mercoledì 15 febbraio 2012

PROFUGHI: "DEPORTATI" DALLA LIBIA, TENUTI NEL LIMBO SENZA LO STATUS DI RIFUGIATI



I ragazzi profughi con gli amici di Casina
Sono stati accolti dall’estate scorsa a Casina e ora sono a Felina, nella casa dell’ex custode del vivaio. Agyeman in Libia faceva il sarto; Adam guidava una ruspa; Anthony lavorava in un distributore di benzina; anche Kamis e Janefi lavoravano già da due anni e mandavano i soldi alle loro famiglie (che avevano fatto dei debiti per pagare loro il viaggio in Libia) quando è scoppiata la guerra. Vengono dal Ghana e dal Sudan. Non è colpa loro la guerra e non era certo loro obiettivo essere “deportati” in Italia. Volevano solo lavorare e vivere. Invece… La Libia era in fiamme, loro sotto i bombardamenti e in mezzo ai disordini; era il febbraio scorso, e l’idea di un’invasione di profughi aveva spaventato l'Italia. Poi sono arrivati. E non è stata un’invasione. Tutti molto giovani, al di sotto dei 35 anni. In Sicilia sono stati divisi in gruppi e assegnati ai vari territori regionali in attesa di conoscere il loro destino. Hanno chiesto asilo politico e, per molti, la loro domanda è in corso di verifica. La procedura può durare dai 5 gli 8 mesi e, alla fine, non è poi sicuro che venga riconosciuto lo status di rifugiato.
In caso di risposta negativa, questi giovani o vengono rimpatriati oppure diventano, assurdamente, clandestini, dopo che sulla gestione delle loro vite si è finanziato il circuito dell’accoglienza. Molti di loro sono operai specializzati, ma i profughi ora, per legge, non possono essere utilizzati, e sono quindi costretti ad aspettare inermi notizie sul loro futuro. Quasi nessuno di quelli giunti in Italia è libico: sono tutti africani e asiatici. Alcuni sono scappati di propria volontà, altri semplicemente deportati in Italia dalle milizie di Gheddafi. Basterebbe che il governo riconoscesse un permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari a tutti i profughi della Libia, così da permettergli poi di scegliere cosa fare della propria vita: se restare in Italia nonostante la crisi, se provare a proseguire il viaggio raggiungendo gli amici sparsi in Europa. O se, invece, ritornare in Libia (o nei propri paesi), in caso non trovassero qui le condizioni di lavoro adeguate. Afferma padre Alex Zanotelli, che li ha incontrati a Napoli: « Rivolgendosi a noi italiani, dicono: ‘Avete appena fatto una guerra contro la Libia di Gheddafi . Noi lavoravamo lì e siamo dovuti scappare. Ora l’Italia non ci riconosce lo status di rifugiati politici. Perciò viviamo in questo limbo assurdo, guardati con sospetto dai cittadini e dalla polizia’. Ho sentito con nitidezza, durante quell’incontro, che è questo il Natale: quello vissuto fuori le mura da coloro che non contano, da coloro che sono sbattuti da una parte all’altra, come il povero Gesù, che poi fu crocefisso dall’Impero come sobillatore.» I ragazzi accolti a Felina stanno intanto frequentando, in parrocchia, il corso di italiano: la lingua è la prima cosa che può aiutarli ad uscire dall’isolamento che crea loro imbarazzo e sofferenza. Anche la forzata inattività li mette a disagio: vorrebbero potersi sentire utili, fare qualcosa per la comunità e, anche, conoscere le persone che qui vivono. A Casina avevano incontrato un bel gruppo di giovani, tra cui Matteo, Lisa ed Elisa che ancora oggi vengono a trovarli e si tengono in contatto con loro. « Non preoccuparti, - sorride Anthony quando dico che mi dispiace per la loro situazione – il mondo è così, non puoi farci niente. Ma c’è Dio lassù che, piano piano, ci aiuterà. Solo lui può farlo.»



(Normanna Albertini)




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