giovedì 29 febbraio 2024

ACQUA BIANCO LATTE ALLA CAMERA DELLA MADDALENA - BERGOGNO/ DOVE FORSE C’ERA UNA GROTTA

 

"Latte di monte" alla Camera della
Maddalena, foto di Roberto Ronchetti

Da un fenomeno curioso, spunti di riflessione sugli antichi culti delle divinità femminili, passando per Santa Maria Maddalena, la santa delle grotte, per poi arrivare alla Madonna del latte o della neve: la “Virgo lactans”

La giornata è gelida, senza nubi, perfetta per un’escursione in quel di Bergogno, giusto a un mese dal solstizio d’inverno. Nel parcheggio l’auto segna 5 C° e sappiamo che saranno certo di meno al bosco della Péntoma e alla “Camera della Maddalena”. Scendiamo lungo le pieghe basse dei monti, seguendo il “Sentiero Matilde”: intorno, poderi curati e resti di quelle che erano le “piantate” della vite maritata agli “oppi”. D’altra parte, Bergogno era il granaio di Matilde e il suo microclima è idoneo anche per la produzione del vino. Ad avere senz'altro favorito la sua prosperità è la sua posizione su una via un tempo fondamentale. Il pensiero va a Pietro Gambarelli, alle sue ricerche e al suo impegno nel recupero del bosco della Péntoma, toponimo che significa “dirupo” e che contiene il nome del dio celtoligure “Penn”. Certo, la “Camera della Maddalena”, nonostante la definizione, non è una grotta, tuttavia “camera” viene dal greco “kamára”: “ciò che è ricoperto da una volta”; nei tempi antichi potrebbe essere stata davvero una cavità. Mentre per Pietro Gambarelli il nome “Maddalena” deriverebbe dal germanico “Mädchen”, “ragazza”, o avrebbe a che fare con i folletti, ma certo non con la santa, una leggenda locale dà un’altra spiegazione. Una donna, certa Maddalena, per sfuggire alle violenze del marito avrebbe trovato rifugio lì, dove sarebbe poi morta cadendo dall’alto. Lo storico Arnaldo Tincani, comunque, a titolo informativo, pur non dichiarandolo luogo di culto (che di fatto non è), lo inserisce (a pag. 52) nel volumetto dedicato alle sedi cultuali di Santa Maria Maddalena nel reggiano, forse perché la santa è da sempre associata alle grotte.

Quadro del Correggio con la Maddalena e
la Pietra di Bismantova sullo sfondo


Maria Maddalena anche a Bismantova

A tal proposito, il primo nucleo dell’attuale santuario della Madonna di Bismantova (del latte!) era posto nell’originaria grotta della montagna e, come riportato proprio da Tincani: “...ben si prestava al richiamo cavernicolo del messaggio magdalenico. Il che induce a ritenere il culto della Maddalena a Bismantova nell’ambito fondativo di prima o seconda generazione”. Nella chiesa un affresco quattrocentesco, poi trasferito su tela nel 1958, presentava la Maddalena, il Battista, il Salvatore e il Padre Eterno benedicente. Maria Maddalena, raffigurata con i lunghi capelli rossi (che, in alcuni casi, le coprono il corpo nudo), riporta al mito della “Donna Selvatica”. Lo spiega l’antropologo Massimo Centini: “La Donna Selvatica ha legami con le divinità femminili delle foreste e delle sorgenti d’acqua, con le pratiche di guarigione e i riti connessi alla procreazione. In alcune rappresentazioni antiche perfino Maria Maddalena sembra una Donna Selvatica e ne possiede le caratteristiche distintive, con poteri taumaturgici legati alle acque”. Del culto magdalenico nel reggiano, Arnaldo Tincani parla in modo approfondito, attestando che, in montagna, l’epicentro di tale devozione era proprio Bismantova. In un dipinto ora al museo del Prado (del 1523-1524), sul cui sfondo si eleva un monte simile alla Pietra, il Correggio raffigura il Cristo che si rivela a Maria Maddalena. Sempre Tincani riporta di nuovo il culto magdalenico alle grotte: “...talune cavernicole che, nel nostro territorio, rispondono a romitori sommitali dei monti Valestra e Ventasso, nonché quello situato alla base di Bismantova”. Aggiungiamo la grotta di Lagoforno a Saccaggio… Fu dal romitorio magdalenico di Cerezzola che, stanca per le troppe persone intorno, nel 1378 partì suor Richildina diretta a quello del Ventasso.

