sabato 28 settembre 2019

LETTERE DALLA ROCCA DI MINOZZO - LIBRO DI GIUSEPPE GIOVANELLI

Chi fa ricerca storica e poi la diffonde deve, in ogni caso, essere anche un abile scrittore, con una cura speciale per la forma comunicativa, i metodi narrativi, le scelte stilistiche e il linguaggio utilizzato. Ci riesce benissimo il professor Giuseppe Giovanelli, storico di primario valore, allievo di monsignor Francesco Milani, che dalle carte degli archivi, spulciate e accantonate negli anni, riesce a ricavare testi divulgativi di piacevole, facile lettura, eppure di grande impatto culturale. Autore del nostro Appennino, Giovanelli ha alla spalle una produzione di almeno una ventina di libri e la partecipazione a molte altre opere, come la storia della Diocesi di Reggio e Guastalla. Due anni fa, sollecitato da alcuni amici di Minozzo, ha pubblicato un volume che è un affresco coinvolgente degli anni tra il 1426 e il 1448, non solo del territorio minozzese, ma di tutta quella parte di montagna facente parte del Ducato estense, comprendente anche la Garfagnana, con relazioni in Lunigiana. Il libro si intitola “Lettere dalla rocca di Minozzo” e l’autore lo introduce così: “Le lettere, oltre a dare una collocazione precisa nel tempo ad alcuni eventi storici fondamentali, descrivono, con una lingua semplice e ancor quasi dialettale, la vita quotidiana dei Minozzesi di allora, il loro rapporto di fraterna convivenza con i Garfagnini, le modalità – non sempre entusiastiche come vorrebbe la vulgata ufficiale – della loro sottomissione agli Estensi, la loro voglia di libertà e autonomia, il loro sentirsi Chiesa allo stesso modo in cui si sentivano comunità civile.”
Senza l’instancabile lavoro di indagine, studio e decifrazione degli originari atti d’archivio, non avremmo “la storia”. “Lettere dalla rocca di Minozzo” è frutto di questo certosino lavoro di ricerca e ci conduce in un mondo, quello della montagna del basso medioevo, sottovalutato dai più, sconosciuto, dimenticato. Innanzitutto, però, quando si tratta di storia “locale”, dovremmo comunque ricordare che definire una volta per tutte i fatti umani è pura utopia, perché sempre nuovi documenti e notizie ci giungono dal passato a scompaginare le nostre conoscenze. Forse anche quest’opera qualche dubbio lo instilla, creando desiderio di ulteriore conoscenza.
In una lettera del 5 giugno 1426 riportata nel libro, per esempio, il podestà di Felina, Conte dei Costabili, responsabile in montagna della guerra contro i Fogliani, scrive, a proposito degli armigeri delle rocche: “Questi uomini non possono comperarsi neppure il pane e voi volete che vi paghino il sale? E se anche avessero i soldi – come voi credete che abbiano – volete che corrano anche il pericolo di venir giù a portarveli? A mio avviso è stata una villania incarcerare quell’uomo di Berzana. Non c’è tempo per queste faccende, gli uomini si sentono oppressi, non risarciti come è stato fin qui. Credetemi se vi dico che si induriscono e si disperano. Vi prego, vi prego, messer Vicario, messer Massaro, rimettete in libertà quel povero uomo, lasciategli quel po’ di soldi che la guerra gli lascia, ne ha un gran bisogno. Quando i tempi saranno migliori, si potranno riscuotere sali e dazi con comodo…” Insomma: non è che le guardie delle rocche e gli stessi castellani se la passassero poi tanto bene. Nel 1443, alle Scalelle viene sostituito il castellano Franceschino da Ramusana con Giovanni di Polo da Monzone, detto Giovannello. Ebbene: a quest’ultimo viene anticipato uno stipendio di due mesi da restituire a rate nei primi sei mesi successivi.

