domenica 17 agosto 2014

"TRIBULUM", TREBBIARE E TRIBOLARE. LA MACCHINA DA BATTERE

  
La piazzavano al centro dell’aia, proprio davanti alle finestre della nostra cucina.
Solenne come un ligneo, epico cavallo di Troia, verniciata di rosso arancio, aveva l’aspetto di un
monumentale carrozzone, una diligenza del west, una robusta struttura da guerra, ma pure di un fortilizio da scalare e sottomettere. In realtà, era solo un grande cassone di legno di forma trapezoidale posto su un carro a quattro ruote lungo all’incirca sei metri; sui fianchi si protendevano delle stanghe che sorreggevano le pulegge. Tutta dipinta di quel tipico, brillante arancione, con le targhette ottonate riportanti il nome della ditta costruttrice, gradualmente ogni anno perdeva un po’ di colore, assumendo quello più consono della polvere e del grano maturo.
Gli uomini la piazzavano; “piazzare” era proprio il termine utilizzato per definire le interminabili azioni - tra urla, imprecazioni più che colorite, ordini dati a destra e a manca - attraverso le quali il ciclopico macchinario veniva bloccato al suolo, pronto per la battitura. Si vede che la trebbiatrice doveva essere “piazzata” in modo da non spostarsi nemmeno di un millimetro, tanto da poter sostenere le più potenti vibrazioni.
Era una festa, per noi bambini, ma anche un’avventura quando da lontano captavamo il rimbombare potente del trattore - a cingoli, o anche a ruote - che trainava la macchina da battere. Più forte, sempre più forte (e se c’erano i cingoli stridenti sulla ghiaia della strada il fracasso era davvero assordante), la carovana e l’allegra brigata della macchina da battere annunciava così la sua venuta a Soraggio.
Imboccata la ripida, stretta stradina che allora conduceva in paese e arrivati nel primo cortile, iniziava la messa in bolla del bestione rosso. Messa in bolla, certo, che la macchina doveva essere assolutamente allineata e ferma. Mi pare che si chiamasse Arnaldo, l’addetto al posizionamento, e che fosse il marito dell’Irene, una simpaticissima e bella signora che era stata per tanti anni a servizio in quel di Milano e che, a quei tempi, risiedeva, con il marito, in una bella casa isolata in mezzo ai boschi prima di Zuccognago.
Irene, però, mica aveva smesso di lavorare: faceva, disfaceva e rifaceva materassi, coperte imbottite, cuscini. Bastava chiamarla ed ecco che lei raggiungeva, a piedi e con tutti i suoi utensili, le famiglie che la richiedevano. Somigliava un po’ a Katharine Hepburn, ma era più dolce, più morbida: i capelli rossi gonfi, il volto dai lineamenti fini, con le labbra piene e sensuali, un gran sorriso e un bel corpo. “Guarda che belle gambe ho ancora!”, disse una volta a mia madre tirandosi su la gonna, mentre era lì che trafficava con il lungo ago da materassaia, e poi strizzò l’occhio: “Sapessi che scherzo ho fatto stanotte ad Arnaldo! Ho preso una zampetta morbida del coniglio che avevo spellato e me la sono messa addosso, e lui, quando ha allungato la mano…” e scoppiò a ridere.
Era così, Irene, era capace di fare tutto, brava a cucire, a lavorare a maglia, a cucinare, e poi era intraprendente, intelligente, spiritosa, dissacrante. Quelle volte che ce la ritrovavamo per casa era sempre occasione di grandi risate.
Il marito, invece, era più taciturno; mi pare che lavorasse senza troppo alzare la testa quando era lì con le stanghe e la “binda” - un sollevatore -  a piazzare la trebbiatrice. Lui e gli altri, con tavole, cunei e leghe a scatto, alla fine trovavano la posizione giusta, poi andavano a rimorchiare la pressa da porre all’uscita della paglia; la pressa era quel “cavallo con il becco” che inghiottiva la paglia e la trasformava in balle legate con il fil di ferro.
Ma non era finita, poiché dopo c’era da mettere in tensione la cinghia che collegava alla trebbiatrice la puleggia posta dietro al trattore. La tensione doveva essere quella giusta o la cinghia poteva staccarsi, costituendo un serio pericolo, oltre a sollevare un gran polverone, se fosse caduta come un’enorme frusta addosso a chi era lì intorno.
