Arrancare
verso il Passo di Pradarena respirando il gas di scarico d’un indolente e
scoppiettante camioncino
“Trasporto animali vivi” non è esattamente come
correre in Formula Uno, ma mi tocca. Volevano un asino? I bambini volevano un
somarello vero da accarezzare? Se una si mette in testa di costruire un
agriturismo con attività di fattoria didattica, certo che poi deve procurarsi questo
benedetto somaro.
Due
viaggi fin nel reggiano, sulle colline matildiche, lì a due passi da quattro
colli che paiono quattro mammelle d’una cinghiala gigante, sovrastati da due
castelli, o forse tre, o forse quattro. Non avevo avuto il tempo di controllare,
ma so che sono castelli della Gran Contessa.
Sì,
proprio lei: Matilde di Toscana. Donna tosca e tosta come me.
Lì, e
solo lì, a Salvarano di Quattro Castella, si trovano tutti gli asini e le
asinerie che si desiderano; voglio dire: trovate pure il latte d’asina, che è
uguale al latte materno, e poi salumi d’asino, formaggi d’asino e creme di
bellezza al burro asinino.
Così li
ho poi acquistati, gli asini: ne ho presi due; si faranno compagnia; non potevo
rischiare che uno solo, in isolamento, s’ammalasse di depressione. Che dopo
avrei dovuto comprargli un animale da compagnia, magari un’oca starnazzante e
scagazzante.
Via,
dai, camioncino, muoviti! A furia di pigiare il freno, m’è venuto un crampo al
piede, ma ormai ci siamo; Borsigliana non è lontana. Il camioncino davanti a
me, infatti, rallenta e mette la freccia a sinistra. Mi aspetto che s’avvii per
la salita con tutta la spinta possibile, e lo incoraggio pure, apostrofandolo
tra me e me con termini irripetibili - e anche un po’sconci - invece no: si
ferma.
Non
vorrà mica scaricarmi gli asini lì? Accosto e scendo.
Per la
miseria! C’è la macchina del prete in mezzo alla strada con una portiera aperta
e qualcuno riverso fuori. Sì, sì, è proprio quella del nostro prete.
La
riconosco per un adesivo, lo stemma di un coro di alpini, appiccicato dietro. Il
nostro prete ha una vera passione per i cori, i balli e la musica molto molto
popolare. Diciamo che gli piacciono il ritmo e il rumore, più che altro.
Scendo;
è sceso anche l’autista del camioncino, mentre i somari, dentro, fanno i
somari: scalciano e ragliano a più non posso. “Oh, ma questo chi è?”, fa
l’autista – reggiano purosangue - un pochino impensierito e con una faccia
leggermente schifata, “Non mi sembra mica tanto italiano questo qui, sa? Sarà
meglio non toccare niente e chiamare la polizia e l’ambulanza, che dice lei?”
Rimango
lì come una statua di gesso del presepe serbato nella sagrestia di Borsigliana,
tra un organo malridotto e polverosi candelabri, guardo il tipo penzolante dal
sedile, esamino l’interno dell’auto, dove alcune bottiglie di vino da messa
sono ruzzolate sui tappetini, provo a mettere in fila le cose da fare, prendo
il cellulare, penso a chi chiamare, penso a cosa sarà successo, ripenso a chi
chiamare, rimetto in fila le cose da fare, noto che una delle bottiglie era
aperta e ha disseminato il suo contenuto in giro, respiro odore di vino, poi mi
monta dentro una paura tale che non riesco nemmeno a digitare il 113 o il 118.
Gli
asini continuano a ragliare a più non posso, irritando i cani dei dintorni - i
quali replicano abbaiando come indemoniati - e le galline di un pollaio vicino,
mentre l’autista picchia con il pugno contro il camioncino: “E basta,
bestiacce! Basta o vengo dentro e dopo vedrete che state zitti!”
È un
omino piccolo e grassottello, l’autista, con due baffetti hitleriani, enormi
orecchie a sventola e pochi capelli neri incollati dal sudore e dall’unto a una
capoccia perfettamente sferica.
Pare un
omino di neve, anche per il lungo naso carico di brufoli, rosso come una carota;
mi scruta e sbotta: “Ma chi è quest’africano?”
Mi
riprendo, osservo l’uomo ferito (o morto?), ma le mie mani insistono a tremare,
tanto che fatico - maledetta tastierina da gnomi! - a digitare i numeri sullo
smartphone. Però lo identifico senza dubbio alcuno: “È padre Prince Lugard
Mensah, il nuovo parroco di Borsigliana. È di origini ghanesi. Il vescovo l’ha
mandato qui neanche un anno fa.”
L’omino
di neve, autista reggiano di “Trasporto animali vivi”, scuote il capo: “Pensavo
che i ghanesi fossero finiti tutti a Reggio, in via Turri, insieme a cinesi e
nigeriani. Un prete poi…mah… ac lavuùr con tutta ‘sta gente che viene da
fuori, povera Italia a gambe all’aria!”
Finalmente
riesco a chiamare sia l’ambulanza sia la polizia. Poi stiamo lì in attesa,
mentre gli asini tirano calci dentro al camioncino e pare che si metta pure a
piovere.
Però,
per la miseria, sarà mica morto, il nostro padre Prince?
Non ho
il coraggio di verificare; i morti mi hanno sempre fatto impressione. Anche
nelle camere mortuarie mi fa schifo entrare. Tutto quel grigio freddo
contornato da fiori puzzolenti mi attorciglia lo stomaco. La morte è proprio
brutta. Aspettiamo.
