sabato 11 febbraio 2012

QUANDO CAMMINAVAMO SULLA NEVE

http://www.redacon.it/2012/02/11/amarcord-la-neva-i-frin-farlott-e-quel-candore-speciale/



Io negli anni settanta a far finta di sciare
Da Soraggio, nel ’62, quando ho iniziato le elementari, si andava a scuola a Gombio; seguendo il tracciato della Provinciale che va a Trinità sono circa tre chilometri. Tuttavia, noi bambini prendevamo gli “scurtoni” in mezzo ai boschi. Un reticolo di sentieri e carraie che conoscevamo bene perché, allora, i bambini seguivano gli adulti fin da quando cominciavano a camminare: anche le mamme e le nonne lavoravano nei boschi a fare la legna, pulire i castagneti, raccogliere le castagne, e i figli erano con loro.

Dunque, il tragitto per Gombio lo conoscevamo bene e, ogni mattina, si partiva in gruppo.

C’era chi aveva già sui 15 anni (bocciato e ribocciato) e chi solo sei; il viaggio era un’avventura e credo che i bambini, davvero come gli ubriachi, abbiano un santo che prega per loro, visto che, a parte qualche bernoccolo in testa per guerriglia di sassate, nulla di veramente grave è mai successo. Quando pioveva, le mamme, ovviamente a piedi, ci venivano incontro con quei grandi ombrelli neri che gli ombrellai, ogni tanto, passavano ad aggiustare. Noi, ai piedi, calzavamo stivali di gomma neri (pure quelli) con dentro due o tre paia di calze di lana fatte a mano; erano due o tre numeri in più, perché altrimenti mica ci stavano le calze; così, magri com’eravamo, sembrava che avessimo dei piedi enormi.

Poi nevicava. La maestra Antonietta abitava a Gombio e non aveva problemi.

La maestra Alda, invece, che prima veniva dal Feriolo con la vespina (spesso pure a piedi!) si fermava a Gombio a pensione presso una famiglia, ma noi continuavamo il nostro tragitto in assoluta normalità. Si fa per dire.

Certo, quando nevicava, mica ci si andava a scuola!

Troppo pericoloso anche per degli adulti rischiare di perdersi in mezzo alle “gonsedre”, quelle specie di dune di neve ammassata dal vento che potevano raggiungere anche due metri e più, figuriamoci per i bambini!

Si stava a casa e si mettevano in giro i “frin” per prendere gli uccellini… che poi non è che ci fosse molto da mangiare in quei poveri passeri, ma non erano male con la polenta.


Chi, come me, aveva il nonno cacciatore, aveva anche la fortuna di seguirlo nel capanno d’appostamento del “panione”; esperienza unica, perché c’era un focherello acceso e si stava lì ad aspettare che gli uccellini rimanessero invischiati nelle panie.

Miracoloso, quel vischio, che avevo visto mettere a “maturare” sotto il letame tempo prima.

Dunque si stava a casa e si aiutava a spalare, a portare in casa la legna, l’acqua potabile (che bisognava, comunque, andare a prendere ad una fontana), quella per lavarsi (tirata su dal pozzo o recuperata dal grande mastello d’alluminio posto sotto la grondaia).

I bambini più bravi aiutavano anche nella stalla e le bambine, comunque, in casa avevano sempre, fin da piccolissime, qualche compito da svolgere, che nelle famiglie contadine si usava così.

Gli uomini organizzavano le spalate e cercavano di fare la “rotta” tra i vari paesi, soprattutto quando c’era ancora un po’ di latte da portare al casello perché mica tutte le vacche erano prossime al parto, (nel qual caso il latte si teneva in casa e, ogni giorno, c’era quel grosso pentolone in cucina da cui poi si doveva tirar su la cagliata da spremere per ricavarci quei formaggini di sapore unico, soprattutto strinati sulla stufa e disfatti sulla polenta).

Poi, appena smetteva la bufera, si tornava a scuola.

Ma mica per la strada. No, si prendeva per i campi.

Non so perché, ma la neve, allora, gelava e diventava dura come il cemento; così ci si camminava sopra senza sfondare ed era una meraviglia partire alle sette del mattino, appena la mamma era tornata dalla stalla.

Si afferrava la cartella di cartone (robusta come fosse di cuoio) dove c’erano un sussidiario, un libro di lettura, un astuccio, due quadernini e un piccolo panino con l’affettato del maiale di casa o una mela dei nostri campi conservata in solaio (o, a volte pure un uovo sodo) e si diceva sì alla mamma che ti chiedeva mille volte se avevi preso il fazzoletto da naso.

Poi ci si lanciava giù per i campi, respirando l’odore umido dei boschi, incuranti del gelo sul viso che, però, spesso era così screpolato da sanguinare.  

Le discese più ardue si superavano semplicemente appoggiando la cartella sulla neve; su quell’improvvisata slitta ci si sedeva e poi… giù!

Non oso immaginare in che condizioni arrivassimo a scuola, ma la maestra Alda era una mamma, oltre ad essere una splendida insegnante, ed era figlia di gente semplice, come noi, perciò ci capiva.

Le battaglie a palle di neve e i “cristi” che i più deboli dovevano subire durante il tragitto, oltre alle cartelle recuperate nei fossi, si sprecavano.

Una volta l’ho pure dimenticata in mezzo ai castagni, la povera cartella, e sono tornata indietro a prenderla. Poi, più avanti, in quinta, il maestro Nello, che aveva sostituito Alda, modernamente arrivava con una fiammante “Bianchina”; pure d’inverno, con le catene.

