Solenne
come un ligneo, epico cavallo di Troia, verniciata di rosso arancio, aveva
l’aspetto di un
monumentale carrozzone, una diligenza del west, una robusta struttura
da guerra, ma pure di un fortilizio da scalare e sottomettere. In realtà, era
solo un grande cassone di legno di forma trapezoidale posto su un carro a quattro
ruote lungo all’incirca sei metri; sui fianchi si protendevano delle stanghe
che sorreggevano le pulegge. Tutta dipinta di quel tipico, brillante arancione,
con le targhette ottonate riportanti il nome della ditta costruttrice, gradualmente
ogni anno perdeva un po’ di colore, assumendo quello più consono della polvere
e del grano maturo.
Gli
uomini la piazzavano; “piazzare” era proprio il termine utilizzato per definire
le interminabili azioni - tra urla, imprecazioni più che colorite, ordini dati
a destra e a manca - attraverso le quali il ciclopico macchinario veniva bloccato
al suolo, pronto per la battitura. Si vede che la trebbiatrice doveva essere
“piazzata” in modo da non spostarsi nemmeno di un millimetro, tanto da poter
sostenere le più potenti vibrazioni.
Era una
festa, per noi bambini, ma anche un’avventura quando da lontano captavamo il
rimbombare potente del trattore - a cingoli, o anche a ruote - che trainava la
macchina da battere. Più forte, sempre più forte (e se c’erano i cingoli
stridenti sulla ghiaia della strada il fracasso era davvero assordante), la
carovana e l’allegra brigata della macchina da battere annunciava così la sua
venuta a Soraggio.
Imboccata
la ripida, stretta stradina che allora conduceva in paese e arrivati nel primo cortile,
iniziava la messa in bolla del bestione rosso. Messa in bolla, certo, che la macchina
doveva essere assolutamente allineata e ferma. Mi pare che si chiamasse
Arnaldo, l’addetto al posizionamento, e che fosse il marito dell’Irene, una
simpaticissima e bella signora che era stata per tanti anni a servizio in quel
di Milano e che, a quei tempi, risiedeva, con il marito, in una bella casa
isolata in mezzo ai boschi prima di Zuccognago.
Irene,
però, mica aveva smesso di lavorare: faceva, disfaceva e rifaceva materassi,
coperte imbottite, cuscini. Bastava chiamarla ed ecco che lei raggiungeva, a
piedi e con tutti i suoi utensili, le famiglie che la richiedevano. Somigliava
un po’ a Katharine Hepburn, ma era più dolce, più morbida: i capelli rossi
gonfi, il volto dai lineamenti fini, con le labbra piene e sensuali, un gran
sorriso e un bel corpo. “Guarda che belle gambe ho ancora!”, disse una volta a
mia madre tirandosi su la gonna, mentre era lì che trafficava con il lungo ago
da materassaia, e poi strizzò l’occhio: “Sapessi che scherzo ho fatto stanotte
ad Arnaldo! Ho preso una zampetta morbida del coniglio che avevo spellato e me
la sono messa addosso, e lui, quando ha allungato la mano…” e scoppiò a ridere.
Era
così, Irene, era capace di fare tutto, brava a cucire, a lavorare a maglia, a
cucinare, e poi era intraprendente, intelligente, spiritosa, dissacrante. Quelle
volte che ce la ritrovavamo per casa era sempre occasione di grandi risate.
Il
marito, invece, era più taciturno; mi pare che lavorasse senza troppo alzare la
testa quando era lì con le stanghe e la “binda” - un sollevatore - a piazzare la trebbiatrice. Lui e gli altri,
con tavole, cunei e leghe a scatto, alla fine trovavano la posizione giusta, poi
andavano a rimorchiare la pressa da porre all’uscita della paglia; la pressa
era quel “cavallo con il becco” che inghiottiva la paglia e la trasformava in balle
legate con il fil di ferro.
Ma non
era finita, poiché dopo c’era da mettere in tensione la cinghia che collegava
alla trebbiatrice la puleggia posta dietro al trattore. La tensione doveva
essere quella giusta o la cinghia poteva staccarsi, costituendo un serio pericolo,
oltre a sollevare un gran polverone, se fosse caduta come un’enorme frusta addosso
a chi era lì intorno.