Un tipo
così allegro, padre Prince Lugard Mensah, allegro e vivace, giovane, con un
fisico da calciatore, aveva portato una ventata di novità e giocondità
nell’anziana e striminzita popolazione di queste parrocchie garfagnine. Le
vecchiette lo adoravano. Da quando era arrivato lui, pareva che ci fosse la
gara a partecipare a più messe e rosari e vespri possibile.
Pareva
che le vecchiette si litigassero i primi posti nei banchi in chiesa. Pareva che…
bene come lui: la messa, la predica, i rosari, la visita ai malati in ospedale,
l’accoglienza ai bisognosi, nessuno mai.
Che
fosse “colorato”, padre Prince Lugard Mensah, dopo il primo ruvido impatto, una
volta capito che amava il vino, il pecorino e le vecchissime canzoni di chiesa
(quelle tipo “Immacolata/vergine bella/ di nostra vita/ tu sei la stella…”),
non interessava a nessuno. Era come fosse nato e vissuto da sempre in
Garfagnana; uguale uguale.
In
conclusione, a messa lì a Borsigliana e nelle altre sue chiese, ci s’andava più
volentieri, e c’era chi veniva apposta per lui fin da Piazza al Serchio, o
addirittura da Castelnuovo. Anche donne giovani, c’erano, che mai s’erano viste
prima così giovani e così pimpanti.
In ogni
modo, c’era la moglie del sagrestano Palmiro, la buona Leonilde, che teneva a
bada quelle devotissime buone donne, frapponendosi, alla bisogna - proprio
fisicamente - tra il religioso e i teneri corpi femminili, così da evitare a
lui imbarazzanti abbracci o strette di mano troppo ardenti e arrischiate.
Per una
diversamente devota come me, che in chiesa, quando ci va, cerca sempre di
mettersi vicino alle porte per avere una pronta via di fuga a portata di
diserzione, il problema non si poneva: padre Prince Lugard mi aveva forse vista
sì e no tre volte da quand’era arrivato.
Però
era venuto a mangiare spesso all’agriturismo, con alcuni parrocchiani, con
altri parroci, con il sagrestano e la moglie di lui, Leonilde.
Bella
coppia, Palmiro e Leonilde. Lui magro da far paura, con quella faccia
garfagnina ossuta in cui sono scolpiti e sedimentati secoli di fame e di
privazioni, rubizzo per i quotidiani bicchieri di troppo, la giacca appesa alle
spalle magre come su una gruccia; lei molto più giovane, grassa grassa, sempre ammantata
di lunghe palandrane idonee a nasconderne la pinguedine.
Che
poi, quando s’erano sposati, lei era proprio carina: magra, morettina e
riccioluta, e lui mica beveva. Chissà cosa non aveva funzionato in quel
matrimonio. Non avevano figli. Chissà.
Si
vociferava d’un’inadeguata virilità del sagrestano, ma si sa che nei paesi si
fa presto a immaginare, inventare e diffamare.
Di
sicuro, c’era che Leonilde s’era ammalata di depressione – esaurimento nervoso,
dicevano - e poi era ingrassata e invecchiata all’improvviso. Ma ecco
l’ambulanza, e pure la polizia.
Speriamo
bene. E che mi lascino portare i miei asini all’agriturismo prima che cominci
il diluvio, perché sta tuonando come se fosse in atto un furibondo lancio di
bombe.
“Quindi,
padre Prince Lugard Mensah veniva spesso da lei, signora… signora?”, il
comandante della polizia cerca un foglietto nel taschino e suda copiosamente,
seduto a un tavolino del mio locale “ah, ecco: signora Bacci, dicevo: veniva a
mangiare da lei, vero?”
Ci
mancava pure questa, dopo la sfacchinata a scaricare gli asini e sistemarli nel
loro nuovo ricovero: un piedipiatti che mi interroga perché, poi, il nostro
parroco era davvero morto, ma non aveva segni di sorta, né ferite, né tracce di
risse, niente.
In più,
mi era toccato albergare anche l’autista omino di neve dai baffi hitleriani con
il naso da carota alcolista: “Mah, affermare che era qui spesso non mi sembra
corretto; è venuto diverse volte, solo diverse volte, perché me lo chiede?”
“Questo
agriturismo è suo, signora… signora… Artemisia, vero? Com’è che porta questo
nome? Lo sa che è un’erba, vero?”
Oh,
bella anche questa. Certo che lo so. Adesso devo pure spiegare il perché del
mio nome all’agente di polizia.
Che gli
dico? Che mia madre è una pittrice e che è grazie a lei se da Pontremoli sono
finita qui a Borsigliana, dopo che l’avevo seguita nella ricerca delle opere
del pittore Pietro da Talada?
No, non
glielo dico. “Sì, l’agriturismo è mio e mi hanno chiamato come l’erba, sì. Però
mi hanno chiamata anche come Artemisia dei Gentileschi.”
Lui mi esamina
sconcertato, con lo sguardo vuoto; non capisce, e io decido che è inutile
infierire. “Com’è morto padre Prince?”, chiedo.
Lui
mette via il foglietto, si sistema la cintura, sussurra qualcosa all’orecchio dell’altro
poliziotto, poi mi fissa dritto negli occhi: “Devono fare l’autopsia ma, a un
primo esame, pare che si tratti di cibo: intossicazione alimentare o
avvelenamento. Capisce, signora Artemisia? Certo che lei ha un nome un po’
pericoloso, se collegato ad un ipotetico assassinio… sa: le erbe possono essere
nocive…”, e ride, “ma no, scherzo: mia nonna con quell’erba, quella del suo
nome, ci faceva le frittate. Non si preoccupi: stiamo solo raccogliendo dei
dati e ora, se permette, vorrei interrogare l’autista del veicolo che ha
trasportato i suoi somari.”
