la vallata di Felina, con le viti a piantata, nel 1961 |
La tina - al femminile
- era il grembo sicuro in cui l’uva diventava vino.
Piazzata in cantina,
era un’alta, maestosa signora dall’abito di legno bruno; le doghe
tenute insieme da possenti cerchi di ferro.
Femmina, come le botti
ben allineate lì vicino, sui basamenti contro una parete, emanava un
alcunché di magia e mistero dietro la piegatura sinuosa delle assi,
la loro perfetta saldatura.
Magici e misteriosi
erano i rumori, i brontolii sommessi che ne scaturivano nei
dieci/venti giorni seguenti la pigiatura, come indiscreto, eccessivo,
aspro e felpato, era l’odore che invadeva tutte le stanze e
impregnava abiti e cose. Quando sentivi quell’odore, già
t’immaginavi le “mondine” ritirate dalla stufa, sbrigativamente
spellate e tuffate, ancora calde, nel vino novello.
Il dolce della polpa
delle castagne e dei marroni, soavemente combinato con l’acido di
quel vino appena rosseggiante, dalla bassissima gradazione, ma dal
sapore speciale, era una delle finestre che s’apriva sull’autunno.
L’estate era davvero finita.
Io avevo paura a
scendere in cantina. Era una paura infusa a dovere, a furia di
raccomandazioni e favole, e serviva a tenere noi bimbetti a debita
distanza dal pericolo di ruzzolare per le scale.
E lontano dal vino e
dai salumi, quasi di sicuro.
Per quel che avevo
capito dalle parole di mio nonno Carlo, in cantina soggiornava la
Burda, una creatura spaventosa, forse una strega; un essere
che mi avrebbe acchiappato per le trecce e divorato al volo.
Ogni volta, quindi, che
dovevo scendere là sotto, mi prendeva un nodo alla gola e brividi
freddi mi ghiacciavano la schiena, sempre immaginandomi quel mostro
che usciva dal buio dietro la “moscarola” (dove salami, coppe e
pancette erano protetti dalle mosche e insetti affini), o dal
sottoscala.
La Burda abitava
anche nel pozzo della “casa vecchia”, dove andavo a tirare su
l’acqua (solo per gli usi domestici, non essendo potabile), e anche
lì mi sarei voluta sbrigare per non incappare nella vecchia strega.
Ciò nonostante, dovevo
trattenere le mie paure e il secchio agganciato alla catena dovevo
calarlo adagio, facendo in modo che s’appoggiasse pressoché
parallelamente alla superficie dell’acqua senza liberarsi, che
altrimenti erano guai.
Un secchio in fondo al
pozzo, sfuggito al gancio, significava dover mettere mano ai “lovv”:
i “lupi”. Sorbirsi i rimbrotti di tutta la famiglia - e pure
qualche scapaccione - non era divertente (però, se capitava ad un
adulto, mica lo sgridavano!) e dopo stavi lì, inerme e col cuore
gonfio, a guardare il nonno che afferrava la catena, risalita tutta
sola, e ci attaccava quell’attrezzo, una sorta di mazzo di arpioni,
o di denti ricurvi (ecco perché, forse, il nome “lupo” o
“lupi”); poi lo lanciava giù, trascinandolo avanti e
indietro sul fondo finché il secchio non veniva riagganciato e
recuperato.
La Burda non ho
mai saputo cosa fosse concretamente, ma ancora oggi scendere nella
cantina dei miei mi costa un po’ di fatica…
Della cantina un altro
essere - questa volta reale - mi atterriva. Aveva otto zampe, due
grosse chele e una coda ricurva con tanto di pungiglione. Era nero,
lo scorpione, a volte marrone scuro e, nonostante mia madre
ramazzasse regolarmente il pavimento e tenesse la cantina in ordine
assoluto, questo sgradito ospite era facile ritrovarselo sullo
stipite della porta o ben appiattito in qualche angolo.
