giovedì 13 settembre 2018

ROVINE - RACCOLTA DI POESIE DEDICATE AI CASTELLI DI MATILDE


Alcune delle poesie presenti nel libro















Nostalgia delle pareti

Le bufere non hanno atterrato
gli aceri e le querce:
di leggiadrìa sacra, i tronchi
non temono il vento
né la nebbia. 
I semi danzano e vanno,
volano, orientati dal cosmo, 
fin sulle pietre alte
torreggianti,
dove la luna
sorveglia l’insonnia dei gufi.
Hanno assunto il vivere
rasente l’abisso
gli alberi e i cespugli,
anche se costa e fa male.
Per nostalgia delle pareti,
delle travi sorelle
a difesa, o per sete millenaria,

che le tormente non fermano.



Sul confine

L’azzurro è limite, è il confine,
linea smerlata del precipizio,
infinito nel cielo e oltre.
L’universo riversa melodia
nell’utero del castello,
nel nostro grembo.
Quanto sangue, sui muri,
e quanti baci, nella luce azzurra
oltre il margine infranto.
Ogni pena, nella vita,
tutto il male che ci offende
si riordina e sbiadisce
sul confine.
Riprendere fiato a fondo
dobbiamo,
e odorare le foglie, la neve,
le viole e i narcisi.

Odorare la calendula
e i minuti secondi che ci restano.
 


In attesa

Nelle ore smorte di certi giorni
si attende chi non arriva
tra le pietre,
e si celebra ogni assenza,
ogni rimpianto,
con battesimi di pioggia fine.
Di sasso in sasso, sui gradini,
l’umidità scioglie la solitudine,
dilava dal volto la ruggine bruna
del rancore, la stilettata dolente,
irritante,
di vecchi abbandoni.
La pioggia è innocente, è compagna.
È confidente sicura, come i laterizi
delle scalinate, e le tegole rosse
figlie di arcaiche fornaci.
Colano invisibili le lacrime
sotto la pioggia
nell’attesa di chi non arriva.

Siamo tutti in cerca di un villaggio,
in attesa inquieta di un incontro.



L’inverno dell’anima

Fiocchi di neve smarriti,
ammassati nelle strettoie,
collane di perle abbandonate,
abbozzano marosi di spuma.
Muraglie come grovigli
di fauci nevose
labirinti dove l’anima
cristallizza, pietrifica,
si fa diamante
e solleva tra le braccia
il bambino ferito
della propria interiorità.
E gli mostra, a ponente,
i poggi estivi

dove sbocceranno i papaveri.





  Canossa

C’era un nido sulla vetta piana,
su questa pietra riparata, fragile,
bianca, consumata,
come certi inverni di gennaio,
quando onde brune di scirocco
smembrano le nevi.
C’era una roccaforte
altera, bellicosa
sullo scoglio, sull’isola
dai riflessi di sale,
sovrana dei calanchi;
fortezza, ora, bruciata dal fulmine,
abbaglio di ieri, sembianza che sfugge
tra le rovine,
tra residui macchiati di malinconia:
illusione spezzata per sempre.
Eppure, quel nido disfatto
non è pietra abbattuta,
ma un sentiero da imboccare
a piedi nudi.
Proseguiamo sui passi di chi,
nel fondale del crepuscolo,
proietta da secoli lontani

le nostre ombre.

  

Lei

Si può solo tacere, qui
davanti al cuore del mondo
e rimanere sazi di bellezza
come una corolla in faccia al sole.
Non si ha voglia di alzarsi
dal fresco dell’erba
dove riposa il sogno dell’estate.
Ci si scopre rapiti da una festa limpida,
sotto il quieto blu 
che avvolge i colli.
Dolce terra, consacrata, protetta
con la pazzia di un grande amore, 
da Lei, che ancora cammina,
lungo strade e sentieri
e mai accetterà l’esilio.
Cammina superba e libera semi
nel terreno rigoglioso

dove tutto ebbe inizio.



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