Con il suo
compare, il comandante si avvia verso le camere di sopra, dove l’omino di neve
reggiano sta riposando. Poveretto, l’autista. Alla fine era pure piovuto e subito
gli era scoppiato un bel raffreddore.
Adesso
che non c’è più nessuno, provo a risistemare la sala, dato che ho un gruppo di persone
a cena, ma questa cosa del prete morto per intossicazione alimentare proprio
non mi garba.
D’improvviso
capisco perché. E cominciano a tremarmi di nuovo le mani.
Gli
zucchini sott’olio, madonna santa! L’ultima volta che il prete era stato qui
gli avevo regalato un vaso dei miei zucchini sott’olio! Vuoi vedere che erano
contaminati da qualche germe malefico?
Accidenti
a me e alla passione per l’orto. E alla passione per il concime organico, che
avevo usato il guano dei piccioni come fertilizzante per gli zucchini e forse
non era il caso: chissà quanti bacilli!
No,
calma, non è possibile; calma, Artemisia, suvvia. È ancora tutto da verificare.
Padre
Prince potrebbe essere morto d’infarto, o per un aneurisma. Lascia stare gli
zucchini e la cacca dei piccioni, Artemisia.
Non
faccio in tempo a quietarmi, che entra Palmiro urlando: “Dov’è, dov’è il
comandante della polizia? Artemisia, dimmi: dov’è?”
“Calmati,
Palmiro, aspetta, che succede?” Lo blocco e lo faccio sedere. Ha corso
chiaramente fino a lì, perché è senza fiato. Alza gli occhi e le mani al cielo:
“Una cosa terribile, un disastro: hanno rubato la madonnina, capisci? La
madonnina di Pietro!”
Mi siedo
anch’io. Se è il trittico di Borsigliana, quello che hanno trafugato, il
meraviglioso trittico quattrocentesco del pittore Pietro da Talada, allora
siamo in un bel casino davvero.
E il
prete non è morto a causa dei miei zucchini. Di sicuro.
Palmiro
non ha idea di quando il trittico sia scomparso; non sa ipotizzare un’ora
precisa, perché quel giorno, quello della morte del prete, la chiesa non era
stata aperta per niente, visto il trambusto. Sa solo che era là, ben fissato
alla parete dietro l’altare, tutto splendente della luce filtrata dal rosone e
riflessa dall’oro, fino al giorno prima del delitto.
Ora
sono passati due giorni; la polizia sta investigando pure su quel furto,
cercando eventuali connessioni con la morte di padre Prince.
L’autista
del camioncino è – se Dio vuole - ripartito per Reggio Emilia, dopo aver
risposto alle domande dei poliziotti e aver bevuto, a sbafo, vin brulè in
abbondanza, latte e cognac e miele (per sconfiggere il raffreddore, ma secondo
me gli piacevano proprio, e poi ci mangiava insieme pane e salame!) e i miei
somarelli stanno già amoreggiando con le prime classi dei bimbi che vengono a
fare esperienza in fattoria didattica.
Io
approfitto di quell’attimo di calma e scendo a Castelnuovo per una seduta in un
centro estetico, da “FisiolineSamantha”, che ne ho proprio bisogno, altrimenti
per la depilazione, tra un po’, mi servirà il decespugliatore, per non parlare
del mio colorito giallo patata: urge una lampada solare o mi prenderanno per
una malata di epatite.
Il
centro è nuovo, aperto da circa sei mesi; ci lavorano anche ragazze straniere,
romene e ucraine. Una, sinceramente, mi pare proprio di averla già vista nel
mio agriturismo, forse a una cena in compagnia di altra gente. Anche Samantha è
venuta diverse volte a mangiare da me, tuttavia lei è italiana; sua
caratteristica: parla l’italiano peggio delle ucraine, avendo conservato (con
grande cura) accento e dialetto casertani.
Comunque,
mi hanno restaurata proprio bene: via i baffetti e via il giallo patata
bollita, ora sembro appena tornata dal mare. Brava Artemisia, così mi piaci.
Oggi ho
una quinta elementare e, insieme, facciamo il pane.
Certo
che le maestre di adesso sono proprio imbranate: a furia di robot da cucina ed
elettrodomestici vari, non hanno idea di come si impasti a mano. Forse non
usano più nemmeno il pongo, a scuola.
La
fattoria didattica credo serva più a loro che ai bimbi; le vedo osservarmi a
bocca aperta mentre, dopo aver impastato nella madia tutti gli ingredienti,
passo la massa morbida e liscia sul ripiano della gramola e invito i bambini, a
turno, a sollevare e spingere la leva.
“Artemisia,
ci sei?” La voce è quella cremosa e delicata di Leonilde, la moglie del
sagrestano.
Chissà che
vuole. Purché non mi chieda di prestarle il valium di mia madre, che non ne ho;
la mia genitrice se n’è tornata già da un mese a Pontremoli: i suoi studenti
dei corsi (privati!) di pittura la reclamavano a gran voce e non si viveva per
le continue telefonate.
Con
uno, di vent’anni più giovane, credo che abbia pure intrecciato una relazione. Non
l’ho mai incontrato, ma lei dice che è bellissimo; un giovane virgulto della
nuova classe imprenditoriale russa: la sua famiglia ha comprato (e ristrutturato)
una splendida villa in Lunigiana.
