lunedì 31 dicembre 2018

ESAI DELLE RONDINI - FAVOLA


 ESAI DELLE RONDINI

C’era una volta una mamma che viveva vicino a una sorgente, ai limiti del deserto.
Aveva appena messo al mondo il suo bambino, il piccolo Esai (che significa ‘dono’), e se ne stava, tutta sola, in una povera capanna di paglia e fango, addossata a una palma da datteri, insieme alle pecore, alle caprette, ai colombi, a una mucca, un gallo, due galline e un gatto rosso.
Il marito era dovuto partire prima che il bimbo nascesse: il suo mestiere richiedeva spostamenti e, da mesi, era andato a prestare la sua opera come carpentiere al palazzo del re.
La reggia era molto distante, nella grande città capitale del reame, e l’uomo sarebbe ricomparso solo a lavoro concluso. La moglie aveva una vecchia madre, tuttavia questa viveva lontano, sulle rive del lago dall’altra parte del deserto, insieme alla figlia più giovane e al genero che, di mestiere, faceva il pescatore. Era partito con il pianto nel cuore, il falegname, perché sapeva quanto sarebbe stato difficile per la moglie, finalmente incinta, occuparsi di tutto e in perfetta solitudine.
Soltanto dopo diversi anni e tante preghiere, tante suppliche all’Altissimo perché concedesse loro il dono della vita, Esai era comparso nel grembo della mamma e il sogno si era avverato.
Era nato con lunghi capelli rossi, del tutto identici al pelo del gatto, e grandi occhi blu.
Sorrideva sempre. Guardava la sua mamma e sorrideva. «Ridi, ridi, piccolo mio, mio tesoro. Sei venuto da lassù, e il cielo ti è rimasto negli occhi», lo vezzeggiava lei, mentre lo allattava, legato nella fascia, e, intanto, attingeva l’acqua alla fonte.

La capanna era piccola, con una larga tenda dinanzi che la riparava dal sole. Sotto quella tenda, tre pietre costituivano il focolare su cui poter preparare i cibi. Bathsheva, la mamma di Esai, cuoceva ogni giorno il suo pane sulle pietre, prima di portare le bestie al pascolo e poi ad abbeverarle alla fonte. Con il marito Hadas, aveva potuto costruire la propria abitazione vicino all’acqua in cambio di una promessa agli esattori del re: i due sposi, oltre a occuparsi del pascolo, avrebbero irrigato anche un campo di grano, dopo averlo arato e seminato, per poi portarne tutto il ricavato alla reggia.
Perfino il letame della mucca, ben essiccato, la giovane Bathsheva doveva ammonticchiarlo e poi consegnarlo agli esattori, perché sarebbe stato utilizzato come combustibile per le cucine della reggia. A ogni primavera, nell’umile capanna arrivavano le rondini. Fabbricavano tanti nidi sotto il tetto di paglia e sapevano che nessuno si sarebbe lamentato per la loro presenza, sapevano di essere ospiti gradite. Sapevano che i padroni della casupola non le avrebbero allontanate a causa dei bisognini dei loro piccoli che imbrattavano di bianco le pareti. Bathsheva avrebbe semplicemente ricoperto di fango quegli schizzi e le avrebbe salutate alla loro partenza, non come il re, che dal palazzo le aveva cacciate:«Forza, uccidete quei maledetti uccellacci!», aveva ordinato alle guardie, «Sporcano i miei marmi preziosi! Via!» Così, le guardie avevano distrutto tutti i nidi, e le rondini erano fuggite nel deserto.