La macchina da battere veniva “piazzata” (“impiasâr” era il verbo in dialetto), cominciando dalla prima casa, in ogni aia di Soraggio, il che significava tutte le volte un lavoro madornale di montaggio e smontaggio. La nostra famiglia era l’ultima a battere e la nostra aia era l’ultima ad accogliere la trebbiatrice. Dopo di noi, la carovana con la sempre più allegra brigata della battitura - ormai anche molto alcolica - sarebbe lentamente caracollata giù per la discesa ripidissima che conduceva a Case Ferrari.
Da laggiù, solo il cielo poteva aver idea di quando la comitiva sarebbe risalita, ma tutti eravamo sicuri che nessuno sarebbe tornato lucido e saldo sulle proprie gambe; come si diceva una volta, i più li avremmo visti rientrare a fatica in “gatûn”, perché il vino di Case Ferrari, chissà perché (qualcuno, per motivare la ciucca, vociferava di pallini di piombo da caccia aggiunti nei recipienti!) fregava anche il più avvezzo bevitore.

Quando la macchina da battere era finalmente ferma davanti a casa mia, oscurando con l’ombra imponente tutto il piano della cucina, l’ingresso arcuato del portico e parte della stalla lì a fianco, noi bambini sapevamo che un po’ di lavoro e fatica ci sarebbero toccati. Per me, femmina, l’impegno sarebbe stato ancora maggiore, perché c’era da cucinare, e tanto: la colazione e il pranzo offerti agli operai altrenativamente da ogni famiglia non dovevano risultare inferiori, per ricchezza e varietà, a quelli di una sagra.
Ora, si era circa a metà luglio, il caldo era asfissiante, nessuno aveva ancora il frigorifero e noi non  avevamo nemmeno i fornelli per cucinare con la bombola del gas, perciò ci toccava preparare tutto sulla stufa a legna. In più, mentre mia madre e mia nonna lavoravano in cucina, fuori la macchina trebbiava con tutto il suo contorno di grida e frastuono, per cui bisognava tenere i vetri chiusi onde evitare di lasciar entrare la polvere (e le bestemmie).
Il disagio era terribile. Eravamo lì a far bollire il brodo (di solito si ammazzava il gallo), a far arrostire il coniglio, a impanare e friggere le cotolette, a triturare con il grosso coltello il prezzemolo per la salsa verde, a sfrigolare le patate, a cuocere la peperonata, a mondare l’insalata, a grattugiare il parmigiano, tutto nel bollore più totale, mentre mio nonno andava dentro e fuori con i fiaschi di vino con cui gli uomini si ripulivano la gola dalla pula e mia madre sbraitava di chiudere la porta che entravano le mosche.
Rigorosamente, ai lavoranti assetati, ricoperti di quella polvere finissima che una sorta di ventola buttava fuori dalla trebbiatrice e che si infilava in bocca, nel naso e nelle orecchie, veniva offerto il vino, che l’acqua faceva venire le rane nello stomaco, dicevano, e andava bene sì e no per lavarsi.
Nonno Carlo e nonna Eva con i "pistoni" di vino
C’era sempre, comunque, qualche dissidente che domandava l’acqua fresca, così mio nonno mi intimava di prendere i fiaschi e correre svelta a riempirli alla fontana, perché fresca la si poteva trovare solo là, alla Pianella.
Poi tornavo, e gli uomini si passavano i fiaschi l’un l’altro, bevendo a collo, cosa che faceva inorridire mia madre; lei mi aveva insegnato, come indispensabile norma igienica, di non mangiare o bere mai con le stoviglie usate da altri; venivamo da anni in cui c’erano state epidemie di tubercolosi e forse quelle norme, valide anche oggi (e forse meno rispettate dai più giovani), le donne le avevano apprese dai medici o dalle paesane che erano andate a servizio nelle città.
Gli operai bevevano più vino che acqua, ma la polvere era invincibile. Non bastava a quei poveretti, per difendersi, il fazzolettone rosso o blu che si legavano al collo, come i cow boys, e che tiravano su fino agli occhi, coprendo le narici e la bocca. Non bastava, contro la tempesta di polvere irritante, il sacco di juta chiuso, con un angolo infilato nell’altro e sistemato sulla schiena e sul capo a mo’ di cappuccio dagli uomini che portavano i sacchi di frumento nel granaio; sembravano tanti fraticelli penitenti in processione e non so come facessero a sopportare tutto quello sforzo.