Bosco della Péntoma


La santa delle grotte

È ormai acclarato che Maria Maddalena non sia stata la peccatrice che lavò i piedi a Gesù, ma che sia la sintesi di tre figure dei Vangeli: Maria di Magdala, Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro e, appunto, l’anonima prostituta. Fu papa Gregorio Magno a fonderle in quelle della peccatrice penitente. Il decollo del culto avviene a Vézelay, in Borgogna. Nel 1050, l’abbazia allora dedicata alla Vergine Maria (una Madonna nera) passa sotto la protezione della Maddalena: i monaci (o monache?) scoprono una sua reliquia e il luogo diventa fulcro ispiratore dei Templari. Papa Stefano IX proclamò dunque, nel 1058, che il corpo della santa “riposava” a Vézelay. Un altro polo diffusivo sarà poi San Maximin-Sainte Baume in Provenza dove, a partire dal secolo XII, si racconta che la Maddalena sarebbe vissuta, come eremita, nella grotta della Sainte Baume e, alla morte, sarebbe stata sepolta in un castello. La teoria trova il sostegno di papa Bonifacio VIII il quale affida ai domenicani la cura del luogo. Che poi Maria Maddalena fosse davvero approdata in Francia o che fosse invece morta e sepolta a Efeso, dove la tomba fu venerata sin dal VI secolo, e poi trasportata in Borgogna, non è dato saperlo; di sicuro, le sue reliquie sono attestate a Senigallia, a Bergamo (portate dal Colleoni) e un piede era a Reggio Emilia, nella chiesa abbaziale di San Prospero fuori le mura (ora è nella basilica di San Pietro a Modena). Sarà il francescano Salimbene de Adam, di Parma, di ritorno dalla Sainte Baume, a propagare nel parmense il culto della Maddalena. Tincani distingue le dedicazioni alla santa: quelle originate dai benedettini cistercensi di Vézelay o dai Templari (prima generazione, anteriori al 1280), e quelle della seconda, di matrice provenzale.

Piede della maddalena, reliquia

Le madri: preziose “vie” per il futuro

Maria Maddalena avrà soppiantato quindi dei culti femminili pagani? A questo proposito, Franco Cardini e Marina Montesano offrono, nel libro “Donne sacre. Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici”, un excursus approfondito attraverso l’archetipo della donna entrata a contatto col “sacro”: “Non c’è uomo, a parte Adamo, che non sia figlio di una donna: che non abbia albergato per mesi nel buio, caldo, sicuro ricettacolo del suo ventre; che non si sia attaccato ai suoi seni in cerca di vita (…) Senza quel ventre, senza quel seno, senza quegli occhi che lo guardavano, senza quelle mani che lo proteggevano e lo accarezzavano, l’uomo non sarebbe stato nulla.” Le comunità preistoriche riconoscevano il valore delle donne all’interno del gruppo, riservando loro un posto di rilievo. Solo attraverso le madri, per questo onorate, c’era possibilità di futuro per la tribù, il clan, il gruppo di famiglie. Le donne erano in grado di dare la vita, ma anche di nutrirla senza fermarsi durante gli spostamenti, e ciò le rendeva preziose, vicine al divino. Tra i tanti culti, miti, divinità femminili ci sono dee o entità legate all’acqua (è nell’acqua che viviamo per nove mesi prima di nascere). Molti reperti archeologici sono statuette femminili con forme esagerate e si è spesso spiegato il fenomeno con il culto della fertilità. Tuttavia, è forse più logico che si volesse, con quei manufatti, dare un valore sacrale alla donna, al suo potere generativo, di cura, e alla vita stessa.
Via medievale per la Camera della Maddalena


