo comunque ricordare che definire una volta per tutte i fatti umani è pura utopia, perché sempre nuovi documenti e notizie ci giungono dal passato a scompaginare le nostre conoscenze. Forse anche quest’opera qualche dubbio lo instilla, creando desiderio di ulteriore conoscenza.
In una lettera del 5 giugno 1426 riportata nel libro, per esempio, il podestà di Felina, Conte dei Costabili, responsabile in montagna della guerra contro i Fogliani, scrive, a proposito degli armigeri delle rocche: “Questi uomini non possono comperarsi neppure il pane e voi volete che vi paghino il sale? E se anche avessero i soldi – come voi credete che abbiano – volete che corrano anche il pericolo di venir giù a portarveli? A mio avviso è stata una villania incarcerare quell’uomo di Berzana. Non c’è tempo per queste faccende, gli uomini si sentono oppressi, non risarciti come è stato fin qui. Credetemi se vi dico che si induriscono e si disperano. Vi prego, vi prego, messer Vicario, messer Massaro, rimettete in libertà quel povero uomo, lasciategli quel po’ di soldi che la guerra gli lascia, ne ha un gran bisogno. Quando i tempi saranno migliori, si potranno riscuotere sali e dazi con comodo…” Insomma: non è che le guardie delle rocche e gli stessi castellani se la passassero poi tanto bene. Nel 1443, alle Scalelle viene sostituito il castellano Franceschino da Ramusana con Giovanni di Polo da Monzone, detto Giovannello. Ebbene: a quest’ultimo viene anticipato uno stipendio di due mesi da restituire a rate nei primi sei mesi successivi.