La
macchina da battere veniva “piazzata” (“impiasâr” era il verbo in dialetto),
cominciando dalla prima casa, in ogni aia di Soraggio, il che significava tutte
le volte un lavoro madornale di montaggio e smontaggio. La nostra famiglia era
l’ultima a battere e la nostra aia era l’ultima ad accogliere la trebbiatrice. Dopo
di noi, la carovana con la sempre più allegra brigata della battitura - ormai
anche molto alcolica - sarebbe lentamente caracollata giù per la discesa
ripidissima che conduceva a Case Ferrari.
Da
laggiù, solo il cielo poteva aver idea di quando la comitiva sarebbe risalita,
ma tutti eravamo sicuri che nessuno sarebbe tornato lucido e saldo sulle
proprie gambe; come si diceva una volta, i più li avremmo visti rientrare a
fatica in “gatûn”, perché il vino di Case Ferrari, chissà perché (qualcuno, per
motivare la ciucca, vociferava di pallini di piombo da caccia aggiunti nei
recipienti!) fregava anche il più avvezzo bevitore.
Quando
la macchina da battere era finalmente ferma davanti a casa mia, oscurando con
l’ombra imponente tutto il piano della cucina, l’ingresso arcuato del portico e
parte della stalla lì a fianco, noi bambini sapevamo che un po’ di lavoro e
fatica ci sarebbero toccati. Per me, femmina, l’impegno sarebbe stato ancora
maggiore, perché c’era da cucinare, e tanto: la colazione e il pranzo offerti
agli operai altrenativamente da ogni famiglia non dovevano risultare inferiori,
per ricchezza e varietà, a quelli di una sagra.
Ora, si
era circa a metà luglio, il caldo era asfissiante, nessuno aveva ancora il
frigorifero e noi non avevamo nemmeno i
fornelli per cucinare con la bombola del gas, perciò ci toccava preparare tutto
sulla stufa a legna. In più, mentre mia madre e mia nonna lavoravano in cucina,
fuori la macchina trebbiava con tutto il suo contorno di grida e frastuono, per
cui bisognava tenere i vetri chiusi onde evitare di lasciar entrare la polvere
(e le bestemmie).
Il
disagio era terribile. Eravamo lì a far bollire il brodo (di solito si ammazzava
il gallo), a far arrostire il coniglio, a impanare e friggere le cotolette, a
triturare con il grosso coltello il prezzemolo per la salsa verde, a sfrigolare
le patate, a cuocere la peperonata, a mondare l’insalata, a grattugiare il
parmigiano, tutto nel bollore più totale, mentre mio nonno andava dentro e
fuori con i fiaschi di vino con cui gli uomini si ripulivano la gola dalla pula
e mia madre sbraitava di chiudere la porta che entravano le mosche.
Rigorosamente,
ai lavoranti assetati, ricoperti di quella polvere finissima che una sorta di
ventola buttava fuori dalla trebbiatrice e che si infilava in bocca, nel naso e
nelle orecchie, veniva offerto il vino, che l’acqua faceva venire le rane nello
stomaco, dicevano, e andava bene sì e no per lavarsi.
Nonno Carlo e nonna Eva con i "pistoni" di vino |
C’era
sempre, comunque, qualche dissidente che domandava l’acqua fresca, così mio
nonno mi intimava di prendere i fiaschi e correre svelta a riempirli alla
fontana, perché fresca la si poteva trovare solo là, alla Pianella.
Poi
tornavo, e gli uomini si passavano i fiaschi l’un l’altro, bevendo a collo,
cosa che faceva inorridire mia madre; lei mi aveva insegnato, come
indispensabile norma igienica, di non mangiare o bere mai con le stoviglie usate
da altri; venivamo da anni in cui c’erano state epidemie di tubercolosi e forse
quelle norme, valide anche oggi (e forse meno rispettate dai più giovani), le
donne le avevano apprese dai medici o dalle paesane che erano andate a servizio
nelle città.