Le rocce galattofore

Prima della “Camera della Maddalena”, sulla sinistra c’è una sorgente di acqua solforosa, sicuramente ritenuta curativa dalle antiche popolazioni: già nella medicina ellenica si parla degli effetti terapeutici di suddette acque. Proprio dietro alla fonte, notiamo un liquido bianco, della stessa densità del latte, che fuoriesce dalle rocce sfaldate - quasi “friggendo” - e scorre sulle foglie cadute: “Ecco: abbiamo anche le rocce ‘galattofore’… e se il fenomeno lo abbiamo notato noi, l’avranno notato anche nei tempi antichi...”, commenta Roberto Ronchetti, studioso delle pietre incise e appassionato di archeoastronomia. Chiediamo a un’amica geologa: “Effettivamente il territorio è modellato sulle marne di Antognola e sulle marne di Ranzano. Le marne sono argille che ‘ce l'hanno fatta’. Cioè, sarebbero argille, quindi terreni, che però, a volte, vuoi per la presenza di CaCO₃, vuoi per sovraconsolidazione, diventano quelle che chiamiamo rocce tenere. Sorgenti solforose si trovano spesso vicino alle formazioni marnose che, poi, raramente sono solo marnose! Troviamo, infatti, marnoso arenacee, marnoso calcaree eccetera. Insomma rocce sedimentarie. Quindi, il bianco dell'acqua potrebbe essere dovuto a una reazione, che porta a un processo chimico, tra il carbonato di calcio del calcare e le acque sulfuree”. Un cartello posto in loco recita: “Una colata calcarea (travertino)”, dunque il calcare c’è. E Ronchetti, che parlava di rocce “galattofore”, cosa intendeva?

Culto delle rocce


Le Madonne del latte e della neve

Qui si apre un capitolo per molti di noi sconosciuto… che parte dalle grotte “sacre” e culmina nel culto delle “Madonne del latte” (vedi Bismantova). Intanto, impariamo che, perché avvenga il fenomeno di quell’acqua bianca, la temperatura deve essere tra 3,5 C° e 5 C°, giusto quella rilevata prima. In quanto all’effigie delle “Madonne del latte” deriverebbe da quella della dea egizia Iside Lactans. Dall’Egitto copto le “Madonne del latte” passarono nell’arte cristiana occidentale, dove si diffusero soprattutto tra il XIII ed il XIV secolo. A bloccare questa tendenza sarà la Controriforma, infatti trovare un’icona di “Virgo lactans” posteriore agli ultimi anni del XVI secolo costituisce una rarità. A Bergogno non c’è un culto della “Madonna del latte”, però, si festeggia, intorno al 5 di agosto, la “Madonna della neve”. L’appellativo è legato alla basilica di Santa Maria “ad Nives” a Roma, che celebra il dogma di “Maria madre di Dio” e che prende il nome dalla leggenda di una nevicata estiva: è il più antico santuario mariano d’occidente. La “Madonna della neve” sembrerebbe essere una delle tante ierofanie dell’arcaica “dea bianca”, o Leucotea, dea sia del cielo coperto di neve sia della schiuma bianca del mare. Maria Vergine non è forse definita “regina del cielo” e “stella del mare”? “Bella tu sei qual sole /bianca più della luna...”

Canossa da Bergogno


La donna che nutre e la “Grotta del latte” a Betlemme

In vari documenti troviamo che, in alcune caverne, un liquido biancastro fuoriesce dalle pareti o dalle stalattiti: è il “latte di monte”. Sono state documentate usanze in cui le madri spalmavano questo liquido sui seni per garantire una adeguata lattazione. Prima che si inventasse il latte artificiale il timore più grande di una puerpera era quello di non riuscire ad allattare. Avere il latte e averne tanto significava garantire ai neonati la sopravvivenza. Proviamo a immaginare, dunque, che problema fosse non avere latte nelle epoche antiche, e proviamo a metterci nei panni di quelle comunità e di quelle donne. È possibile che alla “Camera della Maddalena”, ben prima che venisse così denominata, le donne andassero a invocare qualche dea per il dono di una lattazione abbondante? Il culto delle pietre, insieme a quello dell’acqua, in più zone della Penisola si è conservato fino agli anni Sessanta. Ad esempio, il regista Luigi di Gianni, in un documentario del 1967, mostra dei devoti che, a Raiano, in Abruzzo, si addentrano nelle grotte sottostanti un santuario, strofinano le mani sulle pietre, poi se le passano sul viso e sul corpo per ottenere chissà quali grazie. Tornando all’acqua biancastra, è chiamata “latte di monte”, ma anche “latte di luna”. Di recente, uno studio sul “moonmilk” della Grotta Nera nella Majella (reperibile online e presentato dalla professoressa Lisa Foschi), è stato condotto dai ricercatori dell’Università di Bologna guidati dalla dottoressa Martina Cappelletti.

Pietro Gambarelli a sinistra


In ambito cristiano, la “Grotta del Latte” di Betlemme è uno dei santuari mariani più visitati di tutta la Terra Santa. È qui che Maria, secondo antichi racconti, si fermò per allattare Gesù; in quel frangente alcune gocce del suo latte caddero a terra e la roccia divenne bianca. Ed ecco che la grotta diventò meta di pellegrinaggio per le donne che avevano difficoltà ad allattare o a concepire un figlio. Come direbbe il professor Piero Camporesi: “La sacra umidità primigenia stillante dal corpo della terra madre, fonte perenne di forme vitali...” è ciò che descrive anche, senza dubbio, il bosco della Péntoma e la “Camera della Maddalena di Bergogno.