Il minûn, il recipiente in cui cadeva il grano dalla macchina, ne conteneva mezzo quintale che veniva, appunto, versato in un sacco e dato in spalla ai vari portatori. Intanto, c’era una persona addetta a incidere su un bastoncino di legno le tacche che segnavano e conteggiavano i minûn; una volta è toccato perfino a me; ogni dieci tacche in orizzontale, si faceva un taglio di fianco sul ramoscello. Era poi facile, alla fine, conteggiare i quintali ricavati dalla trebbiatura: ogni tacca laterale erano cinque quintali.
Per la cronaca, il minûn è una unità di misura che viene da lontano, dal medioevo. A Reggio Emilia, ma anche in tutta Italia e in Europa, l’unità di misura più importante del medioevo era quella degli aridi, cioè la “Mina”, utilizzata per pagare le decime alla Chiesa, le tasse alle autorità, i canoni e i livelli ai feudatari, il salario ai lavoratori agricoli e altre contribuzioni minori. Che il minûn venga da lì mi sembra più che probabile.
Con cinquanta chili di frumento del minûn in spalla, i portatori salivano nel granaio, spesso affrontando le scale fino al solaio, oppure vuotavano i sacchi nello scrigno, una sorta di cassone di legno (e anche lì, poiché era alto, c’erano tre gradini da salire e scendere per buttarci dentro il grano). Noi bambini dietro, che era proprio un bel gioco, soprattutto quando, ubriachi più di fatica che di vino, i portatori cominciavano a vacillare. Noi bambini dietro, e poi via a camminare a piedi scalzi sul grano buttato a formare dune sul pavimento; una sensazione molto gradevole: di solletico, di carezze sulla pelle, e ti veniva voglia di tuffartici come fosse acqua e ti scappava sempre di rosicchiarne qualche manciata perché c’era pure, ad avvolgerti, quell’inconfondibile fragranza che richiamava il pane.
Gironzolavamo un po’ ovunque, seguendo i portatori, o gli addetti al “lóch”, finché non ci arrivava qualche scapaccione e l’ordine perentorio di andare a fare i filûn. L’operazione era semplice: si doveva tendere il fil di ferro tra le due estremità di una sorta di lungo cavalletto provvisto di un mulinello su cui si dava forma ad un’asola in fondo al filûn, appunto; poi, zac! Si tagliava con un colpo secco. Preparato un lungo mazzo di bei filûn, li si portava a quelli che erano addetti alla pressa, e c’era l’esperto che doveva “inguciâr”, e doveva farlo bene, senza sbagliarsi, attento al movimento a scatti della balla di paglia spinta indietro dalla pressa, pena la rottura e il disfacimento della balla stessa.
Era qualcosa di cadenzato, di musicale, tac tac, tac tac, come del resto tutta l’operazione della trebbiatura. In alto, intanto, i covoni venivano passati al “pajaröl” il quale, ritmicamente, ne tagliava i legacci con la roncola e li gettava in quella bocca infernale munita di lunghi denti che si muovevano su e giù. Del resto, a proposito di musica, tutta l’operazione della trebbiatura cominciava con il suono di una sirena ottenuto appoggiando non so cosa al cinghione, sirena del tutto simile a quella che, durante la guerra, richiamava la popolazione nei rifugi all’approssimarsi di un bombardamento.
La polvere era dappertutto, una nuvola che si respirava e che si incollava alla pelle; la polvere del frumento è particolare, aromatica, ma secca secca e quasi urticante, molto fastidiosa. Credo che i più disgraziati fossero gli addetti al “lóch”, la loppa, cioè quei rimasugli di paglia, involucro dei chicchi e altro cascame che non finivano nelle balle e che, con l’ausilio di forconi a quattro rebbi, veniva ammucchiato per essere poi raccolto e portato nella stalla, dove sarebbe servito da lettiera per le vacche.
Si tribolava davvero. Sarà mica che il verbo tribolare viene proprio da “tribulum”, il bastone “trebbio” che, prima dell’avvento delle macchine, si usava per separare i chicchi del grano dalle altre parti della pianta? “Trebulare”: “battere con apposito bastone”.
Intanto, mia madre tribolava in casa. E ci ammoniva di non farla tribolare pure noi. E, a distanza di tanti anni, non è difficile notare che tutto quel suo tribolare l’ha davvero “ridotta in lóch”, purtroppo.