Eppure, quella volta
che io e mio fratello, piccolissimi, decidemmo di andare a verificare
laggiù cosa stesse succedendo - seguendo il brontolio della tina in
fermentazione, il profumo del mosto e il volo rosseggiante di nugoli
di moscerini su per le scale - non ci spaventarono né la Burda
né lo scorpione.
E fu una vera
catastrofe.
Probabilmente l’idea
era stata mia. Ero io, di solito, quella che “strolgava”…
Quella volta esagerai.
Veramente, c’eravamo
già stati in cantina a seguire tutte le operazioni della pigiatura.
Delegato a tale specifica azione era mio padre. Immaginai che
toccasse a lui perché era alto alto, con le gambe lunghe, quindi
l’unico a poter entrare nell’enorme tina senza scomparirci
dentro, come io invece temevo.
Lo osservammo indossare
due mutandoni di tela a righe lunghi fino alla caviglia, freschi di
bucato, tagliati e cuciti da mia nonna (quelli che vestiva
regolarmente mio nonno), arrotolarli fin sopra al ginocchio, poi
lavarsi con cura piedi e gambe in un mastello.
Non avevo mai visto mio
padre a gambe nude; non ci si scopriva, allora, anche se si facevano
mestieri in cui si doveva sopportare il caldo più atroce, e non ci
si scopriva, per lavarsi, davanti ai bambini. Nessun uomo portava i
pantaloni corti in campagna e quasi nessuno nemmeno le maniche corte.
Ho sempre visto mio nonno con le camicie a maniche lunghe arrotolate
fino ai gomiti, ma mai a braccia scoperte. In famiglia, solo mio
padre, muratore, osava la canottiera.
Quella volta, eccolo a
gambe nude entrare nella tina e cominciare a camminarci dentro,
premendo con forza sul mucchio dell’uva che vi era stata versata.
Un lavoro lento, lungo, indubbiamente faticoso. Niente del folklore
danzante e musicale di cui oggi lo si ammanta.
Tristi ricostruzioni
filmistiche dei mestieri d’una volta che - pur da salvare, in
parte, per gli aspetti didattici - mancano di deferenza alla fatica e
al sapere di quella gente che davvero li ha praticati.
La vite, per esempio,
richiedeva una cura e un impegno continuo, durante tutto l’arco
dell’anno, inverno compreso, quando era tempo di potature. Era
coltivata a piantata, cioè appoggiata a filari regolari di
alberi che ricoprivano quasi tutti i campi, perlomeno quelli esposti
al sole.
Anche la vite, come la
tina, è femmina; in Toscana, dicevano che la vite ha bisogno
“dell’omo”, e l’omo, per la vite, era un
albero.
La vite si legava
all’albero, l’abbracciava, vi si appoggiava per salire verso il
sole, cercando il calore che faceva maturare l’uva, allontanandola
dall’umidità del terreno, però non al modo di una soffocante
edera malefica, né come un’ingombrante, inutile vitalba.
La vite si sposava
all’albero. Era un amore: un tacito reciproco consenso. Un
matrimonio con l’acero campestre (l’oppio), oppure l’olmo,
il gelso, o persino il pioppo nelle zone di pianura.
In alcune parti
d’Italia, non a caso chiamavano questa coltivazione “vite
maritata”. È un tipo di coltura che pare risalire agli Etruschi e
che da noi si è mantenuto fino a circa quarant’anni fa.
In media montagna, la
vite era dunque coltivata accontentando la sua naturale tendenza di
rampicante e, di solito, non veniva innestata, né irrigata;
soprattutto, non subiva trattamenti antiparassitari, fatto salvo
l’uso del verderame e dello zolfo.
Tutto sommato,
trattamenti naturali.
