Articolo pubblicato su Tuttomontagna dicembre/gennaio 2013/2014
Era stato definito “meschinissimo”, il luogo dove avvenne il
fattaccio; era stato dipinto come “freddo e povero, ricco soltanto di armenti”
da Filippo Re. Lassù, in alto, a quei tempi, in effetti più che persone c’erano
animali. C’erano, più o meno, cinque, seimila pecore, oltre alle mucche e ai
maiali: una popolazione di bestie capace di tosare a zero le erbe e i cespugli
del crinale, ma anche bisognosa di acqua per abbeverarsi. Una situazione
economica di agricoltura e allevamento, dove i sudati frutti del lavoro erano scarsi,
non corrispondenti all’immenso sforzo speso per produrli. Veccia, grano,
segale, castagne, ostinatamente ricavati dai pendii scoscesi di rilievi quasi
alpini, erano insufficienti per permettere una giusta prosperità. Tra gli
abitanti, gli uomini – i maschi adulti – erano pastori che praticavano la
transumanza, abbandonando a casa, in autunno, le donne, i vecchi e i bambini. Ecco:
se non si parte da questo complesso di elementi, è impossibile capire la ribellione,
negli anni Venti, delle donne di Ligonchio. La rivolta e la battaglia per
l’acqua. Bisogna proprio partire dal fatto che quelle donne erano venute su ben
addestrate a gestire da sole le incombenze di casa e della campagna per buona
parte dell’anno; in autonomia, con la supervisione del “nonno” (il più vecchio
della famiglia), si occupavano, da sempre, dei lavori primaverili nei campi,
come la raccolta delle pietre e il trasporto del letame; con le sole loro forze
riparavano le siepi, accudivano le vacche nella stalla, mungevano, facevano
nascere i vitellini. Donne, in qualche modo, padrone di sé e abituate a
prendere decisioni che potevano significare vita o morte per gli animali o per
i loro cari. Toccava a loro decidere; non potevano contare sul marito o sui
fratelli. Cresciute così: aspre e forti come la montagna, in famiglie numerose,
in case misere, dove in una sola camera dormivano anche quattro o cinque
persone, senza bagno, senza acqua corrente, avevano sviluppato una saggezza,
una coscienza dei loro doveri e diritti, una capacità di sopportazione e
resilienza uniche. L’acqua c’era, e tanta, lì intorno: la zona compresa tra il
Cusna e il passo del Lagastrello è una delle più piovose d’Italia. C’erano i
ruscelli, lì intorno. Acqua preziosa, innanzitutto, proprio per le bestie.
Difficile comprenderlo, oggi, ma era dalle pecore, dalle vacche e dai maiali
che si poteva ricavare il cibo per vivere, e gli animali richiedevano molta
acqua. Niente acqua, niente cibo, in conclusione. Bisogna partire da questo per
addentrarsi a fondo nelle motivazioni dei fatti che sconvolsero Casalino di
Ligonchio nel dicembre 1928. “Sono tutte imputate di ribellione alla forza
pubblica, - scrisse dopo il processo il giornale ‘Il Solco Fascista’ - per impedire che la società idroelettrica
dell’Ozola eseguisse i lavori di immissione delle acque del Rio Samagna nel
canale di derivazione… le suddette donne, che si erano all’uopo riuninte,
armate di bastoni, usavano minacce ai carabinieri, che avevano loro ingiunto di
allontanarsi, ed avevano tentato financo di disarmare della sciabola il tenente
Lella Vito, di Castelnovo Monti…”
Ma cos’era successo? Una ribellione di donne in pieno
Ventennio fascista sui nostri monti? E com’è che una notizia tanto grande e
tanto grave non ebbe poi, in seguito, nessuna eco? E chi l’ha recuperata,
questa notizia? L’artefice della riscoperta è Esterina Fioroni di Casalino di
Ligonchio, insegnante della scuola primaria con la passione della ricerca
storica locale, non nuova ad approfondimenti di eventi del passato. Nel dvd “Acqua
chit ven”, il documentario di Marco Mensa ed Elisa Merenghetti, prodotto da
Ethnos, Esterina racconta i fatti emersi da questa sua ultima indagine.
