domenica 23 febbraio 2020

LA MORTE NERA – DAL ROMANZO “PIETRO DEI COLORI”

Stralcio dal capitolo "La morte nera"
 
Disegno di Sara Davalli

– Ah, Lucrezia, Lucrezia, abbi pietà, almeno tu. – riprese a strepitare Rodolfo. – Vieni, aiutami, tanto non ti lasceranno mai uscire, non possono. Morirai qui dentro, chiusa qui con me. Ah, mio Dio! Un medico, fate venire un medico.
Far venire un medico? Lucrezia immaginava le orecchie, le labbra, la parte terminale delle mani e dei piedi e la schiena di suo marito coperti di chiazze e lividi, violacee e scure, così come il naso. Immaginava il suo volto prendere un aspetto raccapricciante, drammatico; prima scarlatto, poi nero cianotico, mentre gridava, con parole che uscivano spezzate e la lingua, sicuramente, pendente tra le labbra, come quella di un cane idrofobo.
Quale medico avrebbe voluto esaminarlo? 
Il fumo fetido dei falò dove, sul prato a ridosso della chiesa, stavano bruciando i maiali morti di peste, si infiltrava dalla finestra e si mischiava all’odore della calce viva sparsa nei dintorni e al puzzo di escrementi, vomito e putrefazione proveniente dalla stanza di Rodolfo. L’odore stesso della morte.
– Un medico, chiamate un medico. – singhiozzava l’uomo con voce sempre più flebile.
Lucrezia strinse tra le braccia la statua del Bambin Gesù e la cullò amorevolmente, osservando, fuori, i becchini con la maschera a forma di lungo rostro, il cappello, il mantello e i guanti di cuoio che, con un bastone, raccoglievano le carogne di cani e gatti disseminate nei dintorni per gettarle nel fuoco. Sarebbe bastato il loro lavoro per fermare la peste a Borsigliana?
Lucrezia Fina sapeva che nessuno l’avrebbe soccorsa: sarebbe rimasta chiusa in quella casa con Rodolfo fino alla fine e, difficilmente, sarebbe sopravvissuta.
Perché curare gli ammalati, fornendo loro cibo e acqua, significava morire con loro.
Sapeva che nelle città, per l’abitudine alla peste, i cuori si erano induriti al tal punto che il lutto non usava più, quando non succedeva che i cadaveri venissero sommariamente interrati in fosse comuni fonte di orribile puzzo. L’odore stesso della morte.
Spesso, i becchini non bastavano a seppellirli, e allora i morti rimanevano per strada, insepolti, agghiacciante e funebre spettacolo per i vivi.
Certo, qualcuno guariva; succedeva quando non c’era febbre, quando il bubbone veniva fuori rapidamente e appuntito e, se inciso con il fuoco, lasciava cascare subito la superficie dura, dalla quale usciva il liquido marcio, mentre il tessuto sotto emergeva sano e roseo.
– Mi guardi? – sussurrò Lucrezia Fina al Bambinello. – Capisci il mio dolore? Mi guardi? Mi salverai, vero? Come la calce sparsa qui intorno, sconfiggerai il male.
Non voleva più morire, era presto, troppo presto. Non aveva nemmeno conosciuto l’amore di un uomo, soltanto aveva appena sfiorato l’amore del suo Pietro.
In effetti, aveva sfidato la morte tante volte, Lucrezia, con i suoi prolungati digiuni, ma non l’aveva mai guardata realmente in faccia.
Ora sì, e ne aveva paura, per la prima volta. Ingoiò una mandorla di theriaca.
La tenerezza del Bambino e la corona di spine del Cristo adulto, lo sguardo affettuoso di Maria e la spada che le feriva il cuore divenivano un tutt’uno nei suoi pensieri. Amore, dolore e morte.
Depose Gesù nella culla e cercò tra le pieghe del vestito la tasca dove serbava la faccia di luna.
Un grido le risuonò ancora nelle orecchie: “Devi far paura…”
In realtà, era lei ad avere paura, un terrore cupo. Fissò con attenzione la pietra scolpita e, all'istante, dallo specchio di fronte, emerse il volto niveo dell’ostessa sotto la chioma fulva e scarmigliata:
– Hai paura, vero? Non devi, non temere.
 – Tu, ancora… E dici che non devo aver paura. Ma la morte è qui, dietro quella porta. Senti? Senti il pianto di Rodolfo?
