sabato 20 dicembre 2014

PRESENTAZIONE DEL LIBRO "IL SAPERE PICCOLO" - FOYER DEL TEATRO BISMANTOVA

Prefazione

di Ameya Gabriella Canovi


“Aspetta che sparecchio e poi accendo il computer”, mi dice.
Normanna è prima una donna poi una scrittrice che sa. Sa prima di tutto fare un sacco di cose, poi conosce anche. Quella conoscenza autentica, di chi va in fondo. E sa usare la testa e le mani, passando anche dalle parti del cuore. Le usa senza risparmio le mani, nella vita e nello scrivere.
Sa ricamare con le parole, ricordare e raccontare.
C’è un filo in questi racconti, c’è una storia. In “Sulle spalle delle donne” c’erano occhi bambini che ricordavano. In questa raccolta la narratrice ha uno sguardo cresciuto, profondo a tratti dolente.
Parla in modo piccolo, di piccole cose al microscopio che poi si aprono e diventano la Storia, quella seria, che si fa inevitabile testimonianza sociale e culturale.
L’io narrante diventa adulto e porta con sé quel mondo intero che via via si fa macro. Si continuano i racconti della vita in Appennino dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Di quella società abituata al senza e al poco. Si faceva senza di tanto. E quello che c’era ognuno se lo costruiva. Con le mani.
E con l’ingegno semplice.
Se nella raccolta precedente gli oggetti diventavano personaggi, in questa prosecuzione quegli occhi che guardavano alle cose diventano riflessivi. E accanto al signor maiale Berto, ai norcini, al cibo buono e raccolto con le mani, compaiono la guerra, la migrazione, le balie che per miseria abbandonano i figli neonati per nutrire figli altrui. Gente nomade per necessità, gente che andava via con nel cuore i fianchi larghi del manto dei propri monti. E quelli che restavano mandavano avanti la vita rimanendo.
L’allegria e la spensieratezza sono ora affiancati da una consapevolezza, anzi da un sapere. Quel tipo di vita ti struttura, diventa la tua ossatura, te la porti. Sai arrangiarti e costruirti l’esistenza, e sopravvivere non importa cosa ti succeda. In sottofondo la fatica, la miseria e la guerra inspiegabile per occhi che non sono ancora grandi, ma già capiscono senza parole.
E ci sono i dolori di amori interrotti, le mondine che portavano a casa, oltre al riso strappato col sangue, anche figli di uomini incuranti e altrove, altrove nello spazio, assenti a loro stessi. E le lacrime asciutte dei bambini che restano e delle madri in prestito. E soldati ammazzati e tedeschi e gente attonita, incredula che tace e sa.
Una generazione di gente che stava dritta, che andava anche lontano da casa portandosi dentro quel mondo di mani e saperi piccoli, di sapori rimpianti.
Che conosco anche io, dai racconti di Merina, mia madre. Emigrata, ma poi ritornata.
C’era chi andava di continuo in quella società. Andava in guerra, andava in risaia, andava a balia, andava per serva, andava in America.  Merina aveva scelto l’America del sud, e si era portata dietro e dentro quei saperi, cercando dove si poteva i sapori di casa. Le castagne c’erano, nei suoi ricordi, la saracca con la polenta, e anche il savurett. C’erano la fame, il senza.
A quei tempi lì sia chi restava sia chi migrava aveva una qualità: sapeva. Affrontava, superava, aveva una forza dentro che qualcuno ha chiamato resistenza, che ora si dice resilienza. Che a sentire loro bisognava essere così, non c’era scelta. Non ci si poteva permettere di soccombere, di crogiolarsi nei problemi. Si andava avanti, col vento in faccia.
C’era la nostalgia di casa, c’era il senso del lontano ma di vicino. L’obbligo scolastico fino a nove anni non ha impedito a chi è andato di crescere, perché aveva con sé quel sapere piccolo, che li accompagnava sulla nuova via. Chi è rimasto, chi invece no. Tutti hanno condiviso un patrimonio di esperienze comuni, qui sapientemente rievocato, minuziosamente.
L’uso degli aggettivi provoca i cinque sensi del lettore: rumori, colori, odori, sapori. Mentre si legge di frutti antichi e carbelle acerbe, così abilmente ricordati, la bocca si allappa davvero.
E come in un documentario si rivivono anche gi odori delle bucce di  mandarino sulla stufa, il rumore dei cerchi della stufa a legna, le prime automobili, le minigonne degli anni Settanta. Un racconto globale di un mondo contenuto, descritto fino a quell’attimo appena prima del tanto che poi sarebbe esploso dal Settanta in poi.
La narrazione resta nel prima, volutamente. Prima che il troppo storpiasse. Si ferma in tempo, quando ancora tutti si stava in piedi, con dignità, quando si stava senza. Si era pieni ugualmente.
Di soddisfazione che quel senso di sapere dava. Di rispetto per sé e le cose.
Di viaggiatori coraggiosi, di gente che sta dritta comunque.
  






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