domenica 23 novembre 2014

SCOPRI L'ARTE E METTILA DA PARTE - RACCONTO GIALLO FINALISTA AL CONCORSO "GARFAGNANA IN GIALLO 2014"



Arrancare verso il Passo di Pradarena respirando il gas di scarico d’un indolente e scoppiettante camioncino
“Trasporto animali vivi” non è esattamente come correre in Formula Uno, ma mi tocca. Volevano un asino? I bambini volevano un somarello vero da accarezzare? Se una si mette in testa di costruire un agriturismo con attività di fattoria didattica, certo che poi deve procurarsi questo benedetto somaro.
Due viaggi fin nel reggiano, sulle colline matildiche, lì a due passi da quattro colli che paiono quattro mammelle d’una cinghiala gigante, sovrastati da due castelli, o forse tre, o forse quattro. Non avevo avuto il tempo di controllare, ma so che sono castelli della Gran Contessa.
Sì, proprio lei: Matilde di Toscana. Donna tosca e tosta come me.
Lì, e solo lì, a Salvarano di Quattro Castella, si trovano tutti gli asini e le asinerie che si desiderano; voglio dire: trovate pure il latte d’asina, che è uguale al latte materno, e poi salumi d’asino, formaggi d’asino e creme di bellezza al burro asinino.
Così li ho poi acquistati, gli asini: ne ho presi due; si faranno compagnia; non potevo rischiare che uno solo, in isolamento, s’ammalasse di depressione. Che dopo avrei dovuto comprargli un animale da compagnia, magari un’oca starnazzante e scagazzante.
Via, dai, camioncino, muoviti! A furia di pigiare il freno, m’è venuto un crampo al piede, ma ormai ci siamo; Borsigliana non è lontana. Il camioncino davanti a me, infatti, rallenta e mette la freccia a sinistra. Mi aspetto che s’avvii per la salita con tutta la spinta possibile, e lo incoraggio pure, apostrofandolo tra me e me con termini irripetibili - e anche un po’sconci - invece no: si ferma.
Non vorrà mica scaricarmi gli asini lì? Accosto e scendo.
Per la miseria! C’è la macchina del prete in mezzo alla strada con una portiera aperta e qualcuno riverso fuori. Sì, sì, è proprio quella del nostro prete.
La riconosco per un adesivo, lo stemma di un coro di alpini, appiccicato dietro. Il nostro prete ha una vera passione per i cori, i balli e la musica molto molto popolare. Diciamo che gli piacciono il ritmo e il rumore, più che altro.
Scendo; è sceso anche l’autista del camioncino, mentre i somari, dentro, fanno i somari: scalciano e ragliano a più non posso. “Oh, ma questo chi è?”, fa l’autista – reggiano purosangue - un pochino impensierito e con una faccia leggermente schifata, “Non mi sembra mica tanto italiano questo qui, sa? Sarà meglio non toccare niente e chiamare la polizia e l’ambulanza, che dice lei?”
Rimango lì come una statua di gesso del presepe serbato nella sagrestia di Borsigliana, tra un organo malridotto e polverosi candelabri, guardo il tipo penzolante dal sedile, esamino l’interno dell’auto, dove alcune bottiglie di vino da messa sono ruzzolate sui tappetini, provo a mettere in fila le cose da fare, prendo il cellulare, penso a chi chiamare, penso a cosa sarà successo, ripenso a chi chiamare, rimetto in fila le cose da fare, noto che una delle bottiglie era aperta e ha disseminato il suo contenuto in giro, respiro odore di vino, poi mi monta dentro una paura tale che non riesco nemmeno a digitare il 113 o il 118.
Gli asini continuano a ragliare a più non posso, irritando i cani dei dintorni - i quali replicano abbaiando come indemoniati - e le galline di un pollaio vicino, mentre l’autista picchia con il pugno contro il camioncino: “E basta, bestiacce! Basta o vengo dentro e dopo vedrete che state zitti!”
È un omino piccolo e grassottello, l’autista, con due baffetti hitleriani, enormi orecchie a sventola e pochi capelli neri incollati dal sudore e dall’unto a una capoccia perfettamente sferica.
Pare un omino di neve, anche per il lungo naso carico di brufoli, rosso come una carota; mi scruta e sbotta: “Ma chi è quest’africano?”
Mi riprendo, osservo l’uomo ferito (o morto?), ma le mie mani insistono a tremare, tanto che fatico - maledetta tastierina da gnomi! - a digitare i numeri sullo smartphone. Però lo identifico senza dubbio alcuno: “È padre Prince Lugard Mensah, il nuovo parroco di Borsigliana. È di origini ghanesi. Il vescovo l’ha mandato qui neanche un anno fa.”
L’omino di neve, autista reggiano di “Trasporto animali vivi”, scuote il capo: “Pensavo che i ghanesi fossero finiti tutti a Reggio, in via Turri, insieme a cinesi e nigeriani. Un prete poi…mah… ac lavuùr con tutta ‘sta gente che viene da fuori, povera Italia a gambe all’aria!”
Finalmente riesco a chiamare sia l’ambulanza sia la polizia. Poi stiamo lì in attesa, mentre gli asini tirano calci dentro al camioncino e pare che si metta pure a piovere.
Però, per la miseria, sarà mica morto, il nostro padre Prince?