Grotta di Lagoforno, vicino all'oratorio di
Santa Maria Maddalena di Saccaggio














mercoledì 28 febbraio 2024

ALBERI DI NATALE DELL’EDEN E COPPELLE PESTAROLE - QUANDO LE GHIANDE ERANO CIBO PER GLI UOMINI

 

Natività con pigne e ghiande

La narrativa sulle origini dell’albero di Natale fa riferimento alla cultura celtica. Si tratterebbe di una pianta sempreverde che i druidi - gli antichi sacerdoti dei celti - onoravano in varie cerimonie. Un pino o un abete? O forse una quercia che non perde le foglie, come il leccio? Capita poi di imbattersi nell’immagine di un rilievo del IV secolo a.C. raffigurante la Natività, conservato nel museo di Atene e proveniente da Naxos. Il Bambinello in fasce dorme nella mangiatoia e, ai lati, ha due alberi, oltre all’asino e al bue. Gli alberi sono un pino e una quercia: si vedono le pigne sulla pianta a sinistra e le ghiande su quella a destra. Quasi certamente si tratta di un pino domestico e di una roverella, specie utilizzate dall’uomo per trarne cibo ben prima del Neolitico, quando finalmente iniziò la domesticazione e coltivazione delle piante. La farina più antica ad oggi conosciuta risale infatti a trentaduemila anni fa, più di ventimila anni prima dell’avvio dell’agricoltura nel vicino oriente. Gli amidi sono stati rinvenuti su un pestello trovato nella grotta Paglicci, a Rignano Garganico, Foggia. Insieme alle avene selvatiche, è provata, sul pestello stesso, la trasformazione in farina delle ghiande. Quindi, il Bambinello di Naxos sembra collocato in un “Giardino dell’Eden” di alberi selvatici che producevano semi commestibili: ghiande e pinoli, i più antichi alimenti amidacei del Mediterraneo. Ma come era possibile trasformare le ghiande, amare per l’eccesso di tannino, in una farina commestibile? 

Monte Sassoso (Ceriola): coppelle e il ricercatore
Roberto Ronchetti con il cane dello studioso Rino Barbieri

Le coppelle nelle rocce: antichi mortai?

Il processo era lungo, laborioso e potrebbe aver lasciato dei segni anche in alcune zone del nostro territorio. Parliamo, almeno per una parte, delle famose coppelle scavate su rocce - non del tutto rovinate dagli agenti atmosferici - come quelle di Ceriola/monte Sassoso e del monte Lulseto. Perché le coppelle? Come abbiamo già scritto in altri articoli, questi incavi nella pietra avranno avuto diverse funzioni - utilitaristiche e rituali - ma una è sicuramente la macinazione di semi per l’alimentazione. Foto e filmati dei primi del novecento, in California, ci mostrano le donne native mentre producono farina di ghiande, togliendoci ogni dubbio riguardo ai metodi di lavorazione. Vero che, sia a Ceriola, sia al Lulseto, in mezzo alle querce sono presenti dei castagneti, fonte di un amido più adatto all’alimentazione umana (perché senza tannini). Tuttavia, la coltivazione del castagno pare sia successiva e si debba ai Romani, pur essendo la pianta già presente allo stato selvatico anche nella preistoria. Sull’indigenato del castagno in Italia si è molto discusso. Alcune ricerche attestano, in base alle analisi di pollini fossili della pianura costiera apuana, la presenza del castagno già diecimila anni fa. Quindi, il castagno avrebbe resistito alle ondate di freddo glaciale susseguitesi nel tempo; pertanto, l’ipotesi che l’ultima glaciazione lo avrebbe fatto scomparire, per poi vederlo ritornare dall’Asia Minore, portato dall’uomo, è stata abbandonata. In ogni caso, nei periodi particolarmente rigidi, la quercia resisteva e dava frutti, il castagno no.

lunedì 12 febbraio 2024

DUE DOCUMENTI: UN ROGITO E UN TESTAMENTO - GOMBIO, NELLO STATO DI PARMA DI MARIA LUIGIA D’AUSTRIA

 

