giovedì 7 gennaio 2021

IL PALO CLESSIDRA E IL CERVO RE - STORIE VERE DAL BOSCO DAL CIELO E DAL FIUME

 


La forma è ormai quella di una sorta di clessidra, opera di qualche strambo intagliatore.

A pensarci bene, potrebbe trattarsi, invece, di un busto stilizzato di donna, con il giro vita ridotto a pochi centimetri.

Oppure, ricorda un utensile per la filatura, una rocca, o due punte di fuso messe una sull’altra.

E, magari, le Parche, le tre divinità che un tempo controllavano il destino, saranno intente a filare lì a due passi, in qualche cavità della Pietra di Bismantova. D’altra parte, di qua è passato l’Alighieri, il quale le cita nel XXI canto del Purgatorio.

L’oggetto riporta alla mente persino due matite. Una che esce dalla terra e l’altra che la bacia, raccogliendone l’energia da trasmettere al cielo. O viceversa.

Da vicino, però, l’enigmatico manufatto appare mangiucchiato, come una mela ridotta a torsolo dai denti di un ghiro. Ma possono dei ghiri scolpire in quel modo un robusto palo del telefono?

Riescono, se s’impegnano, a demolire le travature delle case, ma perché avrebbero dovuto rosicchiare un palo inutile (per loro) tutto solo in mezzo a un campo?


“Sì, ci ho visto anche dei ghiri”, rivela Umberto Gianferrari, l’investigatore naturalistico (un po’ James Bond, un po’ Konrad Lorenz), che esplora i dintorni avendo sempre a portata di mano, sulla jeep, una scala telescopica, e che, inerpicatosi su quella, ha piazzato una fototrappola proprio sul palo/clessidra/matita, ormai stuzzicadenti.

“Ho visto cervi maschi, poi le femmine, con o senza piccoli; ho visto i caprioli, i tassi, i cinghiali, le volpi… tutti a strofinarsi su questo legno”.

La zona ricorda certe epopee celtiche, forse per la luce dorata che pervade i boschi, il verde irlandese dell’erba, gli affioramenti dei gessi triassici, i ginepri carichi di coccole, dietro ai quali ti aspetti, da un momento all’altro, di veder spuntare un elfo.

C’è invece un bambino, vicino al palo, e pare Pinocchio che dice al suo alter ego di legno: “Com’ero buffo, quand’ero burattino!” È il piccolo Leonardo Campari, detective naturalistico in erba, figlio del grande amico di Umberto.

Intorno, qualche ripa rosso scuro o verde oliva di ofioliti, rocce eruttive figlie di antichi vulcani marini. Era il fondo del mare, questo, e lo si avverte: si percepisce ancora l’energia delle onde tutt’intorno. Poi c’è il fiume, più in basso, con il suo gorgoglìo modulato, il Secchia che al mare sta scorrendo e che porta con sé un po’ di montagna e un po’ di questo incanto.

Siamo, infatti, ai piedi della Pietra, in un versante di campi coltivati e boschi di roverelle, digradante, con garbo, verso l’ampio alveo del fiume.

“Qui doveva esserci il castello di Vologno”, dice Umberto, mentre ferma il fuoristrada su quella che doveva essere stata una via medievale e che ora è poco più di una carraia sconnessa, tutta dossi e taglia acque.

Un rudere, più recente, è presso il rilievo dove c’era il castello; è solo la porzione di una parete color rosa confetto, eppure, attrae, affascina. “Quanta tenerezza in questa immagine”, commenta lui, “sono i resti di una scuola elementare… quante voci di bambini dietro quelle mura!”


Sul cocuzzolo ci fu davvero un fortilizio, già presente nell’estimo del 1315, nel quale vennero censiti a Vologno ben sei "fuochi", cioè sei famiglie. Quando i “Da Bismantova” si ritirano dalla Pietra, scelsero il fortilizio di Vologno come sede del pretorio della giurisdizione “Bismantina” e come loro residenza.

“Li vedi quei ginepri? Vedi come sono scortecciati? Sono stati i cervi, ci strofinano i palchi. Anche quella, cos’è… una robinia? Vedi come l’hanno ridotta?”

Un mucchietto di palline nere, grosse come mandorle - residuo della digestione del cervo - ne segnala il passaggio. Tuttavia, non sono solo i cervi a scortecciare le piante con il palco (chiamato erroneamente “corna”), lo fanno anche i daini e i caprioli.

L’effetto sulle piante si chiama “fregone”. Sono marcature prodotte dai maschi per sfogare l’aggressività nella fase della riproduzione, o periodo del bramito. Allora, li si sente mugghiare, bramire (e sono davvero spaventosi) nelle vallate.

“La potenza e l’importanza della voce…”, ragiona Umberto, “pensa che è il bramito a stimolare l’estro nella femmina, non il contrario.”


In altri momenti dell’anno, quando il maschio deve levare il velluto dal palco, i cervi adoperano come “spazzola” gli arbusti più piccoli. Fanno “brusca e striglia” sui ginepri, per esempio.

Il “fregone” ha anche valore di marcatura olfattiva attraverso alcune ghiandole sul capo e in altre parti del corpo. È una comunicazione chimica, basata su sostanze odorose, i feromoni, che hanno il compito di “parlare” a individui della stessa specie.

Un po’ come se formassero e utilizzassero un gruppo whatsapp o una newsletter.

Chi si sfrega su un albero lascia un messaggio che viene recepito da chi si strofina dopo di lui, e così via. La marcatura è pure visiva: serve a dire agli altri maschi di stare alla larga da quel territorio.