Non ho il coraggio di verificare; i morti mi hanno sempre fatto impressione. Anche nelle camere mortuarie mi fa schifo entrare. Tutto quel grigio freddo contornato da fiori puzzolenti mi attorciglia lo stomaco. La morte è proprio brutta. Aspettiamo.
Un tipo così allegro, padre Prince Lugard Mensah, allegro e vivace, giovane, con un fisico da calciatore, aveva portato una ventata di novità e giocondità nell’anziana e striminzita popolazione di queste parrocchie garfagnine. Le vecchiette lo adoravano. Da quando era arrivato lui, pareva che ci fosse la gara a partecipare a più messe e rosari e vespri possibile.
Pareva che le vecchiette si litigassero i primi posti nei banchi in chiesa. Pareva che… bene come lui: la messa, la predica, i rosari, la visita ai malati in ospedale, l’accoglienza ai bisognosi, nessuno mai.
Che fosse “colorato”, padre Prince Lugard Mensah, dopo il primo ruvido impatto, una volta capito che amava il vino, il pecorino e le vecchissime canzoni di chiesa (quelle tipo “Immacolata/vergine bella/ di nostra vita/ tu sei la stella…”), non interessava a nessuno. Era come fosse nato e vissuto da sempre in Garfagnana; uguale uguale.
In conclusione, a messa lì a Borsigliana e nelle altre sue chiese, ci s’andava più volentieri, e c’era chi veniva apposta per lui fin da Piazza al Serchio, o addirittura da Castelnuovo. Anche donne giovani, c’erano, che mai s’erano viste prima così giovani e così pimpanti.


In ogni modo, c’era la moglie del sagrestano Palmiro, la buona Leonilde, che teneva a bada quelle devotissime buone donne, frapponendosi, alla bisogna - proprio fisicamente - tra il religioso e i teneri corpi femminili, così da evitare a lui imbarazzanti abbracci o strette di mano troppo ardenti e arrischiate.
Per una diversamente devota come me, che in chiesa, quando ci va, cerca sempre di mettersi vicino alle porte per avere una pronta via di fuga a portata di diserzione, il problema non si poneva: padre Prince Lugard mi aveva forse vista sì e no tre volte da quand’era arrivato.
Però era venuto a mangiare spesso all’agriturismo, con alcuni parrocchiani, con altri parroci, con il sagrestano e la moglie di lui, Leonilde.
Bella coppia, Palmiro e Leonilde. Lui magro da far paura, con quella faccia garfagnina ossuta in cui sono scolpiti e sedimentati secoli di fame e di privazioni, rubizzo per i quotidiani bicchieri di troppo, la giacca appesa alle spalle magre come su una gruccia; lei molto più giovane, grassa grassa, sempre ammantata di lunghe palandrane idonee a nasconderne la pinguedine.
Che poi, quando s’erano sposati, lei era proprio carina: magra, morettina e riccioluta, e lui mica beveva. Chissà cosa non aveva funzionato in quel matrimonio. Non avevano figli. Chissà.
Si vociferava d’un’inadeguata virilità del sagrestano, ma si sa che nei paesi si fa presto a immaginare, inventare e diffamare.
Di sicuro, c’era che Leonilde s’era ammalata di depressione – esaurimento nervoso, dicevano - e poi era ingrassata e invecchiata all’improvviso. Ma ecco l’ambulanza, e pure la polizia.
Speriamo bene. E che mi lascino portare i miei asini all’agriturismo prima che cominci il diluvio, perché sta tuonando come se fosse in atto un furibondo lancio di bombe.


“Quindi, padre Prince Lugard Mensah veniva spesso da lei, signora… signora?”, il comandante della polizia cerca un foglietto nel taschino e suda copiosamente, seduto a un tavolino del mio locale “ah, ecco: signora Bacci, dicevo: veniva a mangiare da lei, vero?”
Ci mancava pure questa, dopo la sfacchinata a scaricare gli asini e sistemarli nel loro nuovo ricovero: un piedipiatti che mi interroga perché, poi, il nostro parroco era davvero morto, ma non aveva segni di sorta, né ferite, né tracce di risse, niente.
In più, mi era toccato albergare anche l’autista omino di neve dai baffi hitleriani con il naso da carota alcolista: “Mah, affermare che era qui spesso non mi sembra corretto; è venuto diverse volte, solo diverse volte, perché me lo chiede?”
“Questo agriturismo è suo, signora… signora… Artemisia, vero? Com’è che porta questo nome? Lo sa che è un’erba, vero?”
Oh, bella anche questa. Certo che lo so. Adesso devo pure spiegare il perché del mio nome all’agente di polizia.
Che gli dico? Che mia madre è una pittrice e che è grazie a lei se da Pontremoli sono finita qui a Borsigliana, dopo che l’avevo seguita nella ricerca delle opere del pittore Pietro da Talada?
No, non glielo dico. “Sì, l’agriturismo è mio e mi hanno chiamato come l’erba, sì. Però mi hanno chiamata anche come Artemisia dei Gentileschi.”
Lui mi esamina sconcertato, con lo sguardo vuoto; non capisce, e io decido che è inutile infierire. “Com’è morto padre Prince?”, chiedo.