Soraggio di Gombio


Una dozzina di zecche, quasi trecento sistemi monetari, una selva di dogane: questa era l’Italia prima dell’unità. La frazione di Gombio non solo apparteneva al comune di Ciano, ma anche al ducato di Parma

Era il 1844 quando, a Ciano D’Enza, venne redatto un documento di compravendita che andremo a esaminare. Siamo nell’anno del trattato di Firenze, stipulato tra il duca di Modena, il granduca di Toscana e il futuro duca di Parma. Secondo gli accordi, alla morte di Maria Luigia d’Austria, duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla, tutti i territori parmensi (exclave) della sponda destra dell’Enza sarebbero passati al ducato di Modena e Reggio, mentre quelli (sempre exclave) di Bazzano e Scurano sarebbero ritornati a Parma.

Gombio, con le sue “ville” (gruppi di case), e Beleo erano in quella propaggine incuneata nel ducato estense e governata da Parma. Il confine più a sud tra i due ducati si trovava sul monte Battuta, verso Villaberza. Soraggio, collocato a nord dello stesso monte, ricadeva pertanto nello stato di Parma e ci sarebbe rimasto fino al 1848. In seguito, il via vai delle terre gombiesi, come spiega bene lo storico Giuseppe Giovanelli, sarà tra i comuni di Ciano, Casina e Castelnovo. In quest’ultimo, Gombio entrerà in modo definitivo soltanto nel 1959. Ma il va e vieni di Gombio, per diverso tempo, riguardò anche le due diocesi di Reggio e Parma.

Torniamo al 1844, quando un certo Natale Scarenzi, gombiese, e il signor Prospero Pedroni, calzolaio di Soraggio, vanno a rogito davanti all’allora sindaco di Ciano, Angelo Birzi. Oggi, a Gombio, il cognome Scarenzi resta soltanto a denominare una delle “ville”, essendosi estinto. Anche il cognome Birzi è quasi sparito, mentre era un tempo molto presente, tanto da far pensare a un’origine nel luogo stesso.






Pretura di Traversetolo, ducato di Parma: un rogito

La famiglia Pedroni di Soraggio scomparve, invece, con Antonio Luigi (figlio di Prospero), di cui si raccontava fosse partito per le Americhe e mai ritornato. I beni dei Pedroni, casa e terreni, vennero poi acquistati dalla famiglia Albertini, compresi quei castagneti dei “Valetti” o “Valeti”, situati di fronte a Leguigno e Beleo, di cui si parla nel documento qui riportato (compreso di evidenti errori ortografici)!

“Stato di Parma, Comune di Ciano - Pretura di Traversetolo Gombio - quarto Giorno tre 3 - novembre Mille otto cento quaranta e quattro, 1844.

Colla presente benché privata Scrittura, la quale la parte voliamo che sta valendo come pubblico

legale documento anche melio, si dichiara che il qui presente Natale di fu Luigi Scarenzi domiciliato a Gombio, che a venduto e vende a libera vendita, una porzione di uno fondo castagnativo posto nel territorio di Gombio, loco detto alli Valetti a cui confina, a matina il venditore, a merigio Violi Giovanni, a sera ed al nord l’aquirente. Al qui presente Prospero di Giuseppe Pedroni nativo e domiciliato in detto luogo, che compra stipola ed accetta per se, e con denari propri riccavati sotto la sua professione di calzolaio cosi dichiarando come dichiara in aqui. E questo pel prezzo di lire nove di Parma, trenta e cinque 35. prezo giusto convenuti amichevolmente. La qual soma è stata sborsata prima d’ora in mane del sudetto Scarenzi il quale dice e confessa d’averla anche ritenuta presso di se, facendole fini quietanze in ogni (?) E le predette cose tutte hanno asserito e asserivano le contraenti parti essere vere promettendone la piena osservanza sotto l’obbligo di se stessi beni tutti presenti fatturi (?) Li sopra descritti contraenti non si firmano, che Scarenzi, perché Pedroni e ileterato, pero viene pubblicato alla presenza di me infrascritto e degli sotto scritti testimoni cioè Costi Giuseppe, e Francesco Birzi tutti di Gombio, Scarenzi Natale afermo quanto sopra, Francesco Birzi testimonio Giuseppe Costi testimonio. Angelo Birzi Sindaco al Comune di Ciano, scrissi di comisione delle parte e fui testimonio: segue la registrazione a Langhirano il 16 gennaio 1845 con le tasse pagate

(N.B: il resto è incomprensibile)”