Pare di vederle, queste creature maestose, questi re con la corona, spingersi tra i campi aperti per poi intrattenere un duello con gli alberi, prima che con i propri simili. Com’era dei cavalieri e dei re che si allenavano, in vista delle battaglie.

Davvero, le due parti sommitali dei palchi si chiamano “corona”, e si sovrappongono al “mediano, all’ “ago”, al “pugnale” e alla “rosa”.

“Spesso ho visto il cervo adulto che, accortosi del rivale, si gettava con veemenza sul ginepro, la robinia o il maggiociondolo, scortecciandoli”, spiega Umberto, “quasi volesse dire al concorrente: ti conviene andare altrove!”

Re che ostentano le loro corone, come il cervo della favola di Fedro. E che magari - dice la favola - si lamentano delle proprie gambe magre, quando, invece, saranno quelle - e non la corona - a salvarli. La morale non è difficile da ricavare.

Re, principi, regine e principesse che risalgono di notte gli argini dei campi per raggiungere il palo/clessidra/matita/fuso e lì, intorno, dare inizio a una danza, un abbraccio corale, un rituale con una liturgia metodica e armoniosa. O forse un sabba?

La simbologia dei palchi, in fondo, è realmente quella di una corona, tanto che, per alcuni, “corna” e “corona” hanno la stessa radice etimologica. Cernunnos, il dio celtico, era dotato di corna di cervo e il suo nome ha proprio origine in un termine che significa corna: “horn” ancora oggi in inglese.

“Vedi? Ecco i resti di pelo attaccati al legno. Hai notato quanti altri pali ci sono nei dintorni? Eppure, gli animali vengono tutti solamente qui. Si ritrovano in questo posto. Tutti, non solo i cervi.” Che mistero!

Umberto ha ragione, ma questo palo del telefono è posto quasi al centro di un campo, in una posizione che invoglia a riunirsi. La prima impressione è quella di un luogo sacro.

Gli animali, con gli zoccoli, hanno marcato il terreno alla sua base, formando un anello che, di notte, deve risultare bianco come la luna. La luna della dea Diana, dea della caccia, delle acque, delle partorienti; Diana ritratta sulle monete romane alla guida di un cocchio trainato da cervi, con la luna crescente sotto i piedi.

“Annusa il legno”, mi consiglia il nostro investigatore, “senti che strano odore? Sa di… traversine ferroviarie.” Mi avvicino e annuso. Più che altro, mi viene in mente qualche seduta dal dentista. Che strano odore. Forse, gli animali saranno attratti proprio da questo?

In uno dei video della fototrappola, due cerve, insieme, strofinano il capo e il muso al palo; passano più volte il collo e le orecchie sul legno, sfregandosi e sfiorandosi. Il piacere è evidente.



Ricordano i gesti di un gatto nei confronti del padrone, ma anche quelli di un qualsiasi cucciolo nei confronti della madre o dei fratelli.

“Sembra quasi un modo per accarezzarsi, dato che non hanno le mani”, riflette Umberto, “però, ciò che non mi spiego è che qui si strofinano specie diverse, come se fosse un punto di incontro, per loro, in cui comunicarsi qualcosa.”

Una ricerca fatta in Trentino sui “grattatoi” (gli alberi usati per strofinarsi), ha verificato l’impiego della stessa pianta da parte di almeno otto specie diverse. Secondo un’altra ricerca (McTavish e Gibeau, 2010), alcune piante sarebbero “animal commmunication trees”, servirebbero, cioè, da “casella postale” dell’intera comunità animale.

In una foto, ancora quattro cerve con i musi vicini a lambirsi e rasentare il palo; in un’altra, il re a sfregare il suo palco; poi un gatto che passa di lì e una volpe, sotto la neve, che si struscia con voluttà.

Il gatto, la volpe, il legno incantato, Pinocchio e… Giovanni, da Vologno Di Sotto, minuto e forte, con la “sghirbia” dei montanari. Conversiamo con lui, mentre i suoi occhi azzurro pungente (un azzurro che dimostra la tenace presenza del mare) ridono, affettuosi, e le mani contadine stringono il bastone da passeggio.

Che sia Geppetto in incognito? Che sia, il campo del palo, quello “dei miracoli”?


La ricerca realizzata in Trentino ha appurato che gli orsi si strofinano anche ai pali del telefono, preferendo quelli trattati con il creosoto.

È una sostanza distillata dal catrame di legno di faggio o di carbon fossile, il creosoto, e ha proprietà conservative, disinfettanti, insetticide. Allevia dolore e irritazione, infatti, viene usato anche… dai dentisti! Sarà creosoto quell’odore di traversina ferroviaria che emana il nostro palo?

Il mistero sarebbe svelato, ma Umberto propende per un’altra spiegazione che rimanda agli “animal commmunication trees”.

“Io credo che il palo sia un modo per scambiarsi tenerezze. Credo che qualsiasi essere vivente, anche un animale selvatico, per avere nostalgia di una carezza non debba per forza averla conosciuta. Quando sono lì che si strofinano, che sia per marcare il territorio o per altro, penso che scoprano quel desiderio di gesti affettuosi, di sfiorarsi, che era già dentro di loro. Osservando i filmati, il palo si presenta proprio come un dispensatore di carezze. E le carezze, pur essendo lievi, lasciano segni indelebili sia in chi le riceve, sia in chi le fa. In questo caso in lui, il palo, cambiato per sempre.”

Il palo clessidra misura il tempo su sé stesso, lasciandosi consumare dagli abbracci. Tempo che non può essere detratto o aggiunto alla vita, ma che può legarci per sempre a ogni creatura alla quale si è donato.






   

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