Lui mette via il foglietto, si sistema la cintura, sussurra qualcosa all’orecchio dell’altro poliziotto, poi mi fissa dritto negli occhi: “Devono fare l’autopsia ma, a un primo esame, pare che si tratti di cibo: intossicazione alimentare o avvelenamento. Capisce, signora Artemisia? Certo che lei ha un nome un po’ pericoloso, se collegato ad un ipotetico assassinio… sa: le erbe possono essere nocive…”, e ride, “ma no, scherzo: mia nonna con quell’erba, quella del suo nome, ci faceva le frittate. Non si preoccupi: stiamo solo raccogliendo dei dati e ora, se permette, vorrei interrogare l’autista del veicolo che ha trasportato i suoi somari.”
Con il suo compare, il comandante si avvia verso le camere di sopra, dove l’omino di neve reggiano sta riposando. Poveretto, l’autista. Alla fine era pure piovuto e subito gli era scoppiato un bel raffreddore.
Adesso che non c’è più nessuno, provo a risistemare la sala, dato che ho un gruppo di persone a cena, ma questa cosa del prete morto per intossicazione alimentare proprio non mi garba.
D’improvviso capisco perché. E cominciano a tremarmi di nuovo le mani.
Gli zucchini sott’olio, madonna santa! L’ultima volta che il prete era stato qui gli avevo regalato un vaso dei miei zucchini sott’olio! Vuoi vedere che erano contaminati da qualche germe malefico?
Accidenti a me e alla passione per l’orto. E alla passione per il concime organico, che avevo usato il guano dei piccioni come fertilizzante per gli zucchini e forse non era il caso: chissà quanti bacilli!
No, calma, non è possibile; calma, Artemisia, suvvia. È ancora tutto da verificare.
Padre Prince potrebbe essere morto d’infarto, o per un aneurisma. Lascia stare gli zucchini e la cacca dei piccioni, Artemisia.
Non faccio in tempo a quietarmi, che entra Palmiro urlando: “Dov’è, dov’è il comandante della polizia? Artemisia, dimmi: dov’è?”
“Calmati, Palmiro, aspetta, che succede?” Lo blocco e lo faccio sedere. Ha corso chiaramente fino a lì, perché è senza fiato. Alza gli occhi e le mani al cielo: “Una cosa terribile, un disastro: hanno rubato la madonnina, capisci? La madonnina di Pietro!”
Mi siedo anch’io. Se è il trittico di Borsigliana, quello che hanno trafugato, il meraviglioso trittico quattrocentesco del pittore Pietro da Talada, allora siamo in un bel casino davvero.
E il prete non è morto a causa dei miei zucchini. Di sicuro.


Palmiro non ha idea di quando il trittico sia scomparso; non sa ipotizzare un’ora precisa, perché quel giorno, quello della morte del prete, la chiesa non era stata aperta per niente, visto il trambusto. Sa solo che era là, ben fissato alla parete dietro l’altare, tutto splendente della luce filtrata dal rosone e riflessa dall’oro, fino al giorno prima del delitto.
Ora sono passati due giorni; la polizia sta investigando pure su quel furto, cercando eventuali connessioni con la morte di padre Prince.

L’autista del camioncino è – se Dio vuole - ripartito per Reggio Emilia, dopo aver risposto alle domande dei poliziotti e aver bevuto, a sbafo, vin brulè in abbondanza, latte e cognac e miele (per sconfiggere il raffreddore, ma secondo me gli piacevano proprio, e poi ci mangiava insieme pane e salame!) e i miei somarelli stanno già amoreggiando con le prime classi dei bimbi che vengono a fare esperienza in fattoria didattica.
Io approfitto di quell’attimo di calma e scendo a Castelnuovo per una seduta in un centro estetico, da “FisiolineSamantha”, che ne ho proprio bisogno, altrimenti per la depilazione, tra un po’, mi servirà il decespugliatore, per non parlare del mio colorito giallo patata: urge una lampada solare o mi prenderanno per una malata di epatite.
Il centro è nuovo, aperto da circa sei mesi; ci lavorano anche ragazze straniere, romene e ucraine. Una, sinceramente, mi pare proprio di averla già vista nel mio agriturismo, forse a una cena in compagnia di altra gente. Anche Samantha è venuta diverse volte a mangiare da me, tuttavia lei è italiana; sua caratteristica: parla l’italiano peggio delle ucraine, avendo conservato (con grande cura) accento e dialetto casertani.
Comunque, mi hanno restaurata proprio bene: via i baffetti e via il giallo patata bollita, ora sembro appena tornata dal mare. Brava Artemisia, così mi piaci.
Oggi ho una quinta elementare e, insieme, facciamo il pane.
Certo che le maestre di adesso sono proprio imbranate: a furia di robot da cucina ed elettrodomestici vari, non hanno idea di come si impasti a mano. Forse non usano più nemmeno il pongo, a scuola.
La fattoria didattica credo serva più a loro che ai bimbi; le vedo osservarmi a bocca aperta mentre, dopo aver impastato nella madia tutti gli ingredienti, passo la massa morbida e liscia sul ripiano della gramola e invito i bambini, a turno, a sollevare e spingere la leva.
“Artemisia, ci sei?” La voce è quella cremosa e delicata di Leonilde, la moglie del sagrestano.
Chissà che vuole. Purché non mi chieda di prestarle il valium di mia madre, che non ne ho; la mia genitrice se n’è tornata già da un mese a Pontremoli: i suoi studenti dei corsi (privati!) di pittura la reclamavano a gran voce e non si viveva per le continue telefonate.
