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Scorte di carta
“Sono qui in Rsa”, mi scrive mia
nipote Elena sul cellulare, “la nonna sta conversando con le amiche e dice che
la settimana scorsa è stata a Gombio, dove don Valerio aveva organizzato un ritrovo
di tutti i paesani...”. Peccato che don Valerio sia morto da diversi anni e che
non fosse più parroco di Gombio da decenni. E che mia madre non partecipasse
mai né alla messa né a raduni con il prete. Come credi che mi senta, amico mio
che sei nei cieli, mio santo da me requisito in attesa di un miracolo, come
credi che stia, io, quando mia madre fa così?
“C’era pieno, secondo lei”,
continua mia nipote, “e, secondo lei, ‘vero che l’ambiente non è molto vasto,
ma è tenuto ben pulito’. Ora sta spiegando alle amiche che sono sua figlia...”.
Hai capito, caro fraticello? Ha
le allucinazioni, eppure ce ne accorgiamo solo noi familiari stretti; per chi
la incrocia dieci minuti, per chi viene da fuori - persino per il medico - siccome
riferisce le sue storie in modo verosimile, ha un cervello ancora funzionante.
Sono io ad avere le allucinazioni.
“Mamma, è venuta Elena a
trovarti?”, le chiedo a sera, all’uscita dalla struttura.
Scuote il capo decisa. “Io non
l’ho vista.” Non l’ha vista: garantito, se l’ha scambiata per me. Comunque, le
ragazze mi dicono che non è messa male rispetto agli altri ospiti, e magari fossero
tutti come lei. Sì, ogni tanto scappa dalle stanze del diurno, zoppicando e
barcollando con il suo bastone – che se cade, va in mille pezzi, mi ha detto l’ortopedico
- e fila nel salone a chiacchierare con gli ospiti della casa protetta, però è
tranquilla. E mangia come un lupo, dicono le ragazze.
I panini che avanzano a pranzo, glieli
trovo nella tasca della giacca, ben avvolti, ma proprio imballati con strati di
tovaglioli, che non abbia a cadere neanche una briciola.
Chissà perché gli anziani
diventano tutti raccoglitori compulsivi di carta e metodici ripiegatori della
stessa. E come la ripiegano bene, meglio della pasta sfoglia, con precisione
geometrica!
Mia mamma s’infila tovaglioli
ovunque: nelle tasche dei pantaloni, nel reggiseno, nelle maniche delle maglie.
La sera, quando la spoglio, è tutto uno svolazzare di carte sul letto e sul
pavimento, tovaglioli di ogni colore, che poi, ossessivamente, lei raccoglie e
infila sotto al cuscino; non si sa mai che possano servire.
L’accumulo compulsivo di carta era
anche di mia suocera: sacchetti del pane a decine, ripiegati da sembrare stirati
a caldo, carte dell’affettato, carta dei pacchi regalo, carta lucida dell’uovo
di Pasqua, e poi le terribili bustine di plastica della spesa, fatte su a
triangolo e infilate in altre buste della spesa e poi infilate in qualche tiretto.
Mia suocera aveva vent’anni, durante la seconda guerra mondiale, e ricordava
che mancava il sapone, che non si riusciva a trovare una crema e scarseggiava
il sale. Quando morì, schiudemmo le ante di alcuni pensili e ci apparvero
cataste di sapone di marsiglia, creme, saponette, borotalco, mentre un
armadietto di cucina era colmo di pacchetti di sale. Si era preparata le scorte
per un’altra – eventuale - guerra.
Mia mamma, invece, io non lo
sapevo, ma aveva saturato la madia e la credenza di vassoi di carta: quelli
della pizza, quelli dei pasticcini, quelli delle torte che le portavo io. Non
li usava più, ma li conservava tutti: unti, puzzolenti, affastellati in perfetto
ordine, che non si sa mai.