Buona
cosa in toy boy, in questo modo la mamma non si intossica di valium.
“Vieni,
vieni, Leonilde, stiamo facendo il pane, così ci aiuti.”
Mi
aiuta, infatti, Leonilde, a scaldare il forno; con la sua calma paciosa, spiega
come infornare il pane e, a quei giovani demonietti, racconta pure di quando
era piccola e la mamma la faceva lavorare dall’alba al tramonto, poveretta, e
lei ubbidiva sempre, non come loro che fanno tutti quei capricci.
Quando
i bambini, maestre annesse, lasciano l’agriturismo, mi siedo con Leonilde e le
offro un caffè: “Che vuoi? Che succede? Hai bisogno di raccontarmi qualcosa?”
Lei
scoppia a piangere; è un diluvio, un’esondazione e mi tocca tamponare lacrime e
altro che le cola dal naso con tutti i tovaglioli del portatovaglioli lì sul
tavolo.
“Non ci
credo che sia morto…”, e giù tanti bei singhiozzi che sfociano in gemiti
incontenibili, quasi ragli, come quelli dei miei asinelli reggiani.
“Dici
padre Prince? Ma gli eri così affezionata? Cioè: gli eri solo affezionata o… o c’era
altro?”
Singulti
e singhiozzi: “Non ci credo… oh mio Dio, come farò? Come farò, ora?”
Le
spazzo il naso: “Leonilde, calmati, dai. Insomma, vuoi spiegarmi cosa succede o
cos’è successo? Cos’è che volevi dirmi? C’è qualche segreto di cui ti vuoi
liberare? Lo sai che di me ti puoi fidare, no?”
Lei
quasi grida: “Io so chi lo ha ucciso, lo so!” Mi fissa dritta negli occhi,
Leonilde, con il mascara completamente colato sulle guance (perché da quando
era arrivato il prete africano si truccava e si faceva la piega con i bigodini),
e annuisce risolutamente.
“Di
cosa stai parlando? Non sono ancora arrivati i risultati dell’autopsia, come
puoi sapere se lo hanno ammazzato? Sai che ipotizzano un’intossicazione
alimentare, vero?”
L’infelice
scuote il capo, si soffia rumorosamente il naso, si avvicina a me, mi abbraccia
stretta stretta, mettendo a dura prova le mie costole, poi se ne va senza dire
nulla, salutandomi con la mano.
Ma
cavolo, cosa ci sarà sotto? Ora sono davvero curiosa. Cosa sarà successo tra
quei due, il prete ghanese e la moglie del sagrestano?
Ho
chiamato Camillo e Serafina, i miei asinelli; sono maschio e femmina, sì, e lui
non è castrato, per cui prevedo, presto, di veder ingrandita la famiglia
asinina. Sono tranquilli, dolci; si lasciano toccare e accarezzare dai bambini
senza rischio alcuno.
Il
comandante della polizia locale è tornato ieri a trovarmi; ormai sono dieci
giorni che padre Prince è stato ammazzato e ancora non si sa quando lo
seppelliranno.
Sono pure
dieci giorni che è sparito, volatilizzato, il grande, meraviglioso trittico
della Madonna di Borsigliana. Ma come si fa a rubare (e pensare di piazzare sul
mercato) una simile opera? Chi può permettersi di commissionare un simile
furto?
Nessun
indizio, per ora, niente di niente. Svanito nel nulla. E le vecchiette a recitare
rosari, ogni sera, davanti a quell’altare non più illuminato dall’oro
dell’enorme pala quattrocentesca.
Ma sembra
preghino, disperate, più per l’anima di padre Prince che per la Madonna
scomparsa. Perché cominciano a girare strane voci su di lui, diciamo a girare
più di prima, quando già la presenza di belle ragazze forestiere alle sue
funzioni aveva molto allarmato e angosciato le anziane, fedelissime fans.
Il
comandante mi ha detto, ieri, che hanno interrogato la buona Leonilde e, da me,
voleva più informazioni su di lei.
“Lei sa,
signora Bacci… Artemisia, vero? Lei sa che hanno visto la signora Leonilde
aggirarsi dopo mezzanotte nei pressi della canonica più e più volte ?”, mi ha chiesto
un poco imbarazzato.
Pensavo
che la polizia non tenesse conto dei pettegolezzi. Mi ha preso alla sprovvista,
il comandante. A quanto pare, dunque, non erano solo pettegolezzi; a quanto pare
c’erano delle prove: qualcuno l’aveva vista davvero.
“Di
notte intorno alla canonica? Leonilde? Ah, guardi, fatico a crederci. Leonilde
ha paura del buio, non uscirebbe mai da sola di notte. E poi, scusi, com’è
morto il prete? Lo hanno ucciso o sono state cause naturali?”
“Una
strana intossicazione alimentare, molto strana… diciamo molto poco naturale. Ora
i Ris di Parma stanno analizzando tutti i cibi trovati in canonica; c’erano,
per esempio, dei vasetti di verdure sott’olio, alcuni aperti e, in parte
consumati.”
Brividi
di freddo per la schiena. I miei zucchini, proprio i miei zucchini, accidenti.
Eppure, li avevo mangiati pure io, e non avevo avuto manco un mal di pancia.
“Perché
dice che l’intossicazione è poco naturale? Lo hanno avvelenato, secondo lei?”