Gli
operai bevevano più vino che acqua, ma la polvere era invincibile. Non bastava
a quei poveretti, per difendersi, il fazzolettone rosso o blu che si legavano
al collo, come i cow boys, e che tiravano su fino agli occhi, coprendo le
narici e la bocca. Non bastava, contro la tempesta di polvere irritante, il sacco
di juta chiuso, con un angolo infilato nell’altro e sistemato sulla schiena e
sul capo a mo’ di cappuccio dagli uomini che portavano i sacchi di frumento nel
granaio; sembravano tanti fraticelli penitenti in processione e non so come
facessero a sopportare tutto quello sforzo.
Il minûn,
il recipiente in cui cadeva il grano dalla macchina, ne conteneva mezzo quintale
che veniva, appunto, versato in un sacco e dato in spalla ai vari portatori. Intanto,
c’era una persona addetta a incidere su un bastoncino di legno le tacche che
segnavano e conteggiavano i minûn; una volta è toccato perfino a me; ogni dieci
tacche in orizzontale, si faceva un taglio di fianco sul ramoscello. Era poi
facile, alla fine, conteggiare i quintali ricavati dalla trebbiatura: ogni tacca
laterale erano cinque quintali.
Per la
cronaca, il minûn è una unità di misura che viene da lontano, dal medioevo. A
Reggio Emilia, ma anche in tutta Italia e in Europa, l’unità di misura più
importante del medioevo era quella degli aridi, cioè la “Mina”, utilizzata per pagare
le decime alla Chiesa, le tasse alle autorità, i canoni e i livelli ai
feudatari, il salario ai lavoratori agricoli e altre contribuzioni minori. Che
il minûn venga da lì mi sembra più che probabile.
Con
cinquanta chili di frumento del minûn in spalla, i portatori salivano nel
granaio, spesso affrontando le scale fino al solaio, oppure vuotavano i sacchi
nello scrigno, una sorta di cassone di legno (e anche lì, poiché era alto, c’erano
tre gradini da salire e scendere per buttarci dentro il grano). Noi bambini
dietro, che era proprio un bel gioco, soprattutto quando, ubriachi più di
fatica che di vino, i portatori cominciavano a vacillare. Noi bambini dietro, e
poi via a camminare a piedi scalzi sul grano buttato a formare dune sul
pavimento; una sensazione molto gradevole: di solletico, di carezze sulla
pelle, e ti veniva voglia di tuffartici come fosse acqua e ti scappava sempre
di rosicchiarne qualche manciata perché c’era pure, ad avvolgerti, quell’inconfondibile
fragranza che richiamava il pane.
Gironzolavamo
un po’ ovunque, seguendo i portatori, o gli addetti al “lóch”, finché non ci
arrivava qualche scapaccione e l’ordine perentorio di andare a fare i filûn. L’operazione
era semplice: si doveva tendere il fil di ferro tra le due estremità di una
sorta di lungo cavalletto provvisto di un mulinello su cui si dava forma ad
un’asola in fondo al filûn, appunto; poi, zac! Si tagliava con un colpo secco. Preparato
un lungo mazzo di bei filûn, li si portava a quelli che erano addetti alla
pressa, e c’era l’esperto che doveva “inguciâr”, e doveva farlo bene, senza
sbagliarsi, attento al movimento a scatti della balla di paglia spinta indietro
dalla pressa, pena la rottura e il disfacimento della balla stessa.
Era
qualcosa di cadenzato, di musicale, tac tac, tac tac, come del resto tutta
l’operazione della trebbiatura. In alto, intanto, i covoni venivano passati al
“pajaröl” il quale, ritmicamente, ne tagliava i legacci con la roncola e li
gettava in quella bocca infernale munita di lunghi denti che si muovevano su e
giù. Del resto, a proposito di musica, tutta l’operazione della trebbiatura
cominciava con il suono di una sirena ottenuto appoggiando non so cosa al
cinghione, sirena del tutto simile a quella che, durante la guerra, richiamava
la popolazione nei rifugi all’approssimarsi di un bombardamento.
La
polvere era dappertutto, una nuvola che si respirava e che si incollava alla
pelle; la polvere del frumento è particolare, aromatica, ma secca secca e quasi
urticante, molto fastidiosa. Credo che i più disgraziati fossero gli addetti al
“lóch”, la loppa, cioè quei rimasugli di paglia, involucro dei chicchi e altro
cascame che non finivano nelle balle e che, con l’ausilio di forconi a quattro
rebbi, veniva ammucchiato per essere poi raccolto e portato nella stalla, dove
sarebbe servito da lettiera per le vacche.
