domenica 24 marzo 2019

RICATTARE UN SANTO IN MANCANZA DI NEMBO KID - CANTIERI

Cantieri oggi, annonaria ieri

Lavori in corso, cantieri aperti un po’ ovunque nel bel mezzo dell’estate: fibre per interrare le quali si deve rompere l’asfalto, catrame a ricoprire i solchi di cemento lasciati in bella vista dagli operai delle fibre, fogne che esondano a ogni temporale tropicale (anche se non siamo ai tropici), campi arati che riversano fiumi di fango in mezzo alle case, operai a sturare le fogne e a ripulire l’asfalto dal fango dei campi arati. I mesi di luglio e agosto sono andati via così, con mia madre ogni giorno a osservare, criticare, descrivere i cantieri disseminati lungo il percorso, all’andata e al ritorno dal Centro diurno della Residenza sanitaria assistenziale (lode e benedizione su di essa).
«Oh, ma c’è un peso, ma un peso su quel camion… Non vedi? Come si fa a portare in giro un peso così?» Dice, riferendosi a un enorme escavatore dondolante sull’autoarticolato che ci precede.
«Oh, ma se cade, oh, ma sai che peso?»
«Sì, mamma, se cade ci ammazza, lo so», dico io, toccandomi l’abbondanza apotropaica che ho sul torace, «ma vedrai che l’avranno legato bene…»
Lei si aggrappa con tutte e due le mani alla maniglia in alto - sembra davvero nel panico - poi sbotta:«Eh, se ci ammazza pazienza, così la finiamo tutti di tribolare».
Se prima, a queste sue uscite, rispondevo con impulsività, ottenendo un suo irrigidimento e l’immediata recrudescenza della sua innata testardaggine, oggi lascio correre, anzi: le do ragione.
Inutile sprecare fiato ed energie. Inutile dare la stura all’adrenalina, che poi mi si riversa nel sangue, alza i livelli di cortisolo, aumenta il colesterolo, la pressione e dopo mi obbliga a imbottirmi di pillole. Ormai, ne prendo più io di lei.
Soprattutto (per impedire a tutte le pillole di bucarmi lo stomaco), devo mandar giù subito, al mattino, la pastiglietta protettrice. Gastrite cronica, dice il dottore. Da nervoso, dico io.
Poi, leggo che il cortisolo, sollecitato dagli alti livelli di stress, provocherebbe le demenze. Allora mi immagino tra vent’anni ridotta come lei, per cui, sì, forse sarebbe meglio che quell’escavatore ci piombasse sull’auto.
Però, no, ripensandoci mi seccherebbe, perché l’auto è nuova, ci ho investito parte del mio Tfr e vorrei godermela un po’.
Ho sempre il terrore di sbagliarmi, con le medicine, di confondere le sue con le mie. Pazienza per le gocce di ferro e di vitamina B che prende ogni mattina; pazienza per lo sciroppo lassativo che prende ogni sera, pazienza per la cardioaspirina, che, tanto, la devo assumere anch’io, ma i farmaci per la demenza? Probabilmente, mi ricovererebbero in overdose al Sert con tanto di lavanda gastrica.
«La miseria! Ma che fosso hanno scavato, lì? Ma non vedi quanto è fondo? Attenta! Vuoi finirci dentro?»
Io freno, rallento:«Mamma, non è un fosso, stanno preparando tutto quel terreno per costruirci delle case, stai tranquilla che non finiamo fuori strada, perché non ti fidi? Ho mai fatto incidenti?»
«Case? Delle case vicino al cimitero?»
«Perché? Non vedi che bella posizione? È ai piedi della Pietra di Bismantova.»
«Ah, taci, va’… Va be’ che i morti non disturbano!»
Rallento ancora e quasi mi fermo per lasciar passare un “bobcat”, e lei ricomincia: «Oh, ma guarda che c’è un gran fosso, lì, è pericoloso, ci si può finire dentro!»
«Non è un fosso, mamma…»
Caro il mio santo, mio confidente in eremitaggio sulla mensola, sento che sto soccombendo, che ormai lei mi ha vinta. Pensa che, per la seconda volta, ho sbagliato la data di uno screening per la prevenzione di un tumore. E me l'ero pure segnata sul calendario, controllando bene la data sulla lettera. Chiamasi “sindrome da cargiver”. Una volta lo chiamavano “esaurimento”.
Quand’ero piccola, un po’ tutte le donne, prima o poi, si ammalavano di questo generico “esaurimento”. Allora, vedevi le famiglie che ne parlavano poco e malvolentieri, bisbigliando, un po’ come facevano per i “brutti mali”, quelli dei quali nessuno doveva sapere nulla. 
«Sei stata fortunata che sono stati autosufficienti fino ad ora», mi apostrofò tre anni fa la solita noiosa ficcanaso, quella che sa sempre tutto e sa come si devono risolvere i problemi di tutti, quella che ti fa una domanda e poi non ti lascia rispondere perché deve subito correggerti.
Certo, come no: parliamone dell'autosufficienza. Poi ti spiego, mia cara, come sono andati questi ultimi tredici anni. Nessuna meraviglia, visto che, per una certa commissione, appunto in quel periodo mia madre risultava in grado di muoversi in autonomia.
Perfettamente autonomi, lei e mio padre. Ricordo bene la voglia di imbracciare un mitra e di presentarmi con quello in qualche ambulatorio medico. 
