venerdì 25 dicembre 2020

IL PETTIROSSO CHE SI CREDEVA UN'AQUILA - STORIE VERE DAL BOSCO DAL CIELO E DAL FIUME

 


La valle è una culla bianca di rocce e nebbia che abbraccia il fiume. In basso, le poche auto sbucano a risalire le strade come ombre sbiadite. Appena sotto le cime, sulle cuciture e le rughe dei monti, pendono fitte boscaglie di alberi spogli.

C’è un ramo proteso sull’abisso proprio dove le scie della prima neve indicano la via della luce e la via dell’aria. Piccolo, spavaldo, il pettirosso saltella sul grigio del robusto legno, riempiendo la scena meglio di un teatrante. Risoluto, l’uccellino balza tra i riflessi di luce, come un bambino salta la corda, e si diverte.

Dovrebbe stare più in basso, nei giardini, invece se ne sta lassù, sulle sommità, nei cieli dei grandi rapaci. Schizza, zampetta, svolazza e ci osserva; ci scruta curioso, piega il capo, forse sorride e poi… via: un frullo d’ali – sa di averle e non teme l’abisso – e scompare nel blu.

Rimane il lungo ramo, quasi braccio michelangiolesco di Dio, allungato sul vuoto.

Ramo davvero molto possente, tanto da richiamare Yggdrasill, l’albero cosmico della mitologia norrena: il frassino che sostiene la volta celeste. È sulla cima di Yggdrasill che staziona un’aquila, le cui ali, agitate con forza, creano il vento.

A proposito di vento, qui siamo sul Ventasso e l’albero sul precipizio non pare un frassino, ma un faggio. Un tronco sistemato in quel punto da qualcuno.

Sarà forse stato il gigante che ora dorme, là di fronte? Il gigante pastore che si disperò, quando la sua nipotina, inseguendo una pecora – la solita pecora nera – cadde e morì. Allora, lui si distese sul crinale e cessò di vivere, diventando il Monte Cusna. È dal suo occhio che, ancor oggi, scendono le lacrime che danno vita al torrente Secchiello.

“L’idea di un grande posatoio - e sono fiero di questa mia scoperta – mi è venuta perché, cercando di fotografare l’aquila, ho provato a pensare con la sua testa”, racconta Umberto Gianferrari, infaticabile investigatore e artefice, con l’amico Marcone, di questa installazione. 


“L’aquila è un predatore e, come tutti i predatori, cerca di risparmiare energie nella caccia. Ovviamente, deve poi posarsi per mangiare e riprendersi, ma non può farlo su rami troppo sottili per reggerla o troppo intricati per consentirle di ripartire. Ha dunque i suoi luoghi privilegiati per fermarsi. Mi sono allora consultato con l’amico Marco, il quale ha proposto di comprare un albero da un boscaiolo per usarlo come posatoio. Marco se lo è poi caricato in spalla e lo ha portato fin lassù. Senza di lui, senza il suo contributo in idee e azioni, non avremmo ottenuto i risultati che ora tutti possiamo vedere.”

Ecco svelato l’enigma: è su quel ramo collocato per l’aquila che il pettirosso si pavoneggiava, esibendosi in giravolte e cinguettii, gonfiando il petto rosso arancio, davanti alla fototrappola nascosta dai nostri amici!

Il delizioso uccellino simbolo della mitezza che, restando con noi, sfida l’inverno, sarebbe invece, secondo l’etologo Konrad Lorenz, molto aggressivo. Funzione indispensabile per la conservazione della specie, come ogni altra in natura, quando l’uomo non interviene a mettere scompiglio.

Comunque, su quel legno, gigantesca bacchetta magica, dopo settimane di prove e pazienza, i due fototrappolatori erano riusciti a ‘catturare’ anche l’aquila.


Immagini struggenti, esplosione di dignità, libertà e fascino. Lo sguardo dell’aquila che punta sulla fototrappola e il suo desiderio di volo che la spinge lontano. Del resto, la visione della regina dei cieli è carica di perspicacia, di ‘pensieri d’aquila’. Un uccello nobile, associato al sole, metafora dell’affermazione dello spirito sulla materia.

Ma come è arrivato, Umberto, a ottenere queste immagini?

L’aquila ha, appunto, una vista d’aquila, ed è impossibile non essere notati da lei. Per diversi giorni, dopo essersi costruito una sorta di capanno ed essersi vestito nel modo più mimetico possibile, Umberto è stato in appostamento. Eppure, l’aquila non si posava. Non c’era verso. 



“Con la fototrappola, invece, ovviamente in mia assenza, un giorno l’aquila si è posata e, più volte, è stata fotografata. Poi, con il tempo, ho verificato che sul ramo sostavano altri uccelli: poiane, falchi di diverse varietà, corvi imperiali, ghiandaie, tordi. Non capita mai che questi volatili abbiano a disposizione un ramo sporgente su una vallata, così ne approfittavano. Un giorno, tra gli altri - gufi, civette, allocchi, cornacchie - un giorno… chi ti vedo arrivare? Un pettirosso.

Pochi grammi di piume e penne, posato sul ramo, l’uccellino riusciva a riempire la scena come la regina dei cieli. Come l’aquila reale, che giunge ai due metri e mezzo di apertura alare e può toccare, la femmina - più grande del maschio - sette chili di peso. Era paradossale vedere come il pettirosso, con la sua eleganza, riuscisse a occupare tutta il palcoscenico. È proprio vero che, come dice un aforisma, in una gabbia per aquile, un pettirosso è libero!”