Infatti, su quegli
alberi e in mezzo a quelle viti, nidificavano molteplici tipologie di
uccelli, dai merli al tordo sassello, al picchio, che, regolarmente,
si sentiva martellare sui tronchi. E poi cince, cinciarelle,
capinere. I passeri no, i passeri preferivano i tetti che dividevano
con gli storni a primavera. Sotto quelle piantate, nell’erba,
quaglie, allodole che s’alzavano in volo chiassoso, upupe in cerca
di formiche, donnole a caccia di pulcini. E la ballerina grigia, dal
capo scuro, che saltellava nel fieno mentre si rastrellava. Tutto un
mondo animale andato perduto con lo sradicamento di quel tipo di
vigneto.
Quelle piantate
erano inoltre, per me, un bel parco giochi. Sapevo arrampicarmi su
ogni albero, sfruttando proprio i sarmenti legnosi della vite
abbarbicati ai tronchi e, poiché le piante erano regolarmente potate
a formare, nella chioma, una sorta di ombrello rovesciato, alla
biforcazione dei rami c’era sufficiente spazio per immaginare di
trovarsi in un fortilizio.
Conoscevo ogni albero
e, quando la nebbia invadeva i campi, sognavo di trovarmi in una
palude, di navigare lì in mezzo su una canoa, alla maniera di una
squaw indiana - come avevo visto nei fumetti di Tex Willer – e che
ogni albero fosse una tenda-rifugio.
Mio padre, che lavorava
fuori e che tornava solo a sera, nulla sapeva di questi miei giochi e
rimase di sasso quando, un giorno, mi vide lassù, sull’ultimo ramo
di un oppio. Mi sgridò a dovere, mi ordinò di scendere,
spiegandomi cosa mi sarebbe potuto succedere se fossi caduta, e mi
disse di non farlo mai più. Non sapeva, lui, che io m’arrampicavo
ovunque: su alberi, calanchi, muri delle case, persino sugli enormi
gradini della cava di pietra del Monte Battuta.
L’avevo imparato da
Tex Willer, che sempre s’arrampicava sui muri e sulle rocce,
quand’era il caso…
In mezzo alle viti, in
ogni campo, nelle posizioni più soleggiate, c’erano le piante dei
meli e dei peri. Frutti antichi, frutti oggi scomparsi; frutti che
non necessitavano di nessun trattamento, perché resistenti a
parassiti e malattie. Soltanto poche, contenute potature era il
lavoro che richiedevano.
La mela ruggine, o
francese, dal colore rosato rugginoso e dalla polpa zuccherina,
farinosa, era la prima a maturare; poi la mela rosa, che durava tutto
l’inverno, e il “pomb costle” , una mela rossa, dalla
polpa succosa e dalla forma simile alla stark; la mela renetta, che
la mamma usava per fare le frittelle, intinte nella pastella dolce, e
le torte; il “pomb campanin”, una mela piccola,
giallo/verde, dalla buccia sottile, polpa bianca, dolce e fragrante.
La fioritura dei peri e
dei meli, con i loro racemi di fiori candidi, era tutto un ronzio di
api e di bombi, un profumo unico, e i petali che il vento spandeva
intorno andavano ad imbiancare l’erba giovane dei prati.
Allorché sradicarono
la piantata, e vidi il trattore (un Same Leone dei fratelli
Magnani del Fariolo) estirpare gli alberi uno ad uno, dopo che,
intorno, avevano scavato, squarciandone le radici, provai un dolore
immenso: mi sembrò uno scempio, uno spreco, uno sfregio alla natura,
alla bellezza, al creato; un vero peccato mortale.
Lo fecero perché,
ormai, i trattori, sempre più grossi, non riuscivano più a muoversi
in mezzo e sotto ai fili di ferro che collegavano gli alberi e su cui
si stendeva la vite; inoltre, l’operazione dell’aratura risultava
quasi impossibile e, intorno ad ogni pianta, bisognava vangare e pure
tagliare l’erba con la falce. E poi c’era il clima: mio nonno
diceva che l’uva non maturava più come prima, che qualcosa era
cambiato.
