Cantieri oggi, annonaria ieri
Lavori in corso, cantieri aperti
un po’ ovunque nel bel mezzo dell’estate: fibre per interrare le quali si deve
rompere l’asfalto, catrame a ricoprire i solchi di cemento lasciati in bella
vista dagli operai delle fibre, fogne che esondano a ogni temporale tropicale
(anche se non siamo ai tropici), campi arati che riversano fiumi di fango in
mezzo alle case, operai a sturare le fogne e a ripulire l’asfalto dal fango dei
campi arati. I mesi di luglio e agosto sono andati via così, con mia madre ogni
giorno a osservare, criticare, descrivere i cantieri disseminati lungo il
percorso, all’andata e al ritorno dal Centro diurno della Residenza sanitaria
assistenziale (lode e benedizione su di essa).
«Oh, ma c’è un peso, ma un peso
su quel camion… Non vedi? Come si fa a portare in giro un peso così?» Dice,
riferendosi a un enorme escavatore dondolante sull’autoarticolato che ci
precede.
«Oh, ma se cade, oh, ma sai che
peso?»
«Sì, mamma, se cade ci ammazza,
lo so», dico io, toccandomi l’abbondanza apotropaica che ho sul torace, «ma
vedrai che l’avranno legato bene…»
Lei si aggrappa con tutte e due
le mani alla maniglia in alto - sembra davvero nel panico - poi sbotta:«Eh, se
ci ammazza pazienza, così la finiamo tutti di tribolare».
Se prima, a queste sue uscite,
rispondevo con impulsività, ottenendo un suo irrigidimento e l’immediata
recrudescenza della sua innata testardaggine, oggi lascio correre, anzi: le do
ragione.
Inutile sprecare fiato ed
energie. Inutile dare la stura all’adrenalina, che poi mi si riversa nel
sangue, alza i livelli di cortisolo, aumenta il colesterolo, la pressione e
dopo mi obbliga a imbottirmi di pillole. Ormai, ne prendo più io di lei.
Soprattutto (per impedire a tutte
le pillole di bucarmi lo stomaco), devo mandar giù subito, al mattino, la
pastiglietta protettrice. Gastrite cronica, dice il dottore. Da nervoso, dico
io.
Poi, leggo che il cortisolo, sollecitato
dagli alti livelli di stress, provocherebbe le demenze. Allora mi immagino tra
vent’anni ridotta come lei, per cui, sì, forse sarebbe meglio che
quell’escavatore ci piombasse sull’auto.
Però, no, ripensandoci mi seccherebbe,
perché l’auto è nuova, ci ho investito parte del mio Tfr e vorrei godermela un
po’.
Ho sempre il terrore di
sbagliarmi, con le medicine, di confondere le sue con le mie. Pazienza per le
gocce di ferro e di vitamina B che prende ogni mattina; pazienza per lo
sciroppo lassativo che prende ogni sera, pazienza per la cardioaspirina, che,
tanto, la devo assumere anch’io, ma i farmaci per la demenza? Probabilmente, mi
ricovererebbero in overdose al Sert con tanto di lavanda gastrica.
«La miseria! Ma che fosso hanno
scavato, lì? Ma non vedi quanto è fondo? Attenta! Vuoi finirci dentro?»
Io freno, rallento:«Mamma, non è
un fosso, stanno preparando tutto quel terreno per costruirci delle case, stai
tranquilla che non finiamo fuori strada, perché non ti fidi? Ho mai fatto
incidenti?»
«Case? Delle case vicino al
cimitero?»
«Perché? Non vedi che bella
posizione? È ai piedi della Pietra di Bismantova.»
«Ah, taci, va’… Va be’ che i
morti non disturbano!»
Rallento ancora e quasi mi fermo
per lasciar passare un “bobcat”, e lei ricomincia: «Oh, ma guarda che c’è un
gran fosso, lì, è pericoloso, ci si può finire dentro!»
«Non è un fosso, mamma…»
Caro il mio santo, mio confidente
in eremitaggio sulla mensola, sento che sto soccombendo, che ormai lei mi ha
vinta. Pensa che, per la seconda volta, ho sbagliato la data di uno screening
per la prevenzione di un tumore. E me l'ero pure segnata sul calendario,
controllando bene la data sulla lettera. Chiamasi “sindrome da cargiver”. Una
volta lo chiamavano “esaurimento”.
Quand’ero piccola, un po’ tutte
le donne, prima o poi, si ammalavano di questo generico “esaurimento”. Allora,
vedevi le famiglie che ne parlavano poco e malvolentieri, bisbigliando, un po’
come facevano per i “brutti mali”, quelli dei quali nessuno doveva sapere
nulla.
«Sei stata fortunata che sono
stati autosufficienti fino ad ora», mi apostrofò tre anni fa la solita noiosa
ficcanaso, quella che sa sempre tutto e sa come si devono risolvere i problemi
di tutti, quella che ti fa una domanda e poi non ti lascia rispondere perché
deve subito correggerti.
Certo, come no: parliamone
dell'autosufficienza. Poi ti spiego, mia cara, come sono andati questi ultimi
tredici anni. Nessuna meraviglia, visto che, per una certa commissione, appunto
in quel periodo mia madre risultava in grado di muoversi in autonomia.