Con uno, di vent’anni più giovane, credo che abbia pure intrecciato una relazione. Non l’ho mai incontrato, ma lei dice che è bellissimo; un giovane virgulto della nuova classe imprenditoriale russa: la sua famiglia ha comprato (e ristrutturato) una splendida villa in Lunigiana.
Buona cosa in toy boy, in questo modo la mamma non si intossica di valium.
“Vieni, vieni, Leonilde, stiamo facendo il pane, così ci aiuti.”
Mi aiuta, infatti, Leonilde, a scaldare il forno; con la sua calma paciosa, spiega come infornare il pane e, a quei giovani demonietti, racconta pure di quando era piccola e la mamma la faceva lavorare dall’alba al tramonto, poveretta, e lei ubbidiva sempre, non come loro che fanno tutti quei capricci.
Quando i bambini, maestre annesse, lasciano l’agriturismo, mi siedo con Leonilde e le offro un caffè: “Che vuoi? Che succede? Hai bisogno di raccontarmi qualcosa?”
Lei scoppia a piangere; è un diluvio, un’esondazione e mi tocca tamponare lacrime e altro che le cola dal naso con tutti i tovaglioli del portatovaglioli lì sul tavolo.
“Non ci credo che sia morto…”, e giù tanti bei singhiozzi che sfociano in gemiti incontenibili, quasi ragli, come quelli dei miei asinelli reggiani.
“Dici padre Prince? Ma gli eri così affezionata? Cioè: gli eri solo affezionata o… o c’era altro?”
Singulti e singhiozzi: “Non ci credo… oh mio Dio, come farò? Come farò, ora?”
Le spazzo il naso: “Leonilde, calmati, dai. Insomma, vuoi spiegarmi cosa succede o cos’è successo? Cos’è che volevi dirmi? C’è qualche segreto di cui ti vuoi liberare? Lo sai che di me ti puoi fidare, no?”
Lei quasi grida: “Io so chi lo ha ucciso, lo so!” Mi fissa dritta negli occhi, Leonilde, con il mascara completamente colato sulle guance (perché da quando era arrivato il prete africano si truccava e si faceva la piega con i bigodini), e annuisce risolutamente.
“Di cosa stai parlando? Non sono ancora arrivati i risultati dell’autopsia, come puoi sapere se lo hanno ammazzato? Sai che ipotizzano un’intossicazione alimentare, vero?”
L’infelice scuote il capo, si soffia rumorosamente il naso, si avvicina a me, mi abbraccia stretta stretta, mettendo a dura prova le mie costole, poi se ne va senza dire nulla, salutandomi con la mano.
Ma cavolo, cosa ci sarà sotto? Ora sono davvero curiosa. Cosa sarà successo tra quei due, il prete ghanese e la moglie del sagrestano?


Ho chiamato Camillo e Serafina, i miei asinelli; sono maschio e femmina, sì, e lui non è castrato, per cui prevedo, presto, di veder ingrandita la famiglia asinina. Sono tranquilli, dolci; si lasciano toccare e accarezzare dai bambini senza rischio alcuno.
Il comandante della polizia locale è tornato ieri a trovarmi; ormai sono dieci giorni che padre Prince è stato ammazzato e ancora non si sa quando lo seppelliranno.
Sono pure dieci giorni che è sparito, volatilizzato, il grande, meraviglioso trittico della Madonna di Borsigliana. Ma come si fa a rubare (e pensare di piazzare sul mercato) una simile opera? Chi può permettersi di commissionare un simile furto?
Nessun indizio, per ora, niente di niente. Svanito nel nulla. E le vecchiette a recitare rosari, ogni sera, davanti a quell’altare non più illuminato dall’oro dell’enorme pala quattrocentesca.
Ma sembra preghino, disperate, più per l’anima di padre Prince che per la Madonna scomparsa. Perché cominciano a girare strane voci su di lui, diciamo a girare più di prima, quando già la presenza di belle ragazze forestiere alle sue funzioni aveva molto allarmato e angosciato le anziane, fedelissime fans.
Il comandante mi ha detto, ieri, che hanno interrogato la buona Leonilde e, da me, voleva  più informazioni su di lei.
“Lei sa, signora Bacci… Artemisia, vero? Lei sa che hanno visto la signora Leonilde aggirarsi dopo mezzanotte nei pressi della canonica più e più volte ?”, mi ha chiesto un poco imbarazzato.
Pensavo che la polizia non tenesse conto dei pettegolezzi. Mi ha preso alla sprovvista, il comandante. A quanto pare, dunque, non erano solo pettegolezzi; a quanto pare c’erano delle prove: qualcuno l’aveva vista davvero.
“Di notte intorno alla canonica? Leonilde? Ah, guardi, fatico a crederci. Leonilde ha paura del buio, non uscirebbe mai da sola di notte. E poi, scusi, com’è morto il prete? Lo hanno ucciso o sono state cause naturali?”
“Una strana intossicazione alimentare, molto strana… diciamo molto poco naturale. Ora i Ris di Parma stanno analizzando tutti i cibi trovati in canonica; c’erano, per esempio, dei vasetti di verdure sott’olio, alcuni aperti e, in parte consumati.”
Brividi di freddo per la schiena. I miei zucchini, proprio i miei zucchini, accidenti. Eppure, li avevo mangiati pure io, e non avevo avuto manco un mal di pancia.
“Perché dice che l’intossicazione è poco naturale? Lo hanno avvelenato, secondo lei?”