«Mia moglie è incinta, maestà», aveva detto Hadas al re, l’anno prima, «come potrà arare e seminare il vostro frumento? E io sono qui, a lavorare per voi: vedete bene che non potrò aiutarla!»
Il re aveva scosso il capo, si era versato una coppa di vino e lo aveva congedato:«Tua moglie dovrà tenere fede alla promessa, oppure io farò abbattere la vostra capanna e vi manderò lontano, molto lontano dalla sorgente. E ora, muoviti, ti aspettano gli altri operai...»
Bathsheva, con la pancia che cresceva come la luna, aveva così arato il campo con l’aiuto dell’unica mucca, poi aveva sparso i semi, li aveva ricoperti con l’erpice e aveva cacciato le gazze che li becchettavano. Il gatto rosso, ogni notte, sulle zolle montava la guardia ai topi, e i suoi occhi brillavano come stelle nell’oscurità, mentre, di giorno, le due galline e il gallo mangiavano le formiche e gli altri insetti che cercavano di rubare i semi.
Dal palazzo del re, tutte le settimane, Hadas legava un pezzetto di legno alla zampa di un colombo e poi gli ordinava di volare fino alla sorgente, fin dalla sua sposa. Insieme, poiché non sapevano scrivere, avevano deciso che, se tutto andava bene, sul legnetto avrebbero inciso un sole, mentre se ci fosse stato un pericolo, avrebbero disegnato una lancia appuntita. Era l’unico modo per rimanere in contatto e c’era da sperare che il colombo non venisse ucciso da qualche cacciatore...

Fu proprio di notte che Esai decise di venire al mondo; per fortuna che, in cielo, la luna era piena come la pancia di Bathsheva e illuminava il deserto, così la ragazza si recò alla sorgente, si sdraiò sull’erba fresca e aspettò, aspettò, aspettò...
Aspettò fino al mattino, fino a che il sole comparve, caldo, nel cielo, e lei udì il pianto del suo bambino, del suo figlioletto tanto desiderato:«Benvenuto, Esai, mio dono. Benvenuto. La tua mamma ti proteggerà sempre. Benvenuto, mia luce, mio pezzo di cielo!» Lo lavò nella fontana, lo avvolse con il suo velo e se lo attaccò al seno. Tutti gli animali facevano così; lei sapeva come si viene al mondo e come si nutre un cucciolo; lo sapeva come lo sanno tutte le mamme del Creato.
Passarono i mesi, e ancora Hadas non aveva visto il suo bambino. Il re non gli concedeva il permesso di tornare a casa, però aveva inviato le guardie a controllare che il grano fosse stato seminato e che fosse germogliato, ben innaffiato da Bathsheva. «Molto bene, il grano sta crescendo», dissero i soldati, «ma tu non aspettavi un bambino? Dov’è, ora?» Bathsheva non alzò il capo e si limitò a sussurrare:«Il bambino è morto appena è venuto al mondo e io l’ho sepolto sotto quel mucchio di pietre, vedete?» I soldati le chiesero un po’ d’acqua per il viaggio, fecero abbeverare i loro cammelli, poi ripartirono. La ragazza corse a raccogliere Esai, che aveva infilato in una piccola grotta vicino alla sorgente, e ringraziò il cielo per quel patto che aveva stretto con il marito:«Nessuno dovrà sapere che questo nostro figlio è venuto al mondo, così non sarà in pericolo».

Ogni volta che Bathsheva si allontanava per controllare il campo di grano, temendo di essere vista da qualche brigante o pastore dispersi nel deserto, nascondeva il bimbo nella grotta, ben foderata di pelli, e vi poneva a guardia il gallo e le galline, che sembravano aver capito il loro compito. Infatti, non lasciavano avvicinare nemmeno il gatto, che gironzolava lì intorno a caccia di lucertole e topolini. Avvenne che una sera, poco prima del calar del sole, una piccola carovana di asini si avvicinò alla capanna. La giovane mamma si spaurì un po’, anche perché non avrebbe fatto in tempo a nascondere il suo piccolo.
Nessuno passava mai da quelle parti, tranne chi si perdeva, perché nessuno sapeva della sorgente; lo sapevano solo le rondini, lei, la vecchia madre, suo marito e il re. Persino le guardie erano tenute a mantenere il segreto, o il re avrebbe ordinato di tagliar loro la testa.
Gli asini parevano stanchi, erano impolverati e assetati. Annusarono l’aria, poi, senza che nessuno potesse fermarli, si diressero verso la fonte, tuffando i musi nell’acqua. Allora, le figure di un uomo e di una donna, con in braccio un bambino, sbucarono dietro le bestie e si stagliarono sul rosso del tramonto. «Buona donna, veniamo in pace», disse lui, inchinandosi appena, «abbiamo bisogno di acqua e cibo e di un riparo per la notte. Puoi aiutarci?»
Bathsheva annuì, fece loro cenno di avvicinarsi, li pregò di accomodarsi accanto al fuoco, dove aveva appena cotto due pani, e da un’anfora versò l’acqua in una tazza, in modo che potessero dissetarsi.