Perfettamente autonomi, lei e mio
padre. Ricordo bene la voglia di imbracciare un mitra e di presentarmi con
quello in qualche ambulatorio medico.
Tredici anni di “lavori in
corso”, di “cantieri” perennemente aperti nella mia vita, tra ricoveri in
ospedale di uno o dell’altro, interventi chirurgici, giornate intere (e
nottate) in attesa al pronto soccorso.
Caro il mio fraticello, quando li
avevo tutti e due in casa (mio padre per soli sei mesi, purtroppo), credo di
non aver mai dormito più di due ore a fila. Vivere con due anziani che
mantengono gli orari dei contadini significa andare a letto dopo “Un posto al
sole” (tentando disperatamente di dormire), con la certezza che alle quattro
del mattino cominceranno le grandi
manovre e li sentirai dire che “ormai è giorno”.
Lui spalancava le persiane,
sbattendole bene bene, andava in bagno, si lavava, si vestiva (con calma),
mangiava le merendine che teneva in camera (per la pressione troppo bassa,
diceva) in attesa della colazione poi, verso le sei e quaranta, decideva di
scendere in cucina e spalancare la portafinestra sul balcone. Anche lì una bella
botta, in caso non ci fossimo ancora svegliati!
Lei brontolava a voce alta, gli
diceva che era spettinato, che aveva messo male la cintura, che i pantaloni
erano tutti storti, poi, il più delle volte, provava a dormire ancora. Ma lui
era già a tavola, in cucina, che mi aspettava per la sua quotidiana zuppa di pane
nel latte.
Dopo, cominciavano le consuete,
surreali discussioni:«Io vorrei sapere cos'era questa nonaria, sentivo sempre parlare di nonaria, da bambina…», diceva mia madre.
«Veh, era la tessera per comprare
da mangiare», rispondeva mio padre, «che potevi comprare solo quello che
dicevano loro».
Lo rivedo chinare la testa e
raccogliere i pensieri, un gesto per lui abituale, mentre io tentavo di
spiegare che "annona", come termine, definiva tutte le scorte
alimentari di un Paese.
Mi interruppe: «Lo sai che quando
mio padre trebbiava c'era uno della milizia a controllare quanti sacchi di
grano riempivano? Poi ci lasciava soltanto quello che avevano deciso loro,
mentre il resto lo portavano via... ».
«Grano per la patria», commentai,
«Eh, sì, patria... patria... intanto ce lo portavano via».
Non solo il grano: requisivano
anche la carne, per la patria.
«Ogni paesino doveva portare un
capo di bestiame a Castelnovo, dove la milizia li raccoglieva, rilasciando un tipo
di ricevuta con la quale, poi, potevi riscuotere una specie di risarcimento
danni», si sfogò il mio papà, trattenendo un fiotto di commozione che gli aveva
riempito gli occhi di lacrime, «eh, pensa: a Soraggio scelsero un montone!»
Un montone per una borgata di
quattro, cinque famiglie sembrò sufficiente a mio nonno Carlo e a Ennio Croci,
i due capifamiglia cui tutti gli altri facevano riferimento, però non furono
loro a consegnare la bestiola ai fascisti.
Scelsero due ragazzini: mio padre
e Carlo Croci, il figlio di Ennio.
«Partimmo con il montone,
attraversammo la Battuta e scendemmo verso Fontanabona. La gente che ci vedeva
passare ci chiedeva dove andassimo con quell’animale, si raccomandavano di
stare attenti che non ci scappasse. Noi cercammo di tenerlo sulla strada e di
farlo camminare, trascinandolo quando si fermava a brucare l’erba ai margini.
Era aprile e in terra c’era un po’ di neve caduta nei giorni precedenti. Arrivammo
a Castelnovo e ci dirigemmo nella piazza dove oggi c’è il forno Simonazzi.
Proprio in quell’angolo c’era un tavolo con i caporioni fascisti; alle loro
spalle, c’era un mucchio di neve levata dalla piazza. Ci avvicinammo e
consegnammo il montone, agguantammo la nostra ricevuta e ci ritirammo in un
angolo a mangiare la tera di pane che mia madre mi aveva dato come pranzo. In
quel momento, alcuni ragazzotti si accostarono al cumulo di neve e iniziarono a
fare delle palle che poi scagliavano in giro per la piazza zeppa di gente. Io e
Carlo squadravamo i miliziani che, da ogni parte, cominciavano a stringere la
folla in cerchio, spingendo. Ci guardammo negli occhi e… via! Messo il pane in
tasca, infilammo la “via della scimmia” e corremmo a più non posso in direzione
di Fontanabona. A prendere il misero risarcimento, consegnando la ricevuta, ci
tornarono poi i nostri genitori un lunedì di mercato. E al nostro rientro ci
dissero che sì: eravamo stati svegli e bravi a scappare!»
Rise, mio padre, con gli occhi
lucidi e quel gran magone che tentava di nascondere.
«Adesso non se lo ricorda
nessuno, ma con l’annonaria potevi comprare solo quello che dicevano loro e, in
più, ti portavano via quello che producevi…»
Non avevano trattori. Tutto
lavoro di braccia, con l'aiuto degli animali.
Poi glielo portavano via.
Nessun commento:
Posta un commento