“Guardi, signora Artemisia, io non ne capisco molto di queste cose, non sono un esperto, ma pare che… mah… insomma, non è un’intossicazione proprio proprio naturale, come quella da funghi velenosi, insomma, o da erbe tossiche, insomma… certo che lei ha un gran bel nome, ma perché poi gliel’hanno messo? Gliel’ho già chiesto?”
“Sì, me l’ha già chiesto; ha presente la grande pittrice Artemisia dei Gentileschi? Porto il suo nome perché mia madre avrebbe voluto che diventassi una donna geniale e coraggiosa come lei.”
“Una grande pittrice? Del Quattrocento come Pietro da Talada?”
“No, un po’ più rinascimentale, veramente, ma grande sì, e coraggiosa. Sa: fu la prima donna a denunciare e far condannare per stupro il suo violentatore.”
“Ah, interessante, interessante. Mi documenterò. Denuncia per stupro nel Rinascimento. Coraggiosa, sì. Bel nome, Artemisia, sì.”
Se n’era andato rimuginando sullo stupro di Artemisia dei Gentileschi e, per ora, non si era rivisto. Meglio così. Oggi ho un’altra classe, questa volta delle medie, che vuol dire un bel casino (benedetta adolescenza e benedetti genitori che non sanno più contenere i figli adolescenti perché sono rimasti essi stessi adolescenti).
Camillo e Serafina hanno pensato bene di farsi sfacciatamente la corte proprio ora, con tutta lo stuolo dei ragazzini lì intorno. Non avevo messo in conto quest’evenienza: che Serafina andasse in calore proprio durante una visita guidata di una scuola e che Camillo, di conseguenza, sfoderasse, letteralmente, tutto il suo imbarazzante, gigantesco equipaggiamento erotico.
E ora come faccio a tacitare le risate e i commenti grevi dei ragazzi che si trovano davanti a una scena alla youporn dal vivo? E le professoresse, sconcertate, che non sanno che pesci pigliare?
Hai voglia te a tentare di distrarli: si sono incollati al recinto e osservano, divertiti, Camillo che prova, maldestramente, a portare a termine i propri doveri coniugali.
È un grido lacerante quello che interrompe lo spettacolo hard asinino a cui stavamo assistendo, il grido di un uomo, e io riconosco la voce di Palmiro: “Leonilde! Mio Dio, aiutatemi! È morta!”


Il comandante della polizia è di nuovo nel mio agriturismo; gli ho offerto un mirtillino e se lo sta rigirando tra le mani: “Lei conosceva bene l’autista del camion che ha trasporato qui i somarelli, signora Bacci?”
“Be’, veramente no; me lo aveva consigliato il titolare dell’allevamento, il signor Borghi, di Salvarano. È accaduto qualcosa che lo riguarda? A me era sembrato una brava persona, un po’ razzista, forse…”
Il comandante fa segno all’altro poliziotto di prendere appunti e finisce di bere il mirtillino: “Buono, lo ha prodotto lei, signora Artemisia? Dovrebbe fare un liquore anche con la pianta che porta il suo nome, sa: è un buon digestivo.” Ride, poi continua: “Pare che il suo autista, insomma: quel tipo, che poi si chiama Venerio Montecchi, avesse parcheggiato il camion proprio sotto la chiesa e che, la notte della morte del prete, qualcuno lo abbia visto uscire dalla porta della canonica in compagnia di altre persone. Lei ne sa niente?”
Cado dalle nuvole: per me, l’omino di neve dal naso bitorzoluto era stato in camera tutta la notte; non mi ero proprio accorta che fosse uscito. Lo dico al comandante, che annuisce, poi mi chiede: “Leonilde le aveva confessato, per caso, di sapere qualcosa sull’omicidio del parroco?”
Oh porca paletta! È vero: Leonilde era venuta da me a piangere e, alla fine, mi aveva detto di sapere chi era l’assassino.
E io non le avevo dato retta. E adesso?
Racconto tutto, mentre l’altro agente scrive e il comandante continua ad annuire per poi chiedermi, bruscamente: “Lei era sul luogo del delitto del prete, praticamente il cadavere era ancora caldo, quando l’avete trovato. Ha notato qualcosa di particolare in giro? Qualcosa che l’ha colpita? Qualcosa di inusuale? Ci pensi.”
Ci penso. Il vino, l’odore di vino. Le bottiglie del vino da messa. Una era aperta, o forse si era rotta cadendo: “Ho notato tre bottiglie di vino da messa; non è che il prete era ubriaco ed è morto per coma alcolico?”, faccio io, tendando di scherzare per allentare la tensione.
Il comandante si fa serio, controlla che l’altro agente scriva e mi scruta fisso fisso: “Il vino… già… E, scusi, signora Bacci, lei conosce bene il personale dello studio estetico di Castelnuovo Garfagnana, il FisiolineSamantha? Sappiamo che lo frequenta regolarmente.”
Non capisco dove il comandante voglia andare a parare, ma gli rispondo che, sì, conosco la titolare e le altre estetiste, anche se in modo del tutto superficiale. “Bene bene”, fa lui, “ma torniamo al signor Venerio Montecchi, che comunque abbiamo convocato per sentire cosa può raccontarci di bello su quella notte, si ricorda se il suo camioncino era targato RE? Sa: dobbiamo ancora verificare, ma pare che il veicolo scorto vicino alla chiesa avesse la targa di Reggio Emilia.”