“Guardi,
signora Artemisia, io non ne capisco molto di queste cose, non sono un esperto,
ma pare che… mah… insomma, non è un’intossicazione proprio proprio naturale,
come quella da funghi velenosi, insomma, o da erbe tossiche, insomma… certo che
lei ha un gran bel nome, ma perché poi gliel’hanno messo? Gliel’ho già chiesto?”
“Sì, me
l’ha già chiesto; ha presente la grande pittrice Artemisia dei Gentileschi?
Porto il suo nome perché mia madre avrebbe voluto che diventassi una donna
geniale e coraggiosa come lei.”
“Una
grande pittrice? Del Quattrocento come Pietro da Talada?”
“No, un
po’ più rinascimentale, veramente, ma grande sì, e coraggiosa. Sa: fu la prima
donna a denunciare e far condannare per stupro il suo violentatore.”
“Ah,
interessante, interessante. Mi documenterò. Denuncia per stupro nel
Rinascimento. Coraggiosa, sì. Bel nome, Artemisia, sì.”
Se
n’era andato rimuginando sullo stupro di Artemisia dei Gentileschi e, per ora,
non si era rivisto. Meglio così. Oggi ho un’altra classe, questa volta delle
medie, che vuol dire un bel casino (benedetta adolescenza e benedetti genitori
che non sanno più contenere i figli adolescenti perché sono rimasti essi stessi
adolescenti).
Camillo
e Serafina hanno pensato bene di farsi sfacciatamente la corte proprio ora, con
tutta lo stuolo dei ragazzini lì intorno. Non avevo messo in conto
quest’evenienza: che Serafina andasse in calore proprio durante una visita
guidata di una scuola e che Camillo, di conseguenza, sfoderasse, letteralmente,
tutto il suo imbarazzante, gigantesco equipaggiamento erotico.
E ora
come faccio a tacitare le risate e i commenti grevi dei ragazzi che si trovano
davanti a una scena alla youporn dal vivo? E le professoresse, sconcertate, che
non sanno che pesci pigliare?
Hai
voglia te a tentare di distrarli: si sono incollati al recinto e osservano,
divertiti, Camillo che prova, maldestramente, a portare a termine i propri doveri
coniugali.
È un
grido lacerante quello che interrompe lo spettacolo hard asinino a cui stavamo
assistendo, il grido di un uomo, e io riconosco la voce di Palmiro: “Leonilde!
Mio Dio, aiutatemi! È morta!”
Il
comandante della polizia è di nuovo nel mio agriturismo; gli ho offerto un
mirtillino e se lo sta rigirando tra le mani: “Lei conosceva bene l’autista del
camion che ha trasporato qui i somarelli, signora Bacci?”
“Be’,
veramente no; me lo aveva consigliato il titolare dell’allevamento, il signor
Borghi, di Salvarano. È accaduto qualcosa che lo riguarda? A me era sembrato
una brava persona, un po’ razzista, forse…”
Il
comandante fa segno all’altro poliziotto di prendere appunti e finisce di bere
il mirtillino: “Buono, lo ha prodotto lei, signora Artemisia? Dovrebbe fare un
liquore anche con la pianta che porta il suo nome, sa: è un buon digestivo.”
Ride, poi continua: “Pare che il suo autista, insomma: quel tipo, che poi si
chiama Venerio Montecchi, avesse parcheggiato il camion proprio sotto la chiesa
e che, la notte della morte del prete, qualcuno lo abbia visto uscire dalla
porta della canonica in compagnia di altre persone. Lei ne sa niente?”
Cado
dalle nuvole: per me, l’omino di neve dal naso bitorzoluto era stato in camera
tutta la notte; non mi ero proprio accorta che fosse uscito. Lo dico al
comandante, che annuisce, poi mi chiede: “Leonilde le aveva confessato, per
caso, di sapere qualcosa sull’omicidio del parroco?”
Oh
porca paletta! È vero: Leonilde era venuta da me a piangere e, alla fine, mi
aveva detto di sapere chi era l’assassino.
E io
non le avevo dato retta. E adesso?
Racconto
tutto, mentre l’altro agente scrive e il comandante continua ad annuire per poi
chiedermi, bruscamente: “Lei era sul luogo del delitto del prete, praticamente
il cadavere era ancora caldo, quando l’avete trovato. Ha notato qualcosa di
particolare in giro? Qualcosa che l’ha colpita? Qualcosa di inusuale? Ci
pensi.”
Ci
penso. Il vino, l’odore di vino. Le bottiglie del vino da messa. Una era aperta,
o forse si era rotta cadendo: “Ho notato tre bottiglie di vino da messa; non è
che il prete era ubriaco ed è morto per coma alcolico?”, faccio io, tendando di
scherzare per allentare la tensione.
Il
comandante si fa serio, controlla che l’altro agente scriva e mi scruta fisso
fisso: “Il vino… già… E, scusi, signora Bacci, lei conosce bene il personale
dello studio estetico di Castelnuovo Garfagnana, il FisiolineSamantha? Sappiamo
che lo frequenta regolarmente.”
Non
capisco dove il comandante voglia andare a parare, ma gli rispondo che, sì,
conosco la titolare e le altre estetiste, anche se in modo del tutto
superficiale. “Bene bene”, fa lui, “ma torniamo al signor Venerio Montecchi,
che comunque abbiamo convocato per sentire cosa può raccontarci di bello su quella
notte, si ricorda se il suo camioncino era targato RE? Sa: dobbiamo ancora
verificare, ma pare che il veicolo scorto vicino alla chiesa avesse la targa di
Reggio Emilia.”
Ah no!