Oltre al capitolo specifico che tratta della storia e della costruzione della rocca di Minozzo, Giovanelli ricava dai documenti preziose informazioni sui dazi, le tasse, l’amministrazione della giustizia, i delitti d’onore e contro le donne, la vita dei podestà, le vicende dei castellani, le vicende dell’ultimo dei Dalli di Piolo, Andreolo, e poi la famosa “lite”, durata trecento anni, tra i “Toschi” e i “Lombardi” per i pascoli di quella che oggi si chiama, appunto, “Lama Lite”.
Il quadro che viene fuori dagli atti è quello di una montagna abitata, dove i piccoli borghi spopolati di oggi erano punti cruciali sulle vie dei commerci, paesi ambiti dai vari signori. La famiglia longobarda Dallo, originaria della Garfagnana, aveva avuto qui i suoi feudi: Piolo, Ligonchio, Predare, Scalelle-Gazzano, dove si elevavano, a quei tempi, le rocche.
Inconcepibile risulta, oggi, l’importanza di Piolo, punto d’incontro delle strade provenienti da Busana e Cervarezza con quella di Minozzo, via che poi, superato Ligonchio, proseguiva verso il valico per la Garfagnana. Qui, il territorio dei due versanti appenninici, da Minozzo a Camporgiano, era strategico soprattutto per i traffici commerciali di Lucca. Si scopre, addentrandosi nella lettura, che l’agibilità delle strade, anche nel periodo invernale, doveva essere totale, soprattutto per permettere il servizio di consegna della posta da Reggio fino alla Lunigiana. Toccava agli abitanti di Minozzo la spalata delle nevi, il servizio più oneroso, che consisteva nel tenere aperti i valichi dell’Alpe. “Con rozze pale di legno, essi devono liberare un sentiero, percorribile da muli o cavalli, proprio nel pieno della stagione invernale quando la maggior parte degli uomini è in maremma per la consueta transumanza (…) Terribilmente gravoso appare l’inverno del 1446 – 1447, particolarmente in gennaio quando, approfittando di lunghe bufere di vento e di neve, si fa più ardita la ribellione di alcune ville di Camporgiano, la vicarìa (podesteria) garfagnina che giusto un anno prima, il 12 febbraio 1446, convinta dalle ragioni e dalle armi del podestà di Felina, si era sottomessa al marchese di Ferrara.”
Meraviglioso il capitolo “Una ‘compagnia’ di pecore”, dove si ricorda, tra l’altro, che nel 1472 la nascita del Monte dei Paschi di Siena vide la partecipazione dei pastori reggiani. Tenute al pascolo sugli alpeggi del Cusna in estate, d’inverno le pecore erano condotte a svernare nelle “maretime” di Toscana e qui, sia per la cessione della lana che per la vendita del formaggio, i pastori entrarono in stretta collaborazione con i banchieri locali. Per sostenere questo forte circuito economico, nacque appunto il Monte dei Paschi. “Nel XV secolo prevale l’organizzazione così detta della “compagnia di pecore”: c’è chi mette il capitale (e possono essere anche più persone) e chi lo conduce, cioè il pastore vero e proprio, detto allora pecoraio (pegoraro). Chi mette il capitale (…) generalmente è un nobile o un borghese che ha disponibilità di contante o che, comunque, riscuote la fiducia del banchiere o del prestatore di denaro.”
È una bella finestra su quei tempi e quei luoghi, abitati da migliaia di pecore e altri animali al pascolo, la lettera al Reggimento del novembre 1442 in cui Giacomo Tirimbochi racconta le vicende di Sparapan e Simone di Bertoluzzo, “capitalisti”, che costituiscono una compagnia di pecore con un certo Zuntello di Butignana (pecoraio, anzi: capo pecoraio, cioè vergaio) e affittano un terreno per il pascolo a Castiglione della Pescaia  da un certo Nicolao. Sparapan e Simone porteranno poi via le loro pecore senza pagare l’affitto al padrone dei campi e in prigione finirà il solito poveraccio: un certo Cristoforo del Casale di Quara, semplice pecoraio.
La nascita dei primi archivi risale più o meno al secolo XV, quando Stati e regni europei cominciarono a dotarsi di un apparato, più stabile e complesso, costituito da organi centrali e periferici per l’espletamento di varie funzioni. Il documento d’archivio, quindi, non è solo un’altra fonte storica utile alla comprensione di un evento, ma assume un più grande significato, rappresentando la visione di un evento da parte di un organo ufficiale del regno/stato, com’è per le lettere raccolte e studiate da Giovanelli. 
L’introduzione al libro termina con questo auspicio che sa tanto di speranza: “E mi auguro che ulteriori ricerche di giovani di buona volontà trasformino questi squarci furtivi in quadri e panoramiche di ben più ampio e soddisfacente contenuto.”



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