Cenarono così, a pane e acqua, mentre le due mamme, sedute una accanto all’altra, allattavano i due bimbi. Era più grande, quello dei viandanti, ed era bellissimo. Pareva emanare una dolcissima luce.
Raccontarono di essere in viaggio per un paese lontano, ma non spiegarono il perché.
Al mattino, li svegliò il garrire delle rondini: erano arrivate. I viandanti si prepararono a ripartire e fu in quel momento che il loro piccino si voltò verso Esai e lo sfiorò con un dito, sorridendo. Anche Esai sorrise, e poi emise uno strano suono, del tutto simile al garrito di una rondine. Le due donne si abbracciarono e l’uomo si inchinò di nuovo davanti a Bathsheva:«Abbi cura di tuo figlio. Soprattutto, non fidarti delle guardie del re, mai!»
Disse solo quello, poi, la piccola carovana di asini guadagnò le sabbie del deserto. Proprio in quel momento, il colombo inviato da Hadas atterrò sul tetto della capanna e poi balzò giù, sulla spalla della giovane mamma:«Ah, sei arrivato: vediamo cosa mi dice mio marito...» Sciolse dal laccio il pezzo di legno, lo guardò, sbiancò in volto e si sedette accanto al focolare, stringendo il piccolo Esai: non c’era un sole inciso, non c’era nemmeno una lancia. C’erano tante lance e c’erano le fauci di un leone. Bathsheva scoppiò a piangere, stringendo a sé Esai che pareva volerla consolare, allungando le sue manine verso le lacrime che le rigavano il volto. «Che sarà mai successo, piccolo angelo mio? Che dobbiamo fare? Oh, se tuo padre fosse qui con me... Invece, sono sola, mio angelo, sola in mezzo a un deserto...»

Il bambino guardò in alto, verso i nidi delle rondini, e cominciò ad imitarne il verso, tanto che quelle, immediatamente, volarono verso di lui, posandosi sulle spalle e sulle ginocchia di  Bathsheva. No, Esai non le stava semplicemente imitando: parlava proprio con loro! La mamma rimase di stucco a osservare la scena, poi si riebbe, si asciugò le lacrime e cercò un pezzo di legno su cui intagliare la risposta per Hadas, mentre le rondini, piano piano, riguadagnavano i loro nidi e i voli alti nel cielo. «Cosa posso disegnare per farmi capire da mio marito? Per dirgli di raggiungermi? Per dirgli che ho tanta paura?» Stava per cominciare a incidere una rondine sul legnetto, quando lo sbuffare di un cammello le fece alzare lo sguardo: davanti a lei c’era Hadas, il suo amore, il suo sposo, il padre di suo figlio. Corse ad abbracciarlo, e furono baci e lacrime e l’uomo non smetteva più di accarezzare il bambino, di dire quanto fosse bello, quanto fossero profondi i suoi occhi di cielo. «Nascondi nostro figlio, amore mio, nascondilo bene, perché stanno arrivando! Non hai idea di quale orrore io abbia visto... Tutti i figli maschi, tutti i bimbi dell’età di Esai sono stati ammazzati per ordine del re. Io sono riuscito a ottenere un permesso con la scusa di controllare il grano, ma dovrò subito tornare alla reggia. Nascondi bene il bambino, dobbiamo salvarlo!» Hadas rimase a dormire con la sua famiglia, quella notte, poi, al mattino, partì. Prima, però, fabbricò una sorta di interstizio vicino ai nidi delle rondini, largo abbastanza da poterci sistemare il bimbo in caso di pericolo. «Speriamo che non pianga, se arrivassero le guardie...», disse alla sua sposa, poi l’abbracciò stretta e salì sul cammello. Il gatto rosso lo accompagnò, scodinzolando, fino alle prime dune di sabbia.