Ah no! No davvero: il camioncino dell’omino di neve era targato MO, me lo ricordo benissimo, perché l’avevo avuto davanti per tutto il percorso da Salvarano fino a Borsigliana: “Modena, era targato Modena, sono sicurissima”, dico al comandante, “e credo che lui l’avesse parcheggiato più in basso, prima della chiesa, proprio vicino ai bidoni dell’immondizia, ha presente? Gli avevo detto io di metterlo lì, fuori dai piedi, dato che la strada è molto stretta.”
Continua ad annuire, il comandante, e beve il secondo mirtillino; tiro fuori pure una bottiglia color carminio (di corniolino, sempre fatto da me) e gliela metto davanti, insieme a qualche fetta di crostata.
In quel momento, entra nel locale Palmiro, il sagrestano vedovo, soffiandosi rumorosamente il naso e spazzandosi gli occhi. Si capisce che sta piangendo. Infila il fazzoletto nella tasca dei larghi pantaloni, lasciandolo penzolare fuori per metà, e si avvicina a noi.
“La mia Leonilde… quando potremo seppellirla? Comandante, almeno seppellirla… così posso andare a pregare sulla sua tomba.”
Piange, singhiozza, e di nuovo ha quel fazzoletto di un colore indefinito (tra il marroncino e il grigio topo, con macchie giallognole, rinsecchito al centro), tra le mani magre e nodose.
Il comandante lo rassicura, cerca di consolarlo, gli batte con una mano sulla spalla, poi ci saluta e si avvia verso l’uscita con l’altro agente: “Vi farò sapere molto presto,” dice sulla porta, “le indagini sono a buon punto. Stia tranquillo, signor Palmiro, vedrà che potrà presto dare degna sepoltura a sua moglie e vedere sbattuto in galera il suo assassino.”
Offro a Palmiro un po’ di crostata e gli faccio un caffè: “Sai qualcosa delle cause della morte? Insomma: ti hanno detto di cosa è morta Leonilde? Sono arrivati i risultati dell’autopsia? E poi, mi dici come mai ci sono tutte queste chiacchiere su tua moglie e il prete ghanese? A me lei sembrava tanto una brava donna. Tu avevi qualche sospetto?”
“E certo che era brava. Io non ci credo a tutte quelle chiacchiere. Era brava, la mia Leonilde. Mah, dicono che è una morte strana,” risponde lui un po’ più calmo, “come da intossicazione alimentare, soltanto che… lo sai, vero, che Leonilde, da un po’, mangiava pochissimo? A volte saltava i pasti, digiunava proprio!”
“Certo, me l’aveva detto: voleva dimagrire, si vedeva brutta, allora? Che hanno trovato?”
“Hanno trovato lo stomaco vuoto, tuttavia sarebbe morta per la stessa intossicazione di padre Prince!”
“Stai scherzando?”
“No, è proprio così. Aveva dei segni come di strangolamento; qualcuno l’ha presa per il collo e l’ha tenuta stretta. Dicono che, forse, sono state più persone, però non è morta per soffocamento.”
“Ma dimmi, Palmiro, lei ti aveva per caso parlato di qualcosa che riguardava padre Prince? Insomma, tu non credi alle chiacchiere, ma pensaci bene: era forse innamorata di lui? E lui, il prete, aveva forse una vita segreta?”
“No, no, innamorata… ma no, e il prete era simpatico, ma non mi sembrava un depravato. Eravamo amici. No, no, ma che innamorata! Tutte chiacchiere di gente cattiva.”
Palmiro riprende a soffiarsi il naso, mi saluta ed esce, con quella sua andatura ondeggiante sulle gambe storte che tanto ricorda i cow boys del far west.



Ecco: ci mancava mia madre. Figuriamoci se non veniva a verificare di persona tutta la vicenda degli omicidi di Borsigliana e del furto della meravigliosa pala d’altare di Pietro da Talada.
Che poi, chissà se c’è un legame fra i due crimini.
Le televisioni e i giornali si sono scatenati nell’approfondire e sviscerare nei minimi dettagli la vita privata e pure le personalità delle vittime e delle loro famiglie.
In particolare, il fatto che di mezzo ci sia padre Prince Lugard Mensah, un prete nero, ghanese, con fisico da atleta e grande sorriso, accende le fantasie più torbide, attirando ascoltatori e lettori e aumentando gli introiti.
Da quel che si dice in televisione, pare proprio che Leonilde e padre Lugard Mensah avessero una relazione; è emerso tutto dall’esame del computer del prete e dello smartphone della donna. I due avevano cominciato a frequentarsi appena due mesi dopo che egli era approdato a Borsigliana.
Povero Palmiro, gabbato e tradito, che ancora non vuole crederci.
Dai messaggi di lei, veniva a galla tutto un garbuglio di sentimenti dove la gelosia la faceva da padrona; Leonilde era gelosa, lo era, in particolar modo, di Samantha, l’estetista, e delle sue lavoranti. Perché Samantha? Mistero. Io, a Borsigliana, Samantha l’avevo vista solo a cena nel mio agriturismo, e non con il prete. Non mi dava l’impressione di essere una pia donna, proprio per niente, né mi pareva che conoscesse bene padre Prince.
Tuttavia, risulta che nel computer del prete ci fossero messaggi tra lui e Samantha, molti, moltissimi. In ogni caso, la televisione non ha rivelato il contenuto dei messaggi stessi, forse perché le indagini sono ancora in corso.
