giovedì 29 marzo 2018

NEVE DI FEBBRAIO - POESIA

Neve di febbraio

Foderato il bosco, il suolo: fronde e tronchi
gonfi e agghindati
in raccolto torpore;
in parabole nere, corvi gracchianti
a lamentare l’assenza
tra le chiome
di prede e noci, e di ripari ospitali.
Impone, la natura, inerzia all’uomo,
riposo
silenzio. Dei pensieri ascolto.

Contrastiamo – indocili - ogni tregua,
invece,
anche quella, bianca, della neve,
come il pettirosso affamato
volato
a ripulire briciole sui balconi.

Che forse temiamo di morire
di quiete.

Noi, che paventiamo
l’ascolto della mente.

venerdì 16 marzo 2018

DISTILLO SILENZIO - CICLI

Cicli

Poi ci si abitua ai vortici
di nuvole festose
districanti sul blu
fronzoli di vapore.

Poi ci si abitua ai vortici
di fumo e profumo
di legna e castagne
e nebbioso muschio.

Poi ci si abitua ai vortici
di rosso vermiglio e oro
e ruggine e bruno
dei pampini caduti.

Poi ci si abitua ai vortici
puliti e ipnotizzanti
di tenere falde nugolo
a silenziare la terra.

Poi aspetterò i vortici
dei fiori dei ciliegi,
del prugnolo selvatico,
del biancospino.

E sarà un turbinio
di bianco lungo le siepi
nel tempo delle nozze

e delle prime comunioni.

DISTILLO SILENZIO - GHIACCIO E FUOCO

Ghiaccio e fuoco

Dai moti caotici
di atomi pulsanti,
ordinati,
senza tempo orbitanti,
dai sentieri opachi
di vie siderali,
distillo armonia.

Strimpello
trame distese e fibre,
stracci di comete
antiche.
Ghiaccio.

Distillo equilibrio
da privazioni atroci:
ferite
mie, remote.
Ghiaccio
su squarci che serbano
angoscia,
ghiaccio che tiene
l’urlo.

Le comete causano vita
ancora.
E io lo so
d’esser figlia del fuoco
e del ghiaccio.

Dello spasimo
d’uno squarcio
torrido
di pugnale
(fuoco e ghiaccio)

nell’atmosfera.

RICATTARE UN SANTO IN MANCANZA DI NEMBO KID - 3

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Scorte di carta

“Sono qui in Rsa”, mi scrive mia nipote Elena sul cellulare, “la nonna sta conversando con le amiche e dice che la settimana scorsa è stata a Gombio, dove don Valerio aveva organizzato un ritrovo di tutti i paesani...”. Peccato che don Valerio sia morto da diversi anni e che non fosse più parroco di Gombio da decenni. E che mia madre non partecipasse mai né alla messa né a raduni con il prete. Come credi che mi senta, amico mio che sei nei cieli, mio santo da me requisito in attesa di un miracolo, come credi che stia, io, quando mia madre fa così?
“C’era pieno, secondo lei”, continua mia nipote, “e, secondo lei, ‘vero che l’ambiente non è molto vasto, ma è tenuto ben pulito’. Ora sta spiegando alle amiche che sono sua figlia...”.
Hai capito, caro fraticello? Ha le allucinazioni, eppure ce ne accorgiamo solo noi familiari stretti; per chi la incrocia dieci minuti, per chi viene da fuori - persino per il medico - siccome riferisce le sue storie in modo verosimile, ha un cervello ancora funzionante. Sono io ad avere le allucinazioni.
“Mamma, è venuta Elena a trovarti?”, le chiedo a sera, all’uscita dalla struttura.
Scuote il capo decisa. “Io non l’ho vista.” Non l’ha vista: garantito, se l’ha scambiata per me. Comunque, le ragazze mi dicono che non è messa male rispetto agli altri ospiti, e magari fossero tutti come lei. Sì, ogni tanto scappa dalle stanze del diurno, zoppicando e barcollando con il suo bastone – che se cade, va in mille pezzi, mi ha detto l’ortopedico - e fila nel salone a chiacchierare con gli ospiti della casa protetta, però è tranquilla. E mangia come un lupo, dicono le ragazze.
I panini che avanzano a pranzo, glieli trovo nella tasca della giacca, ben avvolti, ma proprio imballati con strati di tovaglioli, che non abbia a cadere neanche una briciola.
Chissà perché gli anziani diventano tutti raccoglitori compulsivi di carta e metodici ripiegatori della stessa. E come la ripiegano bene, meglio della pasta sfoglia, con precisione geometrica!
Mia mamma s’infila tovaglioli ovunque: nelle tasche dei pantaloni, nel reggiseno, nelle maniche delle maglie. La sera, quando la spoglio, è tutto uno svolazzare di carte sul letto e sul pavimento, tovaglioli di ogni colore, che poi, ossessivamente, lei raccoglie e infila sotto al cuscino; non si sa mai che possano servire.
L’accumulo compulsivo di carta era anche di mia suocera: sacchetti del pane a decine, ripiegati da sembrare stirati a caldo, carte dell’affettato, carta dei pacchi regalo, carta lucida dell’uovo di Pasqua, e poi le terribili bustine di plastica della spesa, fatte su a triangolo e infilate in altre buste della spesa e poi infilate in qualche tiretto. Mia suocera aveva vent’anni, durante la seconda guerra mondiale, e ricordava che mancava il sapone, che non si riusciva a trovare una crema e scarseggiava il sale. Quando morì, schiudemmo le ante di alcuni pensili e ci apparvero cataste di sapone di marsiglia, creme, saponette, borotalco, mentre un armadietto di cucina era colmo di pacchetti di sale. Si era preparata le scorte per un’altra – eventuale - guerra.
Mia mamma, invece, io non lo sapevo, ma aveva saturato la madia e la credenza di vassoi di carta: quelli della pizza, quelli dei pasticcini, quelli delle torte che le portavo io. Non li usava più, ma li conservava tutti: unti, puzzolenti, affastellati in perfetto ordine, che non si sa mai.

