mercoledì 1 aprile 2020

LA CIVILTA' COMINCIO' CON UN FEMORE ROTTO - RIFLESSIONI IN TEMPO DI COVID19


Foto di Emanuela Rabotti
Non ho mai dormito così tanto e così bene.
Mi sveglia la litania tenue, piacevole, filtrata dai muri divisori, del rosario di Radio Maria, abitudine mattiniera della mia vicina.
Al contempo, si apre il concerto delle gazze, unito al baccano delle cornacchie e al grido di una pappagallina che, da mesi, staziona da queste parti, dopo essere sfuggita al propietario.
Lei libera, io in gabbia.
Le mura di casa come orizzonte: il bianco ormai opaco delle pareti che avrebbero bisogno di diverse mani di tempera. Per fortuna, vi ho appeso molti quadri e foto incorniciate, così copro il brutto color “Isabella” e, ogni tanto, mi soffermo a pensare “to’, quello l’ho disegnato a scuola quando insegnavo a Gatta”, “ve’, quella foto l’ho scattata ai miei figli quando, a carnevale, ci fu una bufera di neve”.
La mente va, si tuffa nei ricordi, sorride.
Io che insegnavo a Costa de’ Grassi, dove abitavo, quando un’improvvisa, terribile nevicata, sostenuta da un vento furioso, quasi ci impedì di percorrere le poche decine di metri fino a casa. Arrancai in mezzo alla neve, senza vedere niente, con i miei figli per mano. Era tutto assurdo ed era successo nell’arco di forse mezz’ora.
Il paese bloccato, mura di neve ovunque. Era la fine di febbraio, o forse era marzo, perché poi la neve si sciolse presto e tutto tornò alla normalità.
Ora non è la neve a bloccarmi in casa. Magari fosse così: basterebbe il sole a liberarmi.

E per fortuna, ho la portafinestra di cucina rivolta a Sud, verso il tramonto, verso la Pietra di Bismantova e il Monte Ventasso, e la vedo, la neve, sul Monte Casarola e penso che lassù in mezzo c’è Valbona, il paese d’origine del mio bisnonno materno pastore.
Gente abituata a camminare, gente che si spostava dietro le greggi fino al Po o verso il Mar Tirreno. Devo aver conservato dentro qualcosa di quelle transumanze. Dentro: in qualche parte profonda di me, perché l’immobilità (anche di pensiero) fatico a sopportarla.
L’occhio umano ha bisogno di luce e di verde, ha bisogno di orizzonti lontani, ha bisogno di spazi su cui vagare.
Non siamo diventati homo sapiens nel buio dell’inverno polare: veniamo dall’Africa, dalle savane, dalle immensità delle praterie e, in quei luoghi, i nostri occhi impararono a misurare il tempo e lo spazio, a respirare l’infinito. Imparammo a sollevare gli occhi al cielo e a lasciarsi accompagnare dalle stelle.
Siamo creature con gambe e piedi predisposti per camminare.
L’immobilità, come bene ci insegnano con la loro irrequietezza i bambini – che noi costringiamo per anni, e per ore e ore, ogni giorno, su una sedia – non è adatta ai nostri corpi, ancor meno al nostro spirito e alla nostra mente.
Siamo fatti per viaggiare, e per viaggiare in gruppo, fraternizzando l’uno con l’altro, sostenendoci se cadiamo, dividendo il cibo in modo che nessuno abbia fame. Non fosse questa la nostra vera natura, oggi non saremmo quasi dieci miliardi sulla terra.

È questa la nostra vera natura; prova a ricordarcelo il terribile virus venuto dall’Oriente (da Oriente, come tanto male e tanto bene, nei millenni). Ci prova in tutti i modi, rivelando i crimini del neoliberismo sfrenato, mostrandoci i danni di una politica asservita, prona, schiava del capitale.
Ci prova, sbugiardando i propugnatori delle “razze” superiori, delle “civiltà” superiori, ora costretti ad accettare l’aiuto di popoli definiti “canaglie”.   
La civiltà, come disse uno studioso, non comincia con la ruota o con il fuoco: comincia con il primo femore rotto e curato.
La vera civiltà è occuparsi del bene di tutti e tutti insieme.
Intanto, in uno dei Paesi “civili”, un diciassettenne viene lasciato morire di Covid19 perché non ha l’assicurazione.