Una cosa hanno detto dell’estetista: che è di Caserta e che il suo cognome ha a che fare con una famiglia un po’ equivoca.
Comunque, arriva, mia madre, e piange pure lei come Palmiro e, questa volta, di confezioni multiformi di valium ha una borsa piena. Peccato che Leonilde non possa più servirsene.
“Sapessi, bambina, sapessi!”, cominciano le lamentazioni: altro che il profeta biblico lagnoso e balbuziente! “Sapessi cosa mi è capitato… Viktor, il mio bellissimo Viktor, mi ha lasciata, capisci? Se n’è andato via! La villa è chiusa, non ci sono nemmeno i suoi genitori. Tutti tornati a San Pietroburgo. Lui, tanto portato per la pittura, lui che mi dava così tante soddisfazioni.”
“Eh, mamma, lasciamo stare, so bene che soddisfazioni ti dava, so bene come ti soddisfaceva, ma dovevi pur renderti conto che tu hai cinquantacinque anni e Viktor poco più di trenta; dai, cerca di tornare con i piedi per terra.”
Mia madre pare rinsavire all’improvviso; si fa seria, poi si guarda intorno con fare circospetto e mi sussurra all’orecchio: “Artemisiuccia mia, credo di avere notizie che potrebbero interessare la polizia, ma non so che fare, ho un po’ di paura, tu che dici?”
“Mamma, guarda, non spaventare anche me. Sai qualcosa che potrebbe essere collegato agli omicidi, oppure al furto? Se è così, devi assolutamente andare alla polizia. Intanto, me ne vuoi accennare?”
Scuote la testolina bionda, la mia giovanile genitrice, si aggiusta gli occhiali dalla montatura vistosamente rossa, poi se ne esce con: “Che ne dici se scendiamo a Castelnuovo da Samantha a farci un bel bagno solare e un po’ di massaggi? Ti offro tutto io; ti ci metto anche la manicure, che hai le mani in uno stato pietoso. Dai, Artemisiuccia, preparati e chiudi su qui, che tanto non c’è nessuno.”
Sono quasi costretta a dirle di sì e a seguirla, non prima, però, di averle strappato la promessa che, dopo la seduta al centro estetico, lei sarebbe passata dalla polizia a raccontare quel che aveva da raccontare. 


Dal centro FisiolineSamantha siamo tornate, ieri sera, con l’auto carica di cosmetici, shampoo, oli per massaggi; la mamma si è sbizzarrita in acquisti. In più, la cara Sammy Scipione ci ha rifilato prodotti ortofrutticoli della sua terra (a prezzo scontatissimo) che il fratello, da quel che lei ci ha raccontato, porta su due o tre volte la settimana, freschi freschi, dalla Campania.
È auspicabile che non si tratti di verdure coltivate su discariche abusive di rifiuti tossici, ovviamente. La pommarola in bottiglia, comunque, è molto buona; pare davvero fatta in casa e oggi la userò per il sugo.
Le mie unghie, ora, sono perfette, anche se non raggiungeranno mai la perfezione artistica di quelle di mia madre, che se le è fatte dipingere tutte a fragoline e ciliegine, con tanto di foglioline verdi su campo azzurro. Purtroppo, stamattina, mentre accudivo Camillo e Serafina, un’unghia mi si è  subito rovinata: incidenti più che normali con un mestiere come il mio, ma mia madre non lo capirà mai. Già è nervosa, dopo il suo incontro con il comandante della polizia; chissà cosa si sono detti; chissà cosa lei aveva da confidargli. Sta di fatto che è nervosa.
Poi c’è il signor Venerio, l’omino di neve autista reggiano, che ieri era anch’egli dalla polizia, convocato per un nuovo interrogatorio, e che ora sta dormendo di sopra nella camera vicina a quella di mia madre. Nervoso pure lui. Ma non c’è niente a suo carico, quindi oggi pomeriggio ripartirà per Reggio Emilia.
Non faccio in tempo a finire di lavare i pavimenti della sala che sulla porta si staglia la figura curva e magra di Palmiro. “Entra, entra pure, il pavimento da questa parte è quasi asciutto.”, gli dico, e gli avvicino una sedia per farlo accomodare.
Lui si siede, anzi: si lascia andare come un sacco di patate, quasi fosse agonizzante; ha dei giornali in mano. Per un po’ resta muto a fissarmi, poi, quando vede che ho finito il mio lavoro, mi fa cenno di ascoltarlo: “Hai letto i giornali, Artemisia? No, vero? Sono andato apposta a comprarli, stamattina, perché me lo sentivo… me lo sentivo… Guarda qua!”, e mi sbatte sotto il naso un titolone: “Botulino: in manette gli assassini di padre Prince Lugard Mensah e di Leonilde Palmieri Magistrelli” con un sottotitolo altrettanto roboante: “ Arrestati i fratelli Ciro e Samantha Scipione, e il cugino Gennaro Scipione, per i due omicidi e per il furto su commissione del trittico quattrocentesco di Borsigliana, attribuito al pittore Pietro da Talada.”
Botulino? Ma che cavolo significa? Come si fa ad ammazzare qualcuno con il botulino?
Mi metto a leggere l’articolo a voce alta, mentre mia madre scende di corsa le scale, seguita a ruota da Venerio Montecchi; si piazzano tutti intorno a me, così continuo a leggere.