No davvero: il camioncino dell’omino di neve era targato MO, me lo ricordo
benissimo, perché l’avevo avuto davanti per tutto il percorso da Salvarano fino
a Borsigliana: “Modena, era targato Modena, sono sicurissima”, dico al
comandante, “e credo che lui l’avesse parcheggiato più in basso, prima della
chiesa, proprio vicino ai bidoni dell’immondizia, ha presente? Gli avevo detto
io di metterlo lì, fuori dai piedi, dato che la strada è molto stretta.”
Continua
ad annuire, il comandante, e beve il secondo mirtillino; tiro fuori pure una
bottiglia color carminio (di corniolino, sempre fatto da me) e gliela metto
davanti, insieme a qualche fetta di crostata.
In quel
momento, entra nel locale Palmiro, il sagrestano vedovo, soffiandosi
rumorosamente il naso e spazzandosi gli occhi. Si capisce che sta piangendo.
Infila il fazzoletto nella tasca dei larghi pantaloni, lasciandolo penzolare fuori
per metà, e si avvicina a noi.
“La mia
Leonilde… quando potremo seppellirla? Comandante, almeno seppellirla… così
posso andare a pregare sulla sua tomba.”
Piange,
singhiozza, e di nuovo ha quel fazzoletto di un colore indefinito (tra il
marroncino e il grigio topo, con macchie giallognole, rinsecchito al centro),
tra le mani magre e nodose.
Il
comandante lo rassicura, cerca di consolarlo, gli batte con una mano sulla
spalla, poi ci saluta e si avvia verso l’uscita con l’altro agente: “Vi farò
sapere molto presto,” dice sulla porta, “le indagini sono a buon punto. Stia
tranquillo, signor Palmiro, vedrà che potrà presto dare degna sepoltura a sua
moglie e vedere sbattuto in galera il suo assassino.”
Offro a
Palmiro un po’ di crostata e gli faccio un caffè: “Sai qualcosa delle cause
della morte? Insomma: ti hanno detto di cosa è morta Leonilde? Sono arrivati i
risultati dell’autopsia? E poi, mi dici come mai ci sono tutte queste
chiacchiere su tua moglie e il prete ghanese? A me lei sembrava tanto una brava
donna. Tu avevi qualche sospetto?”
“E
certo che era brava. Io non ci credo a tutte quelle chiacchiere. Era brava, la
mia Leonilde. Mah, dicono che è una morte strana,” risponde lui un po’ più calmo,
“come da intossicazione alimentare, soltanto che… lo sai, vero, che Leonilde,
da un po’, mangiava pochissimo? A volte saltava i pasti, digiunava proprio!”
“Certo,
me l’aveva detto: voleva dimagrire, si vedeva brutta, allora? Che hanno
trovato?”
“Hanno
trovato lo stomaco vuoto, tuttavia sarebbe morta per la stessa intossicazione
di padre Prince!”
“Stai
scherzando?”
“No, è
proprio così. Aveva dei segni come di strangolamento; qualcuno l’ha presa per
il collo e l’ha tenuta stretta. Dicono che, forse, sono state più persone, però
non è morta per soffocamento.”
“Ma
dimmi, Palmiro, lei ti aveva per caso parlato di qualcosa che riguardava padre
Prince? Insomma, tu non credi alle chiacchiere, ma pensaci bene: era forse
innamorata di lui? E lui, il prete, aveva forse una vita segreta?”
“No,
no, innamorata… ma no, e il prete era simpatico, ma non mi sembrava un
depravato. Eravamo amici. No, no, ma che innamorata! Tutte chiacchiere di gente
cattiva.”
Palmiro
riprende a soffiarsi il naso, mi saluta ed esce, con quella sua andatura ondeggiante
sulle gambe storte che tanto ricorda i cow boys del far west.
Ecco:
ci mancava mia madre. Figuriamoci se non veniva a verificare di persona tutta
la vicenda degli omicidi di Borsigliana e del furto della meravigliosa pala
d’altare di Pietro da Talada.
Che poi,
chissà se c’è un legame fra i due crimini.
Le televisioni
e i giornali si sono scatenati nell’approfondire e sviscerare nei minimi
dettagli la vita privata e pure le personalità delle vittime e delle loro
famiglie.
In particolare,
il fatto che di mezzo ci sia padre Prince Lugard Mensah, un prete nero, ghanese,
con fisico da atleta e grande sorriso, accende le fantasie più torbide, attirando
ascoltatori e lettori e aumentando gli introiti.
Da quel
che si dice in televisione, pare proprio che Leonilde e padre Lugard Mensah
avessero una relazione; è emerso tutto dall’esame del computer del prete e
dello smartphone della donna. I due avevano cominciato a frequentarsi appena
due mesi dopo che egli era approdato a Borsigliana.
Povero
Palmiro, gabbato e tradito, che ancora non vuole crederci.
Dai
messaggi di lei, veniva a galla tutto un garbuglio di sentimenti dove la
gelosia la faceva da padrona; Leonilde era gelosa, lo era, in particolar modo,
di Samantha, l’estetista, e delle sue lavoranti. Perché Samantha? Mistero. Io,
a Borsigliana, Samantha l’avevo vista solo a cena nel mio agriturismo, e non
con il prete. Non mi dava l’impressione di essere una pia donna, proprio per
niente, né mi pareva che conoscesse bene padre Prince.
Tuttavia,
risulta che nel computer del prete ci fossero messaggi tra lui e Samantha,
molti, moltissimi. In ogni caso, la televisione non ha rivelato il contenuto
dei messaggi stessi, forse perché le indagini sono ancora in corso.