Passò una settimana appena ed ecco che giunsero i soldati. Bathsheva vide la polvere sollevata dai cavalli e dai cammelli, sciolse la fascia in cui Esai dormiva e, mentre era ancora addormentato, salì su una scala e lo infilò nell’intercapedine del tetto. Vi appese delle cipolle e dell’aglio, spostò la scala e aspettò...
«Donna, dov’è tuo figlio? Davvero è morto come hai raccontato alle guardie?», le chiesero i soldati; la ragazza annuì, poi scoppiò a piangere:«Sì, purtroppo è così... non ho nessun figlio e forse non ne avrò mai». I militari, armati fino ai denti, entrarono nella capanna e rovistarono ovunque, mentre le rondini cominciarono a volare tutt’intorno all’impazzata, gridando come ossesse. Bathsheva riconobbe, in tutto quel garrire, la voce di Esai, che si era certamente svegliato e che stava cinguettando, ma i soldati non lo identificarono in mezzo al chiasso delle rondini.
«Bestiacce!, Andate via!», gridò il comandante, inzaccherato dalle cacche bianche degli uccellini, «Non vi distruggo i nidi soltanto perché proteggete il grano dai parassiti, altrimenti vi ammazzerei tutte!» Dopo aver frugato ovunque, i soldati si diressero alla sorgente, dissetarono gli animali, infilarono le loro lance nei cespugli lì intorno, ma non scoprirono la piccola grotta dove, di solito, la donna nascondeva il bambino. Quando, finalmente, se ne andarono, Bathsheva recuperò Esai dal sottotetto. Il bimbo rideva tutto felice, cinguettando con le rondini, così lei lo allattò e, in seguito, pensò di riporlo nella grotta, per averlo più vicino intanto che attingeva l’acqua e annaffiava il campo di frumento.

Era in mezzo al frumento a strappare le erbacce e a irrigare la terra riarsa, quando sentì il gallo e le galline schiamazzare disperati, come se fossero stati attaccati da uno sciacallo. Si precipitò verso la grotta e incrociò il gatto rosso, con il pelo ritto, che sembrava fosse venuto a cercarla. Corse con il pianto in gola verso la cavità, spostò i rampicanti e i cespugli e vide la pietra, usata per chiuderla, rovesciata nell’erba. Esai era scomparso. No, non era possibile! Un leone, forse? Un avvoltoio? Chi poteva averlo rapito? I soldati no, se n’erano andati. E allora? Le rondini, in alto, roteavano come impazzite, disperate come lei. Anche il gatto pareva avere le lacrime agli occhi e il gallo, insieme alle galline, non finiva di strillare. La mucca le si avvicinò e le posò il muso umido in grembo, lasciando cadere calde lacrime, mentre le pecore e le caprette, nel recinto, continuavano a belare «Amici miei, anche voi amate il mio bambino, lo so... Ecco: ora aiutatemi a ritrovarlo. Ho solo voi. Andiamo a cercarlo, venite con me!»

Bathsheva, con tutta la carovana dei suoi animali, s’inoltrò nel deserto. Le rondini e i colombi, dall’alto, pattugliavano il deserto, scrutando le dune e gli avvallamenti in cerca di segni o impronte, di qualcosa che lasciasse intendere il passaggio di una persona o di un animale. Camminarono e camminarono, la giovane mamma e i suoi animali, finché giunsero in vista di un’oasi.
Era ormai sera e tutti erano stremati, assetati e affamati. «Ci saranno delle palme da dattero, là», disse  Bathsheva, che si era portata una gerla con un otre pieno d’acqua e tanti datteri per lei e per gli animali, ma che ora aveva finito le provviste, «andate a vedere, voi rondini, se non ci sono pericoli, e tornate a riferirmelo». Si appoggiò alla sua mucca, accarezzò il gatto dal pelo rosso e pianse, ormai senza forze. Ed ecco che, là, all’ombra delle palme, le parve di scorgere una figura di donna alzarsi e correre verso il deserto. E le parve di vederla stringere un fagottino, e che quel fagottino garrisse come una rondine. Gli uccellini, infatti, l’avevano circondata e tentavano di fermarla, rispondendo al cinguettio che proveniva dal fardello.
La mamma e i suoi animali corsero e corsero a perdifiato, inciampando nella sabbia, rialzandosi e correndo per raggiungere quella strana persona e bloccarla.«Fermati! Fermati!», urlava la mamma, «Lascia il mio piccolo, lascialo!» Intanto, il gallo e le galline erano arrivate in aiuto delle rondini. Tutti insieme avevano assalito la donna vestita di nero e lei si era accucciata a terra, riversa sul fagottino che non lasciava cadere.