Alla fine è tutto chiaro. Guardo mia madre: “Mamma, ma tu lo sapevi che c’era di mezzo Viktor? Lo sapevi che era stato lui a commissionare il furto?”
Mia madre annuisce: “L’ho capito troppo tardi, Artemisia, l’ho capito quando sono andata a cercarlo là, alla sua villa di Pontremoli, perché erano settimane che si negava al telefono. In televisione avevano parlato degli omicidi e del furto a Borsigliana, così, quando sono arrivata là e l’ho visto parlare con Samantha e con due uomini pieni di tatuaggi, il fratello e il cugino di Sammy, ho capito. Ho girato la macchina prima che si accorgessero di me e sono andata via. Era questo che dovevo raccontare alla polizia. E poi… il prete ghanese… anche lui, tempo fa, l’avevo visto a Pontremoli, seduto in piazza con Samantha al tavolino di un caffè …”
Palmiro riprende su i suoi giornali: “Povera la mia Leonilde, adesso avrà giustizia, almeno. E potremo seppellirla e darle finalmente pace. Santa donna… e l’hanno così infangata, maledetti!”
Esce, mentre mia madre prepara un caffè per il signor Venerio. Mi sa che le piace. Almeno non ha vent’anni in meno di lei.


Pare che Serafina sia incinta. Avrò un asinello, dunque, e i bambini delle scuole impazziranno per il baby peloso; un bel richiamo e tanto guadagno in più per me.
Per fortuna la vicenda criminale di Borsigliana è archiviata e il trittico è tornato al suo posto. Ora hanno messo delle videocamere di sorveglianza tutt’intorno e un sistema d’allarme a prova di Arsenio Lupin. Ma cos’era poi successo?
C’era di mezzo mia madre. Il giovane erede di un ricco imprenditore russo, Viktor Kaspersky, che già abitava sporadicamente in Lunigiana, aveva notato per caso, in piazza a Pontremoli, i quadri di mia madre esposti in una vetrina.
In una di queste opere era fedelmente riprodotto il trittico della Madonna di Borsigliana.
Non ci pensò due volte, il russo, e fece in modo di incontrare mia madre, di legarsi affettivamente a lei e di farsi raccontare tutto ciò che sapeva di quella pala d’altare.
La voleva, la voleva a tutti i costi. La voleva per una sua casa di San Pietroburgo.
Così, aveva fatto in modo di contattare padre Prince, di circuirlo, promettendogli un bel po’ di soldi, e aveva assoldato Ciro e Gennaro Scipione, noti malavitosi, per portare a termine il furto, dopo aver rubato un camion in quel di Reggio Emilia.
Ma padre Prince si era lasciato scappare qualcosa con Leonilde; dai messaggi sul computer, risultava che le aveva promesso che sarebbe diventato presto ricco e l’avrebbe portata via con sé, in Africa, a fare vita da regina.
Leonilde ne aveva parlato con Samantha, dalla quale si recava sempre più spesso per la smania di diventare più appetibile per il parroco, tanto che Samantha e i complici, d’accordo con Viktor Kaspersky, avevano deciso di eliminarli tutti e due.
Samantha aveva iniettato del botulino, sì, proprio quello delle fiale che usava al centro estetico, in tre di vino da messa che il parroco aveva mandato a prendere in Campania, tanto, chi avrebbe pensato a lei?
Si può morire di tossina botulinica anche semplicemente mangiando delle melanzane sott’olio. Il parroco aveva assaggiato il vino mentre rientrava da Castelnuovo e c’era rimasto secco.
Poi, però, ai tre restava da far fuori Leonilde.
Anche in questo caso, i criminali avevano usato la tossina botulinica, ma gliel’avevano proprio versata in bocca, dopo averla immobilizzata. Poiché il botulino per uso estetico, in Italia, costa l’ira di Dio, e per ammazzare un uomo ne serve una bella quantità, ovviamente avevano fatto venire il liquido dritto dalla Russia, proprio dai laboratori del padre di Viktor.
Non avevano tenuto conto, i tre assassini, del fatto che Leonilde non mangiava da giorni, un po’ per stare a dieta, un po’ per il dolore della perdita del suo amato padre Prince.
Così, il medico legale non riusciva a spiegarsi la presenza della tossina botulinica nel suo stomaco completamente vuoto. Da lì a pensare al botulino usato nei centri di bellezza era stato un attimo, e la testimonianza di mia madre aveva avvalorato le teorie che la polizia stava costruendo.
Per fortuna, in quei giorni il trittico era ancora nella villa di Pontremoli, anche se l’avevano diviso in tre per trasportarlo meglio. Era stato recuperato e rimesso al suo posto, ma di Viktor Kaspersky nessuna traccia: sparito, volatilizzato.
Ora c’è un mandato di cattura internazionale, ma mettere in galera il figlio di uno degli uomini più ricchi del mondo non credo sia semplice.
Mia madre, intanto, se n’è andata a Reggio Emilia. Dice che vuole conoscere le terre della contessa Matilde; dice che vuole vedere i suoi castelli, i luoghi dove ha vissuto e combattuto. Dice che le serve per trovare ispirazione per la sua pittura. Sarà.
Secondo me si è solo innamorata dell’omino di neve autista del “Trasporto animali vivi”, ma va bene così. Meglio lui del valium e, soprattutto, meglio lui dei giovani virgulti amanti dell’arte (tanto da metterla da parte!) figli dei magnati russi.






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