Reale e fantastico sono due
aspetti dell'esperienza che l'animo umano ha imparato a distinguere ed a
gestire separatamente. Con il primo si vive al quotidiano, ci si guadagna il
pane e, venuto il momento, si muore. Con il secondo si sogna, si fan castelli
in aria e, venuto il momento, si comincia una nuova avventura da anima come per
Platone, da cadavere come in Agatha Christie o da zombie come per Mary Shelley.
Nel reale si muore il più delle volte nel proprio letto, in un incidente o,
talvolta, per un crimine indagato dalla "scientifica". Il corpo è lì,
lo si esamina, lo si interra e non se ne parla più. Nel fantastico invece i
morti sorgono a nuova vita. Giocano a nascondino, si volatilizzano e
riappaiono, ritornano a darci i numeri
del lotto o a rivendicare i loro diritti. I primi ci lasciano dei ricordi, i
secondi dei misteri, delle leggende e dei miti.
Per noi, smaliziati cittadini del
mondo, la distinzione è chiara. Non si legge "Gargantua e Pantagruel"
o "Il Visconte dimezzato" nello stesso spirito con cui si legge
"Una vita violenta" o "Germinale". Anche per i bambini la
differenza è evidente: c'é il telegiornale che guarda il papà, e ci sono le
favole che racconta la nonna.
Ma le cose non sono sempre così
semplici. Perché di tanto in tanto spunta fuori in letteratura un alchimista
come Garcia Marquez o E.A. Poe (ce ne sono altri) che si diverte a mescolare i
generi nei suoi alambicchi ed a servirceli nello stesso boccale.
Normanna Albertini, almeno in
questi racconti sparsi fra boschi, paesini e montagne tra cui tutto si immagina
fourché un delitto, è nella loro scia. Con lei il fantastico sfumato dalle
tinte dell'arcobaleno prende il colore
di una vecchia Panda sgangherata. Scompaiono maghi, principi e fate. Compaiono
farmacisti, antiquari e brigadieri. Tuttavia, con lei ci si scopre a credere
nei ponti del diavolo (quelli le cui intersezioni fra le pietre non formano mai
una croce), o nelle sirene a due code di tradizioni ancestrali.