Fu quando la donna vestita di nero alzò il capo che Bathsheva sussultò e quasi svenne. La conosceva, oh se la conosceva! «Madre... madre mia... tu? Com’è possibile? Che ci fai qui e perché hai rapito il mio bambino?»
Sì, la donna vestita di nero era la sua vecchia mamma, che l’abbracciò stretta e le consegnò il fagottino cinguettante. Bathsheva liberò il volto di Esai e lo riempì di baci, ma lui rideva, rideva e cinguettava e tendeva le mani alla vecchia nonna. «Figlia mia adorata», disse lei, mentre il gatto rosso la annusava e la esaminava con prudenza, «gli armigeri del re sono venuti nel nostro villaggio e hanno catturato tutti i bambini, anche quello di tua sorella. Li hanno portati via e non li abbiamo più visti. Temevo che avrebbero fatto la stessa cosa con il tuo, perciò mi sono messa in viaggio per venirti ad avvisare. Quando sono arrivata vicino alla capanna, ho sentito un cinguettio provenire da dietro i cespugli, vicino alla sorgente. Ho spostato una pietra e ho trovato il bambino. Allora, l’ho afferrato e l’ho portato via, perché pensavo che tu fossi stata catturata dalle guardie. Ecco... mi perdoni?»
Certo che Bathsheva la perdonava! Era stato un grande gesto d’amore dettato dalla paura. Poi, che la vecchia madre avesse attraversato il deserto pur di salvare Esai, la riempiva di commozione.
Insieme agli animali, tornarono tutti verso la capanna, di fianco alla sorgente e, quando giunsero là, Bathsheva posò la gerla vuota a terra per accendere il fuoco e accingersi a impastare una pagnotta di pane. Intanto, Esai rideva, tra le braccia della nonna, e non garriva più come le rondini, ma provava a dire «Ma... ma... ma...»

Passarono giorni, passarono settimane e, finalmente, Hadas tornò a casa e fu felicissimo di ritrovare tutta la sua famiglia sana e salva. Allora, la vecchia nonna decise che per lei era giunta l’ora di incamminarsi in direzione del lago e di tornare alla vita di prima, accanto all’altra figlia e al genero.«Non so come farò senza il piccolo Esai, ora che ho addosso il suo odore e l’umido dei suoi baci sulle guance, ma tua sorella piange, è inconsolabile, e ha tanto bisogno di me».
Hadas ordinò alla moglie di riempire la gerla con ogni ben di Dio e di donarla alla nonna, così avrebbe avuto da mangiare e da bere lungo il cammino. Le rondini, poi, l’avrebbero guidata fino al lago. Bathsheva afferrò la gerla e... la trovò pesantissima. La sollevò e ne versò il contenuto a terra: c’erano focacce di pane, pesce essicato, datteri, mandorle, miele, fichi secchi, olive. Ma la cosa ancora più strana fu che, quando provò di nuovo a sollevarla, la trovò ancora una volta piena.
«È un miracolo!», disse Hadas, «La gerla è miracolosa! Cara nonna, voi dovreste usarla per portare dei doni a tutte le famiglie che hanno perduto i loro bambini...»
«Hai ragione, caro genero, e sapete cosa vi dico? I doni li porterò a tutti, ma proprio tutti i bambini, e sarò la nonna di tutti».

È per questo che, prima, molto prima dell’arrivo delle rondini, quando è ancora inverno nel deserto, quando il dì comincia ad allungarsi e la notte ad accorciarsi, è per questo che c’è una vecchia nonna che va di casa in casa con la sua gerla colma di doni. La chiamano “Befana”, ma è la nonna di Esai, “dono”, il bambino delle rondini.
E tutte le nonne sono così: le nonne attraverserebbero i deserti per salvare i nipotini; le nonne, pur di vederli felici, riempirebbero di doni tutti i bambini del mondo.   








3 commenti:

  1. Non hai bisogno di complimenti, Normanna. Ti leggo, ti vedo, ti sento come sei. Sei tu. Grazie!

    RispondiElimina
  2. Grazie a te, anche se non ho capito chi sei. I complimenti, in effetti, mi imbarazzano molto; tutto ciò che hai scritto, invece, fa molto, molto piacere.

    RispondiElimina