Nei giorni precedenti, lei aveva cotto nel forno a legna una bella paniera di pane e qualche torta (in genere brasadelle buone per la colazione o da pucciare nel vino bianco), aveva preparato l’immancabile zuppa inglese, bianca di sassolino e rossa di alkermes, poi avevamo fatto i cappelletti che sarebbero finiti nel brodo. Aveva anche, mia mamma, tirato il collo al gallo e ammazzato un bel coniglio ed è difficile, ora che la carne si trova bella pronta e pulita in macelleria, capire quanto lavoro richiedano tali operazioni. Come per la sagra, si apparecchiava in sala e si tirava fuori il servizio di piatti buono, la zuppiera di porcellana dove mettere i cappelletti da portare in tavola, i piatti da portata per gli arrosti, le salsiere e le formaggere che uscivano dalla vetrina solo in quelle occasioni. Le tovaglie di quei tempi erano di buon cotone e lino, spesse, forti, belle, di solito ricamate con orlo a giorno e “luci”, dotate di enormi tovaglioli larghi quanto una moderna tovaglietta all’americana con i quali si proteggevano dagli schizzi anche le pance più voluminose. Pensavo sempre che, nei giorni seguenti, sarebbe stato obbligatorio il bucato; peggio ancora: quei tovaglioloni, prima di riporli nell’armadio della biancheria, avremmo dovuto stirarli tutti sotto il ferro con le braci. Anche i piatti erano solidi e con uno spessore in grado di reggere la temperatura del brodo senza rompersi, non come quelli fini e miserelli di oggi che non sai mai se si spezzeranno quando li metti in tavola con i cappelletti.
Non sopportavo a lungo di stare in cucina; era troppa la smania di andare fuori in mezzo agli uomini, alla polvere, alle grida, agli altri bambini che aiutavano a fare i filûn, a raccogliere la pula e a trascinare le balle accatastandole. Fuori c’era caldo, c’era rumore, c’era polvere, ma c’era più aria e, complice il vino, c’era più buonumore.
Le lunghe balle di paglia, pesanti forse più di quaranti chili l’una (che poi sarebbero state messe al coperto sotto un portico, nei fienili o in una posta della stalla), venivano accumulate a formare una sorta di fortezza su cui noi bimbi balzavamo, incuranti dei richiami dei grandi, arrampicandoci e saltanto su e giù, finchè qualcuno non ci minacciava di usare uno “srtupèt” di salice sulle nostre magre gambette.
Là in cima alla trebbiatrice, intanto, si poteva udire, frammisto ai rumori, il grido: “Pàja, pàja!”, che era un’esortazione a buttar più svelti i covoni al “pajaröl”. Tuttavia, capitava sovente che qualcosa si bloccasse in quelle spaventose fauci che inghiottivano il frumento e, allora, tutto veniva rallentato, tra invettive e maledizioni varie, fino a che non si riusciva a ripartire.
Lo zampillo di grani fluente dalla pancia del bestione rosso arancio pareva una fonte d’acqua marroncina che si rovesciava nel minûn con un tamburellare ininterrotto. Osservavo mio nonno Carlo avvicinarsi a quella sorgente di pane, allungare a intervalli la mano sotto il fiotto dei chicchi, lasciandoseli scivolare addosso, poi coglierne un pugno e osservarli attentamente prima di rimetterli nel minûn. Forse ne controllava la qualità e le dimensioni, forse il grado di essicazione, ma doveva essere cosa importante perché lo vedevo realmente concentrato in quella manovra.
Non mi ricordo chi organizzasse la campagna della trebbiatura dalle mie parti prima dei Pantaliùn. Chi sono i Pantaliùn? In realtà si chiamano Magnani e mai ho capito il motivo di tale soprannome. Li ho sempre visti più o meno lavorare per conto terzi con le macchine agricole, mentre il più piccolo (e più bello!), Quinto, si mise poi a fare il casaro. Tranne lui, che, pur alto, era di stazza normale, erano tutti omoni grandi e grossi - qualcuno più grosso che grande - compagnoni, simpatici.
Pino e Luigi Magnani, due dei fratelli Pantaliùn, dal ’67 fino a non tanti anni fa aprivano la campagna della trebbiatura intorno al 27/28 giugno a Quattrocastella, per condurla a termine a Frassinedolo dopo il 15 d’agosto. Luigi dice che era come andare a nozze ogni giorno, una festa continua, e che quello è stato il periodo più bello della sua vita.