Il vino pareva sempre
più brusco, con una gradazione sempre più bassa e finiva per fare
i fiori , cioè si riempiva di fiocchi biancastri, credo
d’origine fungina. Mio nonno dava la colpa agli aratri che andavano
troppo a fondo e rovinavano le radici delle piante, e poi al tempo,
che non era più quello di una volta. Penso a quel che deve aver
provato a veder distrutto tutto il suo lavoro di anni e anni, tutte
quelle piante amorevolmente curate per una vita…
La prima uva a maturare
era quella dello “Stet”, un campo in basso, molto in basso
rispetto alla casa; una specie di conca che imprigionava il calore
del sole per il godimento delle viti.
Era un filare
abbastanza basso perché io potessi arrivare ai grappoli: densi, dai
chicchi completamente appiccicati uno all’altro, neri e di nero,
dolcissimo succo. Prendevo un pezzo di pane e correvo fin là,
staccavo un grappolo, poi un altro, e mangiavo pane e uva. In estate
lo avevo fatto con le amarene: pane e amarene; più tardi, lo avrei
fatto con le noci.
Tutto si doveva
mangiare col pane, era un imperativo categorico: la frutta, la
pastasciutta, il minestrone, il budino, per non parlare dei salumi.
Se osavi metterti in
bocca una fetta di prosciutto senza pane, ecco che partiva
l’imprecazione: “Non mangiare a cane! Prendi il pane!”
In ogni nuova stagione,
mio nonno faceva dunque i trattamenti con la poltiglia bordolese e
con lo zolfo alle sue viti.
Quand’egli portava a
casa i cristalli azzurrognoli del verderame, quasi gioielli preziosi,
io lo seguivo, curiosa, in tutte le fasi della preparazione
dell’acqua delle viti.
Dopo aver preparato il
verderame, lui partiva con la carriola di ferro, la ruota che
faticava ad avanzare nel terreno cedevole, e cominciava a spruzzare
il portentoso liquido celeste-turchese sui filari. In realtà, se poi
ne avanzava, l’acqua delle viti veniva spruzzata un po’
ovunque: nell’orto, sulle verdure e sulle rose.
Il celeste-turchese
arrivava dappertutto e alcuni spruzzi rimanevano per un po’ in
giro, finché le piogge non lo scolorivano; ci volevano però giorni
e giorni prima che tutte le viti fossero adeguatamente irrorate e
messe al sicuro da infezioni fungine.
Era spossante spingere
quella pesante carriola, fermarsi, spruzzare, ripartire; riempirla
quando l’acqua era esaurita. E il trattamento andava poi ripetuto.
In seguito, si passava
allo zolfo. Aveva un mantice, mio nonno, simile a quello che avevo
visto nella fucina dei cavapietre a Predolo, ma molto più piccolo.
Era attaccato a due stanghette di legno che, aperte, gli facevano
prendere aria e, richiuse soffiavano quell’aria attraverso un
serbatoio pieno di zolfo, poi in un tubo da cui la polvere dorata
finiva sulle piante.
Credo che fossero tre i
trattamenti da fare con lo zolfo, e mio nonno rientrava sempre in
casa completamente giallo-uovo da capo a piedi.
Lo zolfo che mio nonno
usava per le viti aveva anche un’altra funzione: quella di essere
impiegato come disinfestante per lo “scrigno”, il cassone dove si
metteva il grano dopo la trebbiatura, e pure per le stanze, se
infestate da qualche insetto. Mia nonna Eva prendeva una “padella”
- di quelle che si usavano per scaldare il letto con le braci e il
“prete” di legno - , ci metteva cenere, braci, poi, credo, lo
zolfo sulle braci e di nuovo la cenere. Ne scaturiva un odore
nauseabondo, un gas sicuramente tossico (anidride solforosa?); la
padella veniva collocata nello “scrigno” o nella stanza da
disinfestare e poi il tutto veniva accuratamente sigillato.