Il faggio sospeso sulla valle, braccio michelangiolesco di Dio, è diventato dunque luogo per posarsi (da pausàre, stare in quiete) e riposarsi. In realtà, i posatoi sono due, e il secondo coinvolge un altro personaggio. A portarlo fin lassù non è stato Marco, né un angelo, o forse sì… Forse è stato un arcangelo boscaiolo.

D’altra parte, le ali degli angeli, arcangeli e serafini sono ali d’aquila. Oltretutto, in quel punto siamo “in t’el fade”, dove il soprannaturale non è straordinario, ma ordinario.

“Come già detto, avevamo ragionato, io e il mio amico Marco Campari, di comprare un albero dal boscaiolo”, racconta Umberto, “portarlo su e fissarlo, lasciandolo pendere sullo strapiombo. Avremmo così dato all’aquila la possibilità di scoprirlo e riconoscerlo ogni volta che avrebbe volteggiato da quelle parti. Decidemmo poi per due posatoi, il primo dei quali trascinato lassù da Marcone. Pensavamo che l’aquila ci sarebbe atterrata per la stanchezza, ma anche per vigilare, da brava cacciatrice, sulla valle. Del resto, anche noi abbiamo bisogno di luoghi in cui tornare, anche se non sono casa nostra. Il boscaiolo in questione ha un nome che, più che da operaio dei boschi, sa di creature angeliche, anzi: di arcangeli. Si chiama Gabriele.” 


Succede che Umberto e Marco, mentre salgono sul monte, incontrano Gabriele e gli parlano del loro progetto; Gabriele è un boscaiolo - forse un arcangelo - ma frequenta i social e avrà di certo notato le foto della fauna locale che i due investigatori divulgano (perché oggi i boscaioli non bazzicano soltanto le selve, ma anche la realtà virtuale), per cui risponde: “Sì, ho visto le vostre foto. Io sono uomo dei boschi, eppure, ho visto la capra (fata) bianca molto da vicino solo grazie alle vostre immagini, ho visto finalmente gli animali delle mie foreste, per merito vostro, come mai prima. Ci penso, mentre sto tagliando con la motosega e scorgo le vostre sagome che si arrampicano per la carraia. Quindi, non parlatemi di soldi: vi regalo i due faggi posatoio: è un ringraziamento per ciò che mi avete permesso di guardare. Non solo ve li regalo: il secondo ve lo porto io a spalla, lo porto con il trattore e poi sulle mie spalle nel pezzo più ripido. Perché così avrò la sensazione che un po’ del merito di quelle vostre immagini sia anche mio.”


Il nostro tagliaboschi Gabriele non sarà forse un arcangelo, non avrà le loro ali d’aquila, ma dell’aquila ha avuto l’acume e degli angeli la bontà.

Non per niente, le funzioni dell’arcangelo Gabriele, oltre ad annunciare la nascita di bambini speciali, riguardano la custodia della creatività: è colui che ci aiuta a comprendere il talento e la bellezza, colui che fa ‘concepire’ le idee. Magari avrà a che fare pure con il ‘concepimento’ dell’idea del posatoio…

Il braccio di Dio nella Cappella Sistina si allunga a sfiorare la mano della sua creatura; i posatoi allungati sulla valle, che tanto lo ricordano, sono invece diventati, ormai, un po’ bacchetta magica e un po’ arca di Noè.

Ecco un corvo imperiale, in primo piano, e una poiana più in là, appoggiati ambedue su uno dei legni. Il corvide, più che gracchiare, borbotta e, piano piano, le si avvicina.

La poiana, allora, si gira dall’altra parte, snobbandolo. Sdegnato, anche lui ruota la testa, fingendo indifferenza. A quel punto, lei gli dà proprio “le spalle” e lo stesso fa il corvo, decidendo di volarsene via. Girarsi e girare il capo, nel mondo animale, è un “segnale di calma” che blocca le aggressioni. In realtà, lo usiamo anche noi umani, quando evitiamo chi non ci interessa, magari chinandoci sul cellulare o controllando l’orologio.

I corvidi attaccano spesso perfino l’aquila. Sembra vogliano giocare. O attuano il mobbing?


Fu proprio Konrad Lorenz a coniare il termine “mobbing” per descrivere il comportamento di alcune specie che assaltano in gruppo un altro animale. Umberto spiega però che, secondo lui, l’aquila tollera i corvidi perché se ne serve, in quanto essi sono i primi a scoprire animali morti, così lei, seguendoli, trova il cibo senza sprecare troppe energie.

Oltre ai magnifici, dispettosi corvi imperiali, oltre ai rapaci e al picchio verde, durante le notte capita che un topolino dei boschi ci sosti a pulirsi il musetto, che una superba faina lo usi come asse d'equilibrio, oppure, che un tasso si metta lì in posa, altero come un signore d’altri tempi.


Poi c’è sempre lui: il pettirosso.

“The Robin is a Gabriel”, dice Emily Dickinson in una sua poesia, cioè: “Il pettirosso è un Gabriele”, perché il suo rosso fa pensare a un postiglione o a un semplice contadino del New England. Ci dice, la Dickinson, che solo chi ha saggezza, più che istruzione – qualcuno direbbe intelligenza emotiva – come “un Gabriele” qualsiasi, riesce a leggere, nella natura, la realtà del mistero in cui siamo immersi.

E che ritornare in contatto con l’ambiente naturale, ascoltare la “punteggiature silvana”, il cinguettio del pettirosso, è il modo migliore per superare le nostre ansie e i nostri dispiaceri.


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