RICATTARE UN SANTO IN MANCANZA DI NEMBO KID - 2

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Cosa vuoi saperne tu?

Le fisso i capelli con quattro fermagli vivaci: graziosi, rosa e blu a pois bianchi, da bimba.
A lei piacciono; glieli metto, altrimenti con le dita si pettina all’indietro, si pressa i capelli, li stira tanto che sembra uscita da una di quelle crudeli foto pre legge Basaglia.
Glieli ho dovuti far tagliare, dopo l’ultimo ricovero in ospedale: via la grossa treccia grigia che poteva creare problemi di governabilità. Troppi capelli, troppo lunghi e le operatrici sanitarie, sempre affannate per il carico di lavoro ormai insensato, non ce la possono fare. Comunque, lei non è abituata ai capelli corti; se li sposta dalla fronte, dalle orecchie, li maltratta, li pigia sul capo a dispetto delle mani deturpate dall’osteoartrosi. Con quelle dita storte riesce a fare poco altro, ma riesce comunque a spettinarsi.
“Dai, le mie amiche saranno già tutte su.”, mi dice, mentre le passo la crema sul viso e sulle mani. Ha indossato volentieri un maglioncino amaranto: forse le sue amiche le avranno detto che le sta bene, perché solitamente non gradisce i colori sgargianti. O sarà stato qualche amico a farle i complimenti. È agitata: bisogna muoversi, perché tutti saranno ad aspettarla lassù al Centro diurno, non si può fare tardi. In realtà, dubito che, dopo mezz’ora, si ricordino di lei, visto il pessimo livello  di lucidità degli ospiti, ma glielo lascio credere. “Ah, sai, con Savino ci ballavo sempre...”, dice riferendosi a uno di loro, d’una decina d’anni più anziano di lei. “Ma quanto puoi averci ballato, mamma?”, “Ci ho ballato sì! Andavamo sempre a ballare alle feste di paese, eh... ho ballato sì, cosa vuoi saperne tu!”
Ho i nervi a fior di pelle, anzi: mi sento proprio senza pelle, e quel “cosa vuoi saperne tu” è sale sulla carne viva. Poi raccontatemi che “ci vuole pazienza”, che “lo sai, è la malattia”.
È la malattia sì, ma lei è mia madre e la sua continua svalutazione riapre piaghe mai chiuse.  
Caro il mio santo che stai sul termosifone, quanto può aver ballato, mia madre, se a diciotto anni era incinta di me e se, poi, negli anni seguenti, non è più uscita di casa per divertirsi?
Pensa che non rammenta, a distanza di cinque minuti, cos’ha mangiato, o se è andata in bagno, ma le sagre con i suonatori e i suoi compagni di danze di settantacinque anni fa sì: quelli li ricorda.
Un violino, una fisarmonica, una chitarra, qualche fiasco di vino e si ballava. Sulle aie, dove si trebbiava il grano a luglio, ma anche nelle radure dei boschi, sotto i castagni. Le ragazzine in cerca del moroso (perché se non avevi un moroso a quattordici anni, poi rimanevi zitella) e pattuglie agguerrite di vecchie nonne ad accompagnarle. Le vecchie nonne avranno avuto cinquanta, sessant’anni, eppure erano indubbiamente vecchissime: sdentate, avvolte nei loro scialli neri, con il fazzoletto in testa e l’immancabile grembiule legato proprio sotto i seni cadenti. Vecchissime e implacabili guardiane delle loro nipoti ancora inviolate.
Le ragazze animavano le serate con discrezione, ma bisogna pur raccontarla fino in fondo: c’era sempre quella che “la dava via”, nonostante la nonna gendarme, quella con cui si divertivano un po’ tutti e tutti sapevano che “ci stava”. Quella che si ripresentava sul ballo, dopo essere sparita nel buio, con la camicetta sgualcita e la gonna macchiata. Mia madre ne parla ancora con grande scandalo. Però dice che erano figlie di famiglie alla fame, e che lo facevano per avere qualcosa da mettere sotto i denti. Lo dice per giustificare qualcosa che anche oggi le pare troppo vergognoso da accettare.

