Prefazione
di Ameya Gabriella Canovi
“Aspetta
che sparecchio e poi accendo il computer”, mi dice.
Normanna
è prima una donna poi una scrittrice che sa. Sa prima di tutto fare un sacco di
cose, poi conosce anche. Quella conoscenza autentica, di chi va in fondo. E sa
usare la testa e le mani, passando anche dalle parti del cuore. Le usa senza
risparmio le mani, nella vita e nello scrivere.
Sa
ricamare con le parole, ricordare e raccontare.
C’è un
filo in questi racconti, c’è una storia. In “Sulle spalle delle donne” c’erano
occhi bambini che ricordavano. In questa raccolta la narratrice ha uno sguardo
cresciuto, profondo a tratti dolente.
Parla
in modo piccolo, di piccole cose al microscopio che poi si aprono e diventano la Storia , quella seria, che
si fa inevitabile testimonianza sociale e culturale.
L’io
narrante diventa adulto e porta con sé quel mondo intero che via via si fa
macro. Si continuano i racconti della vita in Appennino dagli anni Cinquanta
agli anni Settanta. Di quella società abituata al senza e al poco. Si faceva
senza di tanto. E quello che c’era ognuno se lo costruiva. Con le mani.
E con
l’ingegno semplice.
Se nella
raccolta precedente gli oggetti diventavano personaggi, in questa prosecuzione
quegli occhi che guardavano alle cose diventano riflessivi. E accanto al signor
maiale Berto, ai norcini, al cibo buono e raccolto con le mani, compaiono la
guerra, la migrazione, le balie che per miseria abbandonano i figli neonati per
nutrire figli altrui. Gente nomade per necessità, gente che andava via con nel
cuore i fianchi larghi del manto dei propri monti. E quelli che restavano mandavano
avanti la vita rimanendo.
L’allegria
e la spensieratezza sono ora affiancati da una consapevolezza, anzi da un
sapere. Quel tipo di vita ti struttura, diventa la tua ossatura, te la porti.
Sai arrangiarti e costruirti l’esistenza, e sopravvivere non importa cosa ti
succeda. In sottofondo la fatica, la miseria e la guerra inspiegabile per occhi
che non sono ancora grandi, ma già capiscono senza parole.
E ci
sono i dolori di amori interrotti, le mondine che portavano a casa, oltre al
riso strappato col sangue, anche figli di uomini incuranti e altrove, altrove
nello spazio, assenti a loro stessi. E le lacrime asciutte dei bambini che
restano e delle madri in prestito. E soldati ammazzati e tedeschi e gente
attonita, incredula che tace e sa.
Una
generazione di gente che stava dritta, che andava anche lontano da casa
portandosi dentro quel mondo di mani e saperi piccoli, di sapori rimpianti.
Che
conosco anche io, dai racconti di Merina, mia madre. Emigrata, ma poi
ritornata.
C’era
chi andava di continuo in quella società. Andava in guerra, andava in risaia,
andava a balia, andava per serva, andava in America. Merina aveva scelto l’America del sud, e si
era portata dietro e dentro quei saperi, cercando dove si poteva i sapori di
casa. Le castagne c’erano, nei suoi ricordi, la saracca con la polenta, e anche
il savurett. C’erano la fame, il senza.
A quei
tempi lì sia chi restava sia chi migrava aveva una qualità: sapeva. Affrontava,
superava, aveva una forza dentro che qualcuno ha chiamato resistenza, che ora
si dice resilienza. Che a sentire loro bisognava essere così, non c’era scelta.
Non ci si poteva permettere di soccombere, di crogiolarsi nei problemi. Si andava
avanti, col vento in faccia.
C’era
la nostalgia di casa, c’era il senso del lontano ma di vicino. L’obbligo
scolastico fino a nove anni non ha impedito a chi è andato di crescere, perché
aveva con sé quel sapere piccolo, che li accompagnava sulla nuova via. Chi è
rimasto, chi invece no. Tutti hanno condiviso un patrimonio di esperienze
comuni, qui sapientemente rievocato, minuziosamente.
L’uso
degli aggettivi provoca i cinque sensi del lettore: rumori, colori, odori,
sapori. Mentre si legge di frutti antichi e carbelle acerbe, così abilmente
ricordati, la bocca si allappa davvero.
E come
in un documentario si rivivono anche gi odori delle bucce di mandarino sulla stufa, il rumore dei cerchi
della stufa a legna, le prime automobili, le minigonne degli anni Settanta. Un
racconto globale di un mondo contenuto, descritto fino a quell’attimo appena
prima del tanto che poi sarebbe esploso dal Settanta in poi.
La
narrazione resta nel prima, volutamente. Prima che il troppo storpiasse. Si
ferma in tempo, quando ancora tutti si stava in piedi, con dignità, quando si
stava senza. Si era pieni ugualmente.
Di
soddisfazione che quel senso di sapere dava. Di rispetto per sé e le cose.
Di
viaggiatori coraggiosi, di gente che sta dritta comunque.
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