Non so per quanto tempo
lo zolfo dovesse agire, ma quando il cassone veniva aperto, c’erano
sempre piccoli insetti stecchiti sul fondo. Ora lo “scrigno”
poteva accogliere il grano con sufficiente sicurezza. Usando il
verderame, o qualcosa del genere, ricordo invece una sorta di concia
delle sementi del frumento prima della semina, forse la mattina
stessa.
Era tutto di mio nonno
il lavoro intorno alle viti.
Un anno che s’era
slogato una spalla, prese mio fratello, ch’era un ragazzino, e lo
mandò sugli alberi. Gli disse, passo passo, dove tagliare, dove
potare sia il tutore, sia la vite. Perciò, quell’anno, la potatura
la fece mio fratello. Senza tragedie, ch’era così in campagna: gli
adulti non si preoccupavano di crearti grandi traumi; sapevano che,
se seguivi le loro istruzioni, potevi imparare; sapevano che ne avevi
le capacità, perché loro c’erano già passati. E tu imparavi, e
questo, poi, ti dava una grande sicurezza.
È un filo di
comunicazione del sapere tra generazioni che la modernità ha
interrotto, creando, probabilmente, spaventose fragilità - e
solitudine - nei giovani.
Prendere coscienza di
essere capaci di fare tante cose e arricchirsene, pian piano, sotto
la supervisione degli adulti, aumentava gradualmente l’autostima, e
questo era uno dei lati positivi della civiltà contadina. Uno di
quelli negativi, invece, era la poca sorveglianza sui bambini.
Sì, il controllo
sociale, nei paesi, era tanto e ogni adulto si sentiva in dovere di
sgridare o riprendere ogni minore, parente o meno, ma, in genere, si
contava troppo sul buonsenso dei piccoli e le donne - mamme e nonne e
zie - erano sempre troppo impegnate nei loro lavori per riuscire a
tenere d'occhio a sufficienza i figli e i nipoti.
Si era liberi di
muoversi, di esplorare, di dare sfogo alla propria infantile
curiosità.
Come quella volta,
funesta, in cui io e mio fratello (forse tre anni lui e quattro io)
scendemmo in cantina a controllare il brontolio del mosto.
Mettemmo l’orecchio
contro la tina: dentro era tutto un gorgoglio; era come se il liquido
bollisse e, in alto, un nugolo di moscerini del vino pareva
abbeverarsi, nuotando nei vapori pungenti che esalavano dalle uve in
fermento. L’odore era straordinario, acre, brusco come frutta non
ancora matura e sollecitava le papille gustative.
Non so se sia stata
voglia di assaggiare quel vino o semplice curiosità, ma uno di noi
due (non ricordo chi…) cominciò ad armeggiare intorno a quello che
pareva un rubinetto, collocato in basso nella tina. Lo chiamavano
“spinello” e, da lì, alla fine del processo di fermentazione,
mio nonno avrebbe spillato un bicchiere di liquido per valutare se
era pronto da travasare nelle botti.
Traffica traffica, lo
“spinello” si aprì.
Il vino cominciò a
scendere, copioso, in terra. Provammo a chiudere, ma non ci
riuscimmo. Era un fiume di vino, ormai, che si allargava sulla
pavimentazione di cemento. Scappammo.
Richiamata,
presumibilmente, dal forte odore, mia madre scese in cantina e scoprì
il disastro. Da quel momento, per me è il buio: non ricordo niente.
Senz’altro, presi talmente tante botte che la mia mente ha
cancellato tutto. Mi hanno raccontato, più avanti negli anni, che,
dopo aver richiuso lo “spinello”, mia madre e mia nonna
cominciarono a raccattare tutto il vino possibile, lo filtrarono e…
lo riciclarono. Insomma: si poteva buttare via il lavoro di un anno?
Il vino, dal pavimento,
dunque, per quanto possibile, finì nelle botti e venne bevuto
durante l’anno.
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