Una
cosa hanno detto dell’estetista: che è di Caserta e che il suo cognome ha a che
fare con una famiglia un po’ equivoca.
Comunque,
arriva, mia madre, e piange pure lei come Palmiro e, questa volta, di
confezioni multiformi di valium ha una borsa piena. Peccato che Leonilde non possa
più servirsene.
“Sapessi,
bambina, sapessi!”, cominciano le lamentazioni: altro che il profeta biblico lagnoso
e balbuziente! “Sapessi cosa mi è capitato… Viktor, il mio bellissimo Viktor, mi
ha lasciata, capisci? Se n’è andato via! La villa è chiusa, non ci sono nemmeno
i suoi genitori. Tutti tornati a San Pietroburgo. Lui, tanto portato per la
pittura, lui che mi dava così tante soddisfazioni.”
“Eh,
mamma, lasciamo stare, so bene che soddisfazioni ti dava, so bene come ti
soddisfaceva, ma dovevi pur renderti conto che tu hai cinquantacinque anni e Viktor
poco più di trenta; dai, cerca di tornare con i piedi per terra.”
Mia
madre pare rinsavire all’improvviso; si fa seria, poi si guarda intorno con
fare circospetto e mi sussurra all’orecchio: “Artemisiuccia mia, credo di avere
notizie che potrebbero interessare la polizia, ma non so che fare, ho un po’ di
paura, tu che dici?”
“Mamma,
guarda, non spaventare anche me. Sai qualcosa che potrebbe essere collegato
agli omicidi, oppure al furto? Se è così, devi assolutamente andare alla
polizia. Intanto, me ne vuoi accennare?”
Scuote
la testolina bionda, la mia giovanile genitrice, si aggiusta gli occhiali dalla
montatura vistosamente rossa, poi se ne esce con: “Che ne dici se scendiamo a
Castelnuovo da Samantha a farci un bel bagno solare e un po’ di massaggi? Ti
offro tutto io; ti ci metto anche la manicure, che hai le mani in uno stato
pietoso. Dai, Artemisiuccia, preparati e chiudi su qui, che tanto non c’è
nessuno.”
Sono
quasi costretta a dirle di sì e a seguirla, non prima, però, di averle
strappato la promessa che, dopo la seduta al centro estetico, lei sarebbe
passata dalla polizia a raccontare quel che aveva da raccontare.
Dal
centro FisiolineSamantha siamo tornate, ieri sera, con l’auto carica di cosmetici,
shampoo, oli per massaggi; la mamma si è sbizzarrita in acquisti. In più, la
cara Sammy Scipione ci ha rifilato prodotti ortofrutticoli della sua terra (a
prezzo scontatissimo) che il fratello, da quel che lei ci ha raccontato, porta
su due o tre volte la settimana, freschi freschi, dalla Campania.
È
auspicabile che non si tratti di verdure coltivate su discariche abusive di
rifiuti tossici, ovviamente. La pommarola in bottiglia, comunque, è molto
buona; pare davvero fatta in casa e oggi la userò per il sugo.
Le mie
unghie, ora, sono perfette, anche se non raggiungeranno mai la perfezione
artistica di quelle di mia madre, che se le è fatte dipingere tutte a fragoline
e ciliegine, con tanto di foglioline verdi su campo azzurro. Purtroppo, stamattina,
mentre accudivo Camillo e Serafina, un’unghia mi si è subito rovinata: incidenti più che normali
con un mestiere come il mio, ma mia madre non lo capirà mai. Già è nervosa,
dopo il suo incontro con il comandante della polizia; chissà cosa si sono detti;
chissà cosa lei aveva da confidargli. Sta di fatto che è nervosa.
Poi c’è
il signor Venerio, l’omino di neve autista reggiano, che ieri era anch’egli
dalla polizia, convocato per un nuovo interrogatorio, e che ora sta dormendo di
sopra nella camera vicina a quella di mia madre. Nervoso pure lui. Ma non c’è
niente a suo carico, quindi oggi pomeriggio ripartirà per Reggio Emilia.
Non
faccio in tempo a finire di lavare i pavimenti della sala che sulla porta si
staglia la figura curva e magra di Palmiro. “Entra, entra pure, il pavimento da
questa parte è quasi asciutto.”, gli dico, e gli avvicino una sedia per farlo
accomodare.
Lui si
siede, anzi: si lascia andare come un sacco di patate, quasi fosse agonizzante;
ha dei giornali in mano. Per un po’ resta muto a fissarmi, poi, quando vede che
ho finito il mio lavoro, mi fa cenno di ascoltarlo: “Hai letto i giornali,
Artemisia? No, vero? Sono andato apposta a comprarli, stamattina, perché me lo
sentivo… me lo sentivo… Guarda qua!”, e mi sbatte sotto il naso un titolone: “Botulino:
in manette gli assassini di padre Prince Lugard Mensah e di Leonilde Palmieri
Magistrelli” con un sottotitolo altrettanto roboante: “ Arrestati i fratelli
Ciro e Samantha Scipione, e il cugino Gennaro Scipione, per i due omicidi e per
il furto su commissione del trittico quattrocentesco di Borsigliana, attribuito
al pittore Pietro da Talada.”
Botulino?
Ma che cavolo significa? Come si fa ad ammazzare qualcuno con il botulino?
Mi
metto a leggere l’articolo a voce alta, mentre mia madre scende di corsa le
scale, seguita a ruota da Venerio Montecchi; si piazzano tutti intorno a me,
così continuo a leggere.
