venerdì 10 marzo 2023

DAL MEDIOEVO ATTRAVERSO I SECOLI - CASA FERRARI DI GOMBIO, EPOPEA DI UNA FAMIGLIA

 

Casa Ferrari di Gombio

La conca di Casa Ferrari di Gombio, proprio vicino al dirupo agghiacciante che precipita verso Rio del Monte, ha sempre avuto un microclima ideale per il frumento, le piante da frutto e l’uva da vino; l’insieme, con i campi coltivati digradanti nella vallata, dava, un tempo, l’impressione di prosperità. Oggi comunica soltanto isolamento e abbandono. La Pietra di Bismantova veglia il paese da sud, mentre il Monte Castello, in buona parte franato, s’innalza a nord ovest. Sembra sia del 1196 la prima citazione del “castrum”, ma il castello vero e proprio verrà eretto solo in seguito e - quale dipendenza di Rossena - sarà asservito alla famiglia dei Da Correggio; prima, però, con tutte le terre di Gombio, appartenne ai conti Da Palude, già stanziati nella rocca di Crovara dal 1267. Casa Ferrari nasce come pertinenza del castello, oppure come “Domus Ferrariorum”, luogo gestionale della famiglia. Ancora fino agli anni sessanta, una via saliva dal Mulino Zannoni per Monte Castello e raggiungeva Casa Ferrari; procedeva in seguito verso Soraggio e, poco prima, si biforcava per Gombio. Più avanti, a “Fontana morta”, svoltava verso Montecastagneto e il Monte Battuta, passando per “La Marsöla”. Proprio il toponimo “Battuta” potrebbe nascere da queste vie “battute” da greggi, merci e persone. Vie che collegavano la Val d’Enza e la Val Tassobbio, ma anche Parma, con Felina e Castelnovo ne’ Monti, oltre che con i mulini lungo i vari rii. Quello dei Ferrari era sul Rio Maillo: “al mulìn di Frēr”. Si chiama Ferrari anche il monte che divide Soraggio da Gombio e, tra Casa Ferrari e Soraggio, c’è un campo livellato dal nome eloquente: “Pian Mercato”. Su un sentiero che scendeva verso la chiesa di Gombio, passando per “Grögn Tórt”, nella “Büşa di Gāi” (in longobardo gahagi ‘bosco sacro recintato’) un giorno morì un parente di don Mailli, parroco di Montecastagneto, cadendo nel fosso con il suo cavallo. Una casata antica, con un passato facoltoso, i Ferrari; lo denotano il “palazzo” con stemma gentilizio e l’oratorio, ora sconsacrato, dedicato prima alla Madonna della Ghiara, come quello di Legoreccio, poi a san Vincenzo Ferrer, come - a Gombio – quello dei Copellini. Un altro oratorio/santuario, antecedente il 1700, intitolato a santa Elisabetta, si trovava invece in un luogo chiamato “La Maestà”: le donne vi si recavano a pregare per diventare madri. Crollato, venne poi ricostruito a Soraggio. Ma chi erano questi Ferrari e che ascendenza avevano? C’è chi pensa a soldati spagnoli disertori o ai familiari di san Vincenzo Ferrer (predicatore, nel 1403, in Piemonte e in Lombardia); ipotesi, quest’ultima, di don Walter Aldini. Si tratta, tuttavia, di congetture senza un riscontro documentale. Ne azzardiamo invece un’altra, grazie ai documenti forniti dallo storico Giuseppe Giovanelli e da lui già in buona parte divulgati.
Monte Castello, dove sorgeva, appunto, un castello


Ferrarius, signore di Groppo e Brigenzone

Nelle pergamene custodite nell’Abbazia di Marola, il nome “Ferrarius” indica varie persone, ma soltanto una ha a che fare con Gombio. Siamo nel 1175 - Matilde è morta da soli 60 anni - e un certo Ferrarius di Brigenzone decide di partire per Costantinopoli. Per quali motivi, non ci è dato saperlo. Ciò che è sicuro, riportato da una “Carta testamenti”, è che prima di partire fece – appunto – testamento. Un signorotto di Groppo e Brigenzone, dunque, appartenente a una casata di militi del vescovo di Reggio, forse in passato vassalli degli Attonidi (stirpe di Matilde di Canossa). La fortezza di Brigenzone era sul rilievo dove ora si trova la chiesa di Cola. Insieme al fortilizio di Groppo, il castello di Brigenzone controllava la valle di Rio Maillo e dell’Atticola, quindi il transito da Parma verso la Lunigiana e la Garfagnana. Qualcuno asserisce che la fortezza appartenesse ai Da Palude già ai tempi di Ferrarius, ma non è così. I Da Palude, ramo dei Gandolfingi (da “wulf”, “lupo” in longobardo), il cui principale esponente fu Arduino, capitano di Matilde, provenivano da zone paludose della pianura, tra Fabbrico e Reggiolo. Verranno in possesso del castello molto più tardi e Ferrarius non è quindi della loro dinastia.