Mentre a Soraggio si trebbiava aia per aia, in alcuni paesi, dove le stradine erano troppo strette, perciò era impossibile accedere in alcuni cortili (come a Costa de’ Grassi), la trebbiatura aveva luogo per buona parte lungo la via comunale. I contadini ammucchiavano i covoni nei vari piazzamenti, così si trebbiava il grano di tre o quattro famiglie per volta. A Costa, Luigi e il fratello Pino restavano per una settimana, poi si spostavano a Talada, Ca’ Ferrari e Frassinedolo, dove concludevano la campagna.
Erano quattro le specie di grano allora seminate: “mentana”, “san pastore”, “fiorello” e “virgilio”, ma per un buon pane fatto in casa si sapeva che il più adatto era il “mentana”. Tutte qualità di piante e competenze che andiamo perdendo, tra l’insensibilità generale e l’avanzare degli Ogm.
Da noi a Soraggio, dunque, le ultime battiture le fecero proprio i Pantaliùn, laddove, nei paesi più verso il crinale, dal 1970 cominciò a muoversi un loro concorrente: Giuseppe Valentini. Dice, Giuseppe, che a Costa de’ Grassi trebbiava solo in alcune borgate: la Chiesa e metà Ferdana; il resto lo faceva Pantaliùn. Poi, dal 1971, è arrivato a trebbiare il grano di tutto il paese: 1150 quintali! Provate a immaginare che popolazione doveva avere allora quella frazione di Castelnovo ne’ Monti… Valentini utilizzava una trebbiatrice Carra Virgiliana, una pressa Gallignani 149 e un trattore Fiat OM 75. Per finire tutto il paese gli ci volevano quindici giorni.
La campagna la cominciava a Pregheffio - praticamente a casa sua - verso il venti di luglio e la terminava l’otto settembre lassù, quasi sul crinale alle Comunaglie di Ligonchio, dove il grano matura molto più tardi. Pure a lui piaceva tanto quel lavoro, anche se a volte c’erano sistemazioni difficili, soprattutto per gli ingressi scomodi nei cortili. Senza contare i problemi atmosferici: una volta, a Casale di Talada, Valentini trebbiò il sei di settembre; solo due giorni dopo, il luogo dove prima c’era la catasta dei covoni franò sotto una pioggia violentissima.
Pare che la prima trebbiatrice sia giunta dalle nostre parti intorno al 1910; era una macchina molto semplice: c’era solo il “baddûr”, appunto, e una caldaia a vapore, di ferro, molto pesante e che avanzava stentatamente sulla ghiaia delle strade, tanto che ai buoi che la trainavano spesso si doveva aggiungere un paio di mucche.
Quando, dopo tanto penare, si era riusciti a trascinare i due trabiccoli nell’aia, anche allora bisognava “piazzarli”. Poi si collegava la puleggia della caldaia al “baddûr” con il cinghione di trasmissione, mentre un fuochista cominciava a buttare legna nel forno della caldaia che impiegava un’oretta buona per andare in pressione. Allora, la puleggia iniziava a muoversi, prima piano piano, poi sempre più velocemente, e giù legna e via che il cinghione si tendeva e girava sempre più forte, così da permettere l’inizio della trebbiatura.
Battere il grano era un tribolerio; richiedeva tantissima manodopera e nei paesi ci si organizzava, (come già prima per la mietitura e dopo per portare via il letame e arare), con “l’ândar a òvra”.
Gli uomini di ogni famiglia lavoravano, a turno, per tutte le famiglie del paese, così, senza dover pagare nessuno oltre a chi aveva la macchina da battere, si trebbiava tutti.
Il pranzo, le colazioni, le merende e il tanto, tantissimo vino erano, ovviamente, offerti dai contadini e la trebbiatura diventava davvero, per ogni borgata, nonostante la fatica immane, occasione di festa, risate, racconti di aneddoti buffi, scherzi, incontri con persone che non si vedevano da tempo.
E il lavoro fianco a fianco in mezzo a tutta quella polvere ricuciva gli strappi, le ferite, smorzava, almeno per un po’, gli odi dovuti agli inevitabili litigi tra parenti e paesani, rinsaldando la vita sociale e la comunità.

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