– Oh, lo so. Ma tu stringi forte la luna tra le mani. È lei che rende fertili i campi aleggiando su di essi per nutrirli. Quante volte l’avrai vista aggirarsi con il mantello bianco somigliante a nebbiolina sparsa. Vuoi che non soccorra te che sei femmina come lei? Ma devi farti forza, perché la luna non sopporta la pigrizia delle donne. 
La luna era la maga che andava nelle case per esaminare con cura conocchie e arcolai, cercando fiocchi di lana sciupati e che, se ne trovava, puniva la filatrice colpevole.
Era una donna con i lunghi capelli arruffati, gli abiti consumati e la faccia rugosa, tuttavia dagli occhi bellissimi. La luna dalla pelle impura che tutte le filatrici temevano, le spingeva a non perdere nemmeno un filo di lana.
La pigrizia delle donne le era intollerabile. La pigrizia delle donne, piegate al loro destino, le reprimeva in una servitù perenne che la luna non voleva.
Uno sbraitare agitato allontanò Lucrezia Fina dallo specchio e la fece accostare alla finestra. Era quasi buio, ma riconobbe frate Mauro, laggiù, e altra gente, e uno dei becchini, o forse un medico, con la maschera dal becco imbottito di erbe officinali.
– Aiutatemi, se potete, – gridò lei sporgendosi dal davanzale, – non sento più Rodolfo, forse per lui è finita. Mi lasciate morire qui?
La maschera odorava di angelica e di lavanda, era fastidiosa sul viso, ma il lungo naso zeppo di erbe era l’unica protezione contro il morbo; Pietro lo sapeva bene, per questo aveva chiesto di poterla indossare per andare a recuperare, nelle stanze della casa, il trittico della Vergine ormai completato. Ma ora era un’altra l’idea che gli balenava in testa.
– Che vorresti fare? – gli chiese preoccupato frate Mauro. – Togliti la maschera, lavati con acqua e aceto e andiamocene da qui. Vuoi sì o no rivedere tuo nonno?
– Il libro misterioso vi interessa più della vita di madonna Lucrezia? – domandò Pietro con sarcasmo. – Se è così, sono pronto, ce ne andiamo.
– Benedetto ragazzo. – sospirò il frate scuotendo il capo. – Vado a verificare le condizioni dei muli. Domattina, all’alba, partiremo per il passo di Pradarena.
Alzò lo sguardo verso la finestra e vide che la giovane si era ritirata. Con un groppo alla gola si avviò verso la stalla; non poteva farci niente: Lucrezia Fina sarebbe morta o sopravvissuta indipendentemente dalle sue azioni o da quelle di Pietro. Non c’era cura per la morte nera.   
Angelica, theriaca, lavanda, olio di scorpione: tanti medicamenti, ma pochi risultati.
Era intervenuto persino l’arcangelo Raffaele, “Dio che guarisce”, angelo della guarigione e custode dell’umanità, che aveva svelato le virtù benefiche dell’angelica agli esseri umani. Era apparso in sogno ad un uomo in un paese flagellato dal morbo, informandolo sul potere della pianta; la popolazione, disperata, aveva seguito i suoi consigli e l’erba aveva riscosso grande successo, ma chi poteva giurare che fosse un credibile rimedio?
Mentre, la mattina seguente, frate Mauro predisponeva i muli per la partenza, vide quattro becchini, con maschera e cappello, entrare nella casa di Rodolfo. Si sforzò di pensare al mappamondo da completare, al paradiso terrestre da sistemare vicino all’India, in una regione sconosciuta, all’estremo limite della terra bagnata dall’oceano che tutto circonda. Come già avevano fatto i cartografi Andrea Bianco e Giovanni Leardo. Si sforzò di pensare al Corpus Ermeticum trafugato a Costantinopoli e nascosto a Costa de’ Grossi, nelle terre dei Lombardi. Ma il suo pensiero andava continuamente alla povera Lucrezia Fina, segregata sola con la morte. 
Ancora scosse il capo e mormorò:
– Che santa Fina ti protegga dal male, piccola innocente.



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