Stemma dei Ferrari

Palma di Gerico



La partenza per Costantinopoli

Ferrarius ha molti beni sparsi tra la montagna e la pianura. Lui stesso si definisce di famiglia “romana”, pertanto bizantina. Sui monti, ha decine di proprietà ovunque, compreso il terreno detto “gomblisi”, cioè gombiese, di Gombio. Da altri documenti, sappiamo di case e beni in Reggio, terreni a Saliceto, Bagnolo, Sabbione, Rivalta… Una parte del testamento riguarda i servi: Ferrarius ha infatti i suoi “servi di masnada” che vivono in un non ben identificato “Montealbano”. I servi di masnada, spesso con i familiari, erano schiavi assegnati a compiti servili e militari sui quali era possibile disporre alla stregua di merci. Altri servi del Ferrarius sono quelli dediti alla “casa maritale”. Il signore era sposato con una “domina”, di nome Bestiaria, del potente casato dei Da Savignano, o Savignani, (sul Panaro). Non risulta che i due abbiano avuto figli, ma Ferrarius ne aveva già uno, frutto di una relazione illegittima, al quale aveva dato il suo stesso nome. Nell’agosto 1175, Ferrarius parte per Costantinopoli; prima, però, fa testamento “per l’anima sua e dei parenti”, lasciando i beni dotali alla moglie e gran parte del suo patrimonio al cenobio di Marola, con l’obbligo, per i monaci, di mantenere il figlio ancora bambino. Inoltre, concede la libertà agli schiavi purché servano la moglie finché vivrà. Sennonché, a Costantinopoli si concludeva, proprio in quel periodo, una guerra tra i Bizantini e Venezia, iniziata nel 1171. Dopo accordi stretti da Venezia con Federico Barbarossa e poi con Guglielmo II dei normanni di Sicilia, l’imperatore bizantino Manuele si era dovuto piegare alla pace. Ferrarius avrà saputo di questa guerra? Scrive lo storico Arnaldo Tincani: “Viene lecito supporre che Ferrario fosse andato in pellegrinaggio a Costantinopoli nell’impossibilità di raggiungere la Terra Santa (…) Molti pellegrini, taluni in veste ‘mercantile’, facevano sosta a Costantinopoli e quivi trovavano un vasto repertorio di reliquie, vere o false che fossero, di matrice palestinese o, più genericamente, di provenienza orientale”. In più, la chiesa di Cola è dedicata a Quirico e Giulitta, due santi allora venerati a Costantinopoli. Viene da pensare che Ferrarius avesse qualche interesse di tipo commerciale (compravendita di reliquie?) da quelle parti.

Atto di morte di don Domenico Ferrari
Palazzo Ferrari

La morte e la causa contro la moglie

Ciò che sappiamo, sempre dalle carte di Marola, è che Ferrarius era poi deceduto nemmeno dieci anni dopo la partenza: lo attesta una carta del 1184. Donna Bestiaria, rimasta vedova, sposò allora Arduino di Tabellano (Suzzara). A questo punto, donò parte dei beni ereditati dal marito defunto alla chiesa di Marola, riservandone per sé e per il coniuge l’usufrutto, e distruggendo i testamenti che avrebbero potuto avvantaggiare i propri fratelli Da Savignano. La rilevanza di tutti i beni posseduti dal Ferrarius emerge da una causa che venne poi dibattuta tra i parenti di lui e l’Abbazia. Nella causa entrò anche Rodolfo da Bismantova (ramo collaterale della famiglia longobarda Dalli), che reclamava per sé parte della proprietà. Chiudeva la raccolta delle testimonianze Alberto da Banzola. La sentenza, a favore dell’abate di Marola, venne pronunciata dal giudice Rogerio di Guastalla su mandato del legato imperiale Enrico da Lutra: Heinrich von Lautern dominus Luzzarie et Guastallae, vicario imperiale di Federico I e Enrico VI. In una delle carte, c’è la deposizione di uno dei testimoni al quale viene chiesto di confermare se fosse a conoscenza dei possedimenti di Ferrarius a Saliceto, Bagnolo e Sabbione, e se Ferrarius li avesse dati in pegno più volte al “normanno”, e se detenesse, questo “normanno”, l’usufrutto per il Ferrarius… Ora: il “normanno” in questione era l’appellativo di un signore della pianura, o si trattava dei normanni di Puglia? Ferrarius era forse stato imprigionato dai baroni normanni, prima di riuscire a imbarcarsi per Costantinopoli? Leggenda vuole che nel 1089 la stessa cosa fosse accaduta alla contessa Matilde.