RICATTARE UN SANTO IN MANCANZA DI NEMBO KID - 1

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Bandiera bianca
Ci fosse Nembo Kid, chiederei a lui. Ma non esiste. Mi ero innamorata di lui, da bambina, quando ancora non si chiamava Superman e per collega aveva la bionda Nembo Star; in ogni caso, lui non esiste. Dunque, non ho alternativa: parlo con te. Invoco te.
Che, almeno, una vita prima della morte l’hai avuta. Ti prendo in ostaggio, ti ricatto.
Ricattare un beato, in mancanza d’altro, non è certo un crimine; tutt’al più è disperazione.
Stai lì, sulla mensola del termosifone: un ‘santino’ - che mi regalò non ricordo chi - e che fisso ogni sera, mentre m’infilo sotto le lenzuola (e le coperte, e pure una pelliccia di volpe che vinsi in un supermercato ma che non ho mai messo). Ti guardo e parlo con te; perché non si sa mai.
Quando si è disperati, da dove possa giungere la salvezza non si sa mai.
Gli scogli vanno tutti bene (sempre che non diventino pericolosi). E tu non sei un pericolo.
La pelliccia di volpe fa compagnia e conforta. È morta come te, caro santo, ma ha avuto una vita.
Non so nemmeno se sono disperata. Rassegnata, forse; sconfitta. Mi arrendo: inutile che puntiate la pistola da lassù, voi tutti santi numi delle altezze. Mi arrendo. Bandiera bianca.
Dopo penserò alla disperazione; per il momento non ho tempo. ‘Dopo’ non so ‘cosa’ sia, né in che luogo né in che periodo, però so che ci sarà un ‘dopo’; una fine, una resurrezione.
Prima o poi scappo - mi dico - lascio tutti e scappo (sui monti, in mezzo ai boschi, a campare di bacche e lucertole, a farmi divorare dai lupi che, però, dicono non attacchino gli umani), tuttavia lo faccio ‘dopo’: quando avrò risolto anche questo ennesimo problema e sgarbugliato questo ennesimo viluppo di miserie. Mio padre non verrà a cercarmi. Non può.
Mio padre, quando aveva voglia di erbazzone, scendeva nell’orto e raccoglieva le bietole.
Pali di castagno conficcati nel terreno sostenevano una rete da polli e un cancelletto leggero leggero, dello stesso materiale, delimitando i pochi metri quadri del suo orticello; dentro, una tinozza di plastica e un tubo di gomma per innaffiare le piante. Indispensabile, il recinto, per tenere alla larga cinghiali e caprioli, anche se proprio un capriolo, mio padre, ce l’aveva trovato dentro, perché quelle deliziose bestiole saltano anche le recinzioni.
Come culla per le sue verdure, mio padre aveva scelto un luogo dove, molti anni prima - e per decenni - c’era stato il letamaio. Ché il letame rende allegri gli ortaggi. E pure chi se ne prende cura. Sul letamaio, da bambina, avevo spinto la carrozzina contenente mio fratello, il quale era finito a faccia in giù sul letame. Certo che, prima di fare un figlio dopo l’altro, bisognerebbe essere sicuri di potersene occupare; allora, in ogni caso, i figli capitavano. Credo che nessuno li volesse davvero, o forse le famiglie volevano solo figli maschi. Io ero nata femmina, purtroppo.