Tredici anni di “lavori in corso”, di “cantieri” perennemente aperti nella mia vita, tra ricoveri in ospedale di uno o dell’altro, interventi chirurgici, giornate intere (e nottate) in attesa al pronto soccorso.
Caro il mio fraticello, quando li avevo tutti e due in casa (mio padre per soli sei mesi, purtroppo), credo di non aver mai dormito più di due ore a fila. Vivere con due anziani che mantengono gli orari dei contadini significa andare a letto dopo “Un posto al sole” (tentando disperatamente di dormire), con la certezza che alle quattro del  mattino cominceranno le grandi manovre e li sentirai dire che “ormai è giorno”.
Lui spalancava le persiane, sbattendole bene bene, andava in bagno, si lavava, si vestiva (con calma), mangiava le merendine che teneva in camera (per la pressione troppo bassa, diceva) in attesa della colazione poi, verso le sei e quaranta, decideva di scendere in cucina e spalancare la portafinestra sul balcone. Anche lì una bella botta, in caso non ci fossimo ancora svegliati!
Lei brontolava a voce alta, gli diceva che era spettinato, che aveva messo male la cintura, che i pantaloni erano tutti storti, poi, il più delle volte, provava a dormire ancora. Ma lui era già a tavola, in cucina, che mi aspettava per la sua quotidiana zuppa di pane nel latte.
Dopo, cominciavano le consuete, surreali discussioni:«Io vorrei sapere cos'era questa nonaria, sentivo sempre parlare di nonaria, da bambina…», diceva mia madre.
«Veh, era la tessera per comprare da mangiare», rispondeva mio padre, «che potevi comprare solo quello che dicevano loro».
Lo rivedo chinare la testa e raccogliere i pensieri, un gesto per lui abituale, mentre io tentavo di spiegare che "annona", come termine, definiva tutte le scorte alimentari di un Paese.
Mi interruppe: «Lo sai che quando mio padre trebbiava c'era uno della milizia a controllare quanti sacchi di grano riempivano? Poi ci lasciava soltanto quello che avevano deciso loro, mentre il resto lo portavano via... ».
«Grano per la patria», commentai, «Eh, sì, patria... patria... intanto ce lo portavano via».
Non solo il grano: requisivano anche la carne, per la patria.
«Ogni paesino doveva portare un capo di bestiame a Castelnovo, dove la milizia li raccoglieva, rilasciando un tipo di ricevuta con la quale, poi, potevi riscuotere una specie di risarcimento danni», si sfogò il mio papà, trattenendo un fiotto di commozione che gli aveva riempito gli occhi di lacrime, «eh, pensa: a Soraggio scelsero un montone!»
Un montone per una borgata di quattro, cinque famiglie sembrò sufficiente a mio nonno Carlo e a Ennio Croci, i due capifamiglia cui tutti gli altri facevano riferimento, però non furono loro a consegnare la bestiola ai fascisti.
Scelsero due ragazzini: mio padre e Carlo Croci, il figlio di Ennio.
«Partimmo con il montone, attraversammo la Battuta e scendemmo verso Fontanabona. La gente che ci vedeva passare ci chiedeva dove andassimo con quell’animale, si raccomandavano di stare attenti che non ci scappasse. Noi cercammo di tenerlo sulla strada e di farlo camminare, trascinandolo quando si fermava a brucare l’erba ai margini. Era aprile e in terra c’era un po’ di neve caduta nei giorni precedenti. Arrivammo a Castelnovo e ci dirigemmo nella piazza dove oggi c’è il forno Simonazzi. Proprio in quell’angolo c’era un tavolo con i caporioni fascisti; alle loro spalle, c’era un mucchio di neve levata dalla piazza. Ci avvicinammo e consegnammo il montone, agguantammo la nostra ricevuta e ci ritirammo in un angolo a mangiare la tera di pane che mia madre mi aveva dato come pranzo. In quel momento, alcuni ragazzotti si accostarono al cumulo di neve e iniziarono a fare delle palle che poi scagliavano in giro per la piazza zeppa di gente. Io e Carlo squadravamo i miliziani che, da ogni parte, cominciavano a stringere la folla in cerchio, spingendo. Ci guardammo negli occhi e… via! Messo il pane in tasca, infilammo la “via della scimmia” e corremmo a più non posso in direzione di Fontanabona. A prendere il misero risarcimento, consegnando la ricevuta, ci tornarono poi i nostri genitori un lunedì di mercato. E al nostro rientro ci dissero che sì: eravamo stati svegli e bravi a scappare!»
Rise, mio padre, con gli occhi lucidi e quel gran magone che tentava di nascondere.
«Adesso non se lo ricorda nessuno, ma con l’annonaria potevi comprare solo quello che dicevano loro e, in più, ti portavano via quello che producevi…»
Non avevano trattori. Tutto lavoro di braccia, con l'aiuto degli animali.
Poi glielo portavano via.

   

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