Camillo Ferrari


Gioano Ferrari, capostipite. Don Domenico, l’artista


Nei registri di battesimo, la famiglia Ferrari compare agli inizi del 1500; d’altra parte, fu il Concilio di Trento (1545-1563) a prescrivere che i parroci registrassero gli atti dei sacramenti e delle sepolture. Gioano Ferrari sposa Isabetta, e, tra il 1560 e il 1579 avranno nove figli. È lui il capostipite. Non sappiamo, però, se discendente dal figlioletto di Ferrarius da Brigenzone. Il bambino, una volta cresciuto, era diventato un frate laico del monastero di Marola, cui aveva lasciato tutti i beni. Potrebbe, tuttavia, aver generato figli in precedenza. Non sappiamo nemmeno quando e se i Ferrari fossero rientrati in possesso di tutte le loro terre. Le proprietà erano infatti passate ai Da Palude nel 1188, per poi subire la devastazione, nel 1318 e negli anni subito precedenti, delle spedizioni del Comune di Reggio contro gli stessi conti Da Palude, all’interno delle guerre tra il Comune (guelfo) e i Da Palude (ghibellini, ma, anzitutto, briganti). Il “palazzo” Ferrari venne terminato nel 1677, quindi 359 anni dopo quell’evento. Probabilmente, sono i quattro pronipoti maschi di Gioano a edificarlo. Una delle pronipoti, Maria, nel 1630 sposa Domenico Todeschi; il cognome indica un’origine germanica e lo si ritrova anche a Soraggio e a Boastra. La provenienza potrebbe essere questa: tra il 1526 ed il 1527, migliaia di Lanzichenecchi, con le vivandiere al seguito, erano transitati per la pianura e, come riporta Guicciardini, avevano deviato per i monti di Parma (non lontano da Gombio...). La meta era Roma, ma, forse, alcuni fuggirono verso le terre “gomblisi”. Anche il cognome di Jacoma Scarenzi, che sposa Bernardino Ferrari nel 1684, sembra di origine tedesca. Poi, a proposito di spagnoli disertori, ci furono i mercenari sguinzagliati da Carlo V e successori, di cui si ricordano razzie a Bibbiano e, nel 1557, a Cadelbosco di Sopra. Nella famiglia Ferrari furono tanti i religiosi; uno è don Domenico, nato nel 1730 e ordinato sacerdote nel 1760, dopo aver studiato dai Gesuiti a Reggio. Abile scaglionista, continuerà le sue attività artistiche anche dopo l’ordinazione, lasciando opere sparse in varie chiese. Sono suoi anche i magnifici pavimenti in cotto della chiesa di Gombio. Domenico ha una vita movimentata e muore all’ospedale di Busseto nel 1805. L’arte della lavorazione dell’argilla era tipica della zona; a Soraggio, durante uno scavo, comparve il contorno di quella che pareva una fornace: la fossa dove le donne sciacquavano i panni, presente lì in passato, si chiamava “Furnaşeta”.


Casa Ferrari in basso


Camillo e il cugino Gianfranco


I simboli dello stemma. I martiri della Resistenza

Tornando al “palazzo”, notevole è il portale di pietra arenaria, con lo stemma intagliato e la data. Uno scalone porterebbe ai piani superiori, ma lo stabile è ora pericolante. Chi sessant’anni fa era bambino ha potuto vedere, guidato da Camillo Ferrari - bimbo anche lui – le decorazioni sulle pareti interne, mentre ascoltava il racconto di una grotta (i resti di una ghiacciaia?) nascondiglio dei “ribelli” antifascisti e di due soldati: un americano e un inglese. Per aver aiutato i partigiani, i cugini Ettore e Mario Ferrari, insieme a Nello Maroni, moriranno mitragliati dai nazifascisti sulla Battuta il 3 aprile 1944; solo Olievo Ferrari riuscì a salvarsi, mentre il paese venne incendiato. Nello stemma della famiglia c’è un leone “illeopardito”, o “passante di guardia”, con la testa di profilo e la coda rivolta in fuori. Poi, tre stelle a sei punte con raggi ondulati - che potrebbero significare tre castelli/proprietà o tre rami della famiglia - e, sulla stella di mezzo, qualcosa che sembra una palma di Gerico, simbolo del pellegrinaggio a Gerusalemme. Se così fosse, potrebbe trattarsi di un riconoscimento per Ferrarius da Brigenzone, il pellegrino che, cinquecento anni prima la costruzione del palazzo, voleva raggiungere Costantinopoli, dove forse non era mai arrivato e da dove, in ogni modo, non era mai ritornato. 

Monumento ai martiri della Resistenza sulla Battuta
























2 commenti:

  1. Bello conoscere un po' di storia della nostra montagna.

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  2. Interessantissima ricostruzione! Ancor più anticamente io penso che il cognome Ferrari, mutando alcune consonanti (B = P = PH = F) e perdendo la D finale (come accade in ALD GEHER che diventa ALGERI, ALIGHIERI o resta ALDEGARDI), derivi da un LONGOBARDO EBERHARD = OLTREMODO ARDITO!

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