Ma
facciamo un passo indietro, seguendo il suo resoconto. La prima Società Idroelettrica dell’Ozola, sul finire del 1906,
presentò la domanda per la derivazione dell’acqua dell’omonimo torrente;
mancavano le strade a Ligonchio, e si cominciò a costruirle intorno al 1912,
per arrivare alla costruzione dei primi impianti di captazione a Predare nel
1919. Di lavoro in lavoro, si arrivò al 1927, quando si iniziarono le opere per
captare le acque del Guadarolo, dell’Ozoletta e del Rio Samagna, e fu lì che il
paese di Casalino rimase, inaspettatamente, senz’acqua. La legge che normava la
concessione delle acque diceva chiaramente che una parte di esse,
indispensabile per gli esseri umani e gli animali, la si doveva lasciare al
paese, in realtà, non fu così. Le donne si resero subito conto che il flusso nel
Rio Samagna era ormai debolissimo e che, quando l’acqua arrivava, era per lo
più sporca e fangosa. Che fare? Si era in pieno regime fascista: il 3 gennaio del
1925 l'Italia era entrata in una dittatura e venivano perciò applicate le leggi
fasciste votate nel 1924. La stampa era già imbavagliata, le libertà civiche
abolite, i consigli comunali soppressi. Posto che di uomini in paese, a causa
della transumanza, ce n’erano ben pochi (e tutti vecchi), le donne si resero conto che, comunque, sarebbe stato troppo
rischioso delegare a loro la protesta, perciò se ne assunsero tutto il peso e
la responsabilità. Cominciarono, quindi, a lamentarsi con gli operai, poi
contattarono i dirigenti. Niente. L’acqua continuava a scendere scarsa e sporca
nel Rio Samagna e in paese cresceva l’esasperazione. Allora eccole, le donne, riunirsi
dopo la messa, una domenica di dicembre, e stabilire il da farsi. Trenta donne
dai diciotto (quindi minorenni) ai cinquantacinque anni circa, alcune
imparentate tra loro. Esterina questa storia l’ha sempre sentita raccontare a mezza voce in paese. Se ne parlava, ma in modo vago, senza mai scendere nei dettagli. Si conoscevano soltanto i nomi delle tre donne che erano state incarcerate: Angelica Sacchini, Margherita Bertacchi e Caterina Galassini fu Innocenzo, ma delle altre non si sapeva nulla, né si conosceva il numero esatto delle contestatrici. Era stato un episodio troppo pesante e, forse, lo si era voluto rimuovere per sempre. Oppure, per quella sorta di pudore montanaro che spinge a coprire i gesti valorosi, la vicenda passò subito in secondo piano. Ma, sotto sotto, c’era sicuramente anche la paura di perdere quelle comodità che, con l’arrivo dei lavori per la centrale, avevano cambiato la vita del paese. Se ai primi del Novecento, per esempio, in tutto il comune c’erano solo cinque tra negozi e bar, nel 1927 si contavano già cinquantasette esercizi commerciali; c’erano le strade, ora, mentre prima la camionabile finiva a Busana e i collegamenti con Ligonchio avvenivano soltanto sulle mulattiere. A metà degli anni Trenta, grazie alla centrale, il paese sarebbe poi stato completamente fornito di energia elettrica, con case dotate di servizi igienici, e avrebbe avuto pure il telefono e il dottore. La presenza della Centrale - e delle possibilità lavorative ad essa connesse - avrebbe portato un benessere che la gente del luogo non poteva rischiare di perdere. Ecco una delle ragioni per cui, forse, la storia delle donne ribelli venne messa subito a tacere. Tuttavia, la tenacia di Esterina l’ha ripescata dall’oblio. “Ho conosciuto Margherita Bertacchi, - spiega Esterina, - che mi aveva detto di essere molto orgogliosa per quel suo gesto, e che l’avrebbe senza dubbio ripetuto. Poi ho conosciuto Eugenia, Ottavia, Gianna… E Cecilia Taddei, che raccontava di aver dormito vestita e con gli scarponi, quando l’avevano condotta a Reggio per identificarla, perché di quel letto non gliene giovava proprio! Erano donne normali, legate alla famiglia, con un forte senso di solidarietà sociale. Donne che avevano frequentato sì e no un anno o due di scuola, ma che sapevano tutte leggere, scrivere e far di conto. Tante non erano mai uscite dal paese. Non erano colte, istruite, ma sapevano, per esperienza di vita, che bisognava lottare e impegnarsi perché nessuno ti regalava niente.” Eccole, le trenta ribelli, dopo la messa, sedersi dunque sul fossato dove gli operai stavano lavorando e incatenarsi con le braccia una all’altra. Eccole resistere quando arrivarono i carabinieri, eccole minacciarli con i bastoni e i sassi, e, persino, prendere a sberle il capo della milizia fascista che era arrivato da Cinquecerri. Il tutto degenerò in una rissa e una delle donne, incinta, cadde nel canale, morendo, in seguito, per una meningite. L’assembramento venne sciolto solo verso sera e le donne furono condotte a Reggio per essere identificate e poi, in seguito, processate. Tre finirono in carcere. A conclusione del processo, la Società dell’Ozola incaricò una ditta di Civago di costruire i lavatori e le fontane nelle tre borgate del comune: Casalino, Case Bracchi e la Loggia. A fine luglio i lavatoi erano già in funzione e, all’inaugurazione, le donne si presentarono vestite a festa. Avevano vinto. Ora, Esterina Fioroni, con Giorgio e Giovanni Sacchini e Luca Bosi, sta raccogliendo tutto il materiale per scrivere un libro che contenga anche gli alberi genealogici delle famiglie delle protagoniste. Hanno già recuperato il documento della sentenza del processo e la pagina del “Solco Fascista” che narra dei fatti, ma le ricerche negli archivi e nelle biblioteche continuano. “Quello che vorremmo, alla fine, - conclude Esterina, - sarebbe poter dedicare una fontana a queste donne valorose, perché non vengano mai più dimenticate.”
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