Alla
fine è tutto chiaro. Guardo mia madre: “Mamma, ma tu lo sapevi che c’era di
mezzo Viktor? Lo sapevi che era stato lui a commissionare il furto?”
Mia
madre annuisce: “L’ho capito troppo tardi, Artemisia, l’ho capito quando sono
andata a cercarlo là, alla sua villa di Pontremoli, perché erano settimane che
si negava al telefono. In televisione avevano parlato degli omicidi e del furto
a Borsigliana, così, quando sono arrivata là e l’ho visto parlare con Samantha
e con due uomini pieni di tatuaggi, il fratello e il cugino di Sammy, ho
capito. Ho girato la macchina prima che si accorgessero di me e sono andata
via. Era questo che dovevo raccontare alla polizia. E poi… il prete ghanese…
anche lui, tempo fa, l’avevo visto a Pontremoli, seduto in piazza con Samantha al
tavolino di un caffè …”
Palmiro
riprende su i suoi giornali: “Povera la mia Leonilde, adesso avrà giustizia,
almeno. E potremo seppellirla e darle finalmente pace. Santa donna… e l’hanno
così infangata, maledetti!”
Esce,
mentre mia madre prepara un caffè per il signor Venerio. Mi sa che le piace.
Almeno non ha vent’anni in meno di lei.
Pare
che Serafina sia incinta. Avrò un asinello, dunque, e i bambini delle scuole
impazziranno per il baby peloso; un bel richiamo e tanto guadagno in più per
me.
Per
fortuna la vicenda criminale di Borsigliana è archiviata e il trittico è
tornato al suo posto. Ora hanno messo delle videocamere di sorveglianza
tutt’intorno e un sistema d’allarme a prova di Arsenio Lupin. Ma cos’era poi
successo?
C’era
di mezzo mia madre. Il giovane erede di un ricco imprenditore russo, Viktor
Kaspersky, che già abitava sporadicamente in Lunigiana, aveva notato per caso,
in piazza a Pontremoli, i quadri di mia madre esposti in una vetrina.
In una
di queste opere era fedelmente riprodotto il trittico della Madonna di
Borsigliana.
Non ci
pensò due volte, il russo, e fece in modo di incontrare mia madre, di legarsi
affettivamente a lei e di farsi raccontare tutto ciò che sapeva di quella pala
d’altare.
La
voleva, la voleva a tutti i costi. La voleva per una sua casa di San
Pietroburgo.
Così,
aveva fatto in modo di contattare padre Prince, di circuirlo, promettendogli un
bel po’ di soldi, e aveva assoldato Ciro e Gennaro Scipione, noti malavitosi,
per portare a termine il furto, dopo aver rubato un camion in quel di Reggio
Emilia.
Ma
padre Prince si era lasciato scappare qualcosa con Leonilde; dai messaggi sul
computer, risultava che le aveva promesso che sarebbe diventato presto ricco e
l’avrebbe portata via con sé, in Africa, a fare vita da regina.
Leonilde
ne aveva parlato con Samantha, dalla quale si recava sempre più spesso per la
smania di diventare più appetibile per il parroco, tanto che Samantha e i
complici, d’accordo con Viktor Kaspersky, avevano deciso di eliminarli tutti e
due.
Samantha
aveva iniettato del botulino, sì, proprio quello delle fiale che usava al
centro estetico, in tre di vino da messa che il parroco aveva mandato a
prendere in Campania, tanto, chi avrebbe pensato a lei?
Si può
morire di tossina botulinica anche semplicemente mangiando delle melanzane
sott’olio. Il parroco aveva assaggiato il vino mentre rientrava da Castelnuovo
e c’era rimasto secco.
Poi,
però, ai tre restava da far fuori Leonilde.
Anche
in questo caso, i criminali avevano usato la tossina botulinica, ma
gliel’avevano proprio versata in bocca, dopo averla immobilizzata. Poiché il
botulino per uso estetico, in Italia, costa l’ira di Dio, e per ammazzare un
uomo ne serve una bella quantità, ovviamente avevano fatto venire il liquido dritto
dalla Russia, proprio dai laboratori del padre di Viktor.
Non
avevano tenuto conto, i tre assassini, del fatto che Leonilde non mangiava da
giorni, un po’ per stare a dieta, un po’ per il dolore della perdita del suo
amato padre Prince.
Così,
il medico legale non riusciva a spiegarsi la presenza della tossina botulinica
nel suo stomaco completamente vuoto. Da lì a pensare al botulino usato nei
centri di bellezza era stato un attimo, e la testimonianza di mia madre aveva
avvalorato le teorie che la polizia stava costruendo.
Per
fortuna, in quei giorni il trittico era ancora nella villa di Pontremoli, anche
se l’avevano diviso in tre per trasportarlo meglio. Era stato recuperato e
rimesso al suo posto, ma di Viktor Kaspersky nessuna traccia: sparito,
volatilizzato.
Ora c’è
un mandato di cattura internazionale, ma mettere in galera il figlio di uno
degli uomini più ricchi del mondo non credo sia semplice.
Mia
madre, intanto, se n’è andata a Reggio Emilia. Dice che vuole conoscere le
terre della contessa Matilde; dice che vuole vedere i suoi castelli, i luoghi
dove ha vissuto e combattuto. Dice che le serve per trovare ispirazione per la
sua pittura. Sarà.
Secondo
me si è solo innamorata dell’omino di neve autista del “Trasporto animali
vivi”, ma va bene così. Meglio lui del valium e, soprattutto, meglio lui dei giovani
virgulti amanti dell’arte (tanto da metterla da parte!) figli dei magnati russi.
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