E ci caricava, cioè: ci stipava all’inverosimile, uno sull’altro, però lasciando comunque un bambino a piedi, che proprio nella mastodontica vettura non ci entrava. Così, a turno, uno di noi se la faceva a piedi da solo. Che era molto meno divertente, ma era l’inizio dell’era moderna e della solitudine individualista d’oggi.

Vennero le medie e a Felina ci portava Lillo Tommasi, il “servizio pubblico” di Gombio.

Aveva un macchinone lungo, ma anch’egli ci stivava come sardine nella scatola e non ricordo in quanti riuscivamo a stare su quell’auto.

Allegria era viaggiare con Lillo, anche sulla neve.

Ci insegnava le canzoni da osteria e le cantavamo insieme a squarciagola, tanto che le note dello “spazzacamino” che va su e giù per le contrade si combinavano perfettamente col paesaggio innevato e con le strade delimitate da muri di neve.

C’erano ragazzi, come Adelfo e Ornella, che avevano comunque un bel po’ di sentieri e strade da farsi a piedi per raggiungere il punto in cui Lillo ci raccoglieva, ma era normale così.

A nessuno veniva in mente che fosse dovere di qualche istituzione pensare al trasporto degli scolari: Lillo lo pagavano le nostre famiglie, così come pagavano il seminario di Marola per i ragazzi che avevano scelto di frequentare là la scuola media. E allora erano ancora tanti.

Un giorno, era forse il ‘66/’67, cominciò a nevicare così forte che, quando Lillo venne a prenderci, le strade erano già quasi impraticabili.

Bene o male, riuscimmo ad arrivare con la macchina fin verso Predolo, in mezzo ad una bufera che impediva la visibilità e cancellava ogni punto di riferimento.

Poi scendemmo a Soraggio, ma da lì a Gombio era impensabile proseguire.

Credo di ricordare (ma forse sbaglio) che Lillo sia andato giù a piedi con la più grande delle ragazze trasportate, Mariapia, mentre le altre rimasero a Soraggio, ospitate dalle famiglie.

Soraggio restò isolato per cinque giorni buoni, forse una settimana.

La neve arrivava al primo piano delle case e si girava per il paese in una specie di labirinto di sentierini/gallerie che univano le stalle e i pollai alle case.

Perché le galline e le vacche dovevano pur mangiare, le vacche munte, e l’acqua delle “pilette” andava fatta scongelare.

Non erano un gran problema il rifornimento di cibo, anche perché si mangiava molto meno.

In casa, di solito, c’era abbastanza farina per il pane per almeno una settimana; c’erano le uova, c’era la roba del maiale ammazzato durante l’inverno, c’era il latte delle vacche, c’era la scorta di zucchero e sale, c’erano le prugne e le amarene fatte seccare durante l’estate e conservate nei cartocci ben nascoste ai bambini ingordi; c’erano le mele distese sul pavimento del solaio.

C’era pure il savurett, c’erano le castagne secche e c’era la farina di castagne con cui fare dei bei “fartlot” che così buoni non li ho più mangiati.

Poi c’erano, sempre di scorta, le saracche, il baccalà e le patate. 

Una bella scodella di latte e pane alla mattina e alla sera, una minestra o una pasta o una polenta o un risotto a mezzogiorno e la pancia era piena.

Perdemmo una settimana di scuola, quella volta, eppure. Siamo qui, meno analfabeti di altri che avevano molte più possibilità e stimoli culturali di noi.

Siamo qui, ringraziando la maestra Alda e il maestro Nello, meravigliosamente umili nella loro professionalità, sempre profondamente umani. Capaci di camminare con noi nella neve.

Siamo qui, ringraziando Lillo e la sua allegria che ci dava sicurezza; ringraziando tutti i santi che, da lassù, sicuramente, proteggono gli ubriachi, i pazzi e i bambini e in cui i genitori di oggi, pare, confidino meno. 

(Normanna Albertini)

2 commenti:

  1. Questo racconto mi ha ricordato il muro di neve, per me altissimo, che divideva la strada che percorrevo per andare a scuola. Il Comune - Aosta - non aveva i mezzi di oggi e la gente si arrangiava come poteva per liberare le strade. Ognuno palava il tratto di via davanti casa o negozio, e, non potendo portarla via, la ammassava al centro della strada. Per noi bambini quel muro bianco era una montagna. Ci giocavamo per giorni, finché non si scioglieva, senza mai sentirla ostacolo.

    RispondiElimina
  2. ....che emozione questo racconto....sono cresciuta a pochi km da Gombio, i miei tutt'ora abitano a Montale, un paese incuneato tra colline che esaltano una vista unica, tra cui spicca la Pietra di Bismnantoca, il Cusna, il Cimone, e contorni di paesini magici quale Leguigno.
    Sono nata nel 1959 e dunque mi riconosco appieno nella descrizione degli inverni nevosi di quei tempi, nella descrizione dei cibi preparati e riposti nelle dispense di allora, che servivano da scorta a periodi di totale isolamento, quale quello che hai così bene descritto.
    Tuttora, alla bella età di 53 anni e dopo essermi, oramai da più di 30 essermi trasferita in quel di RE, ritrovo ogni volta che torno in quei luoghi, le mie origini "contadine" che mi hanno tenuta ancorata ai riti della natura,mi hanno insegnato il senso del sacrificio e soprattutto il rispetto delle regole che non sfuggono al tempo e all'ambiente.
    Tra l'altro portiamo lo stesso cognome.....dunque, è probabile che abbiamo qualche parente in comune.....e complimenti per il nome, davvero inusuale, ma raro e speciale.
    Angela

    RispondiElimina