Si
tribolava davvero. Sarà mica che il verbo tribolare viene proprio da
“tribulum”, il bastone “trebbio” che, prima dell’avvento delle macchine, si
usava per separare i chicchi del grano dalle altre parti della pianta?
“Trebulare”: “battere con apposito bastone”.
Intanto,
mia madre tribolava in casa. E ci ammoniva di non farla tribolare pure noi. E,
a distanza di tanti anni, non è difficile notare che tutto quel suo tribolare
l’ha davvero “ridotta in lóch”, purtroppo.
Nei
giorni precedenti, lei aveva cotto nel forno a legna una bella paniera di pane
e qualche torta (in genere brasadelle buone per la colazione o da pucciare nel
vino bianco), aveva preparato l’immancabile zuppa inglese, bianca di sassolino
e rossa di alkermes, poi avevamo fatto i cappelletti che sarebbero finiti nel
brodo. Aveva anche, mia mamma, tirato il collo al gallo e ammazzato un bel
coniglio ed è difficile, ora che la carne si trova bella pronta e pulita in
macelleria, capire quanto lavoro richiedano tali operazioni. Come per la sagra,
si apparecchiava in sala e si tirava fuori il servizio di piatti buono, la
zuppiera di porcellana dove mettere i cappelletti da portare in tavola, i
piatti da portata per gli arrosti, le salsiere e le formaggere che uscivano
dalla vetrina solo in quelle occasioni. Le tovaglie di quei tempi erano di buon
cotone e lino, spesse, forti, belle, di solito ricamate con orlo a giorno e
“luci”, dotate di enormi tovaglioli larghi quanto una moderna tovaglietta
all’americana con i quali si proteggevano dagli schizzi anche le pance più
voluminose. Pensavo sempre che, nei giorni seguenti, sarebbe stato obbligatorio
il bucato; peggio ancora: quei tovaglioloni, prima di riporli nell’armadio della
biancheria, avremmo dovuto stirarli tutti sotto il ferro con le braci. Anche i
piatti erano solidi e con uno spessore in grado di reggere la temperatura del
brodo senza rompersi, non come quelli fini e miserelli di oggi che non sai mai
se si spezzeranno quando li metti in tavola con i cappelletti.
Non
sopportavo a lungo di stare in cucina; era troppa la smania di andare fuori in
mezzo agli uomini, alla polvere, alle grida, agli altri bambini che aiutavano a
fare i filûn, a raccogliere la pula e a trascinare le balle accatastandole. Fuori
c’era caldo, c’era rumore, c’era polvere, ma c’era più aria e, complice il
vino, c’era più buonumore.
Le
lunghe balle di paglia, pesanti forse più di quaranti chili l’una (che poi
sarebbero state messe al coperto sotto un portico, nei fienili o in una posta
della stalla), venivano accumulate a formare una sorta di fortezza su cui noi
bimbi balzavamo, incuranti dei richiami dei grandi, arrampicandoci e saltanto
su e giù, finchè qualcuno non ci minacciava di usare uno “srtupèt” di salice
sulle nostre magre gambette.
Là in
cima alla trebbiatrice, intanto, si poteva udire, frammisto ai rumori, il
grido: “Pàja, pàja!”, che era un’esortazione a buttar più svelti i covoni al
“pajaröl”. Tuttavia, capitava sovente che qualcosa si bloccasse in quelle
spaventose fauci che inghiottivano il frumento e, allora, tutto veniva
rallentato, tra invettive e maledizioni varie, fino a che non si riusciva a
ripartire.
Lo
zampillo di grani fluente dalla pancia del bestione rosso arancio pareva una
fonte d’acqua marroncina che si rovesciava nel minûn con un tamburellare
ininterrotto. Osservavo mio nonno Carlo avvicinarsi a quella sorgente di pane,
allungare a intervalli la mano sotto il fiotto dei chicchi, lasciandoseli
scivolare addosso, poi coglierne un pugno e osservarli attentamente prima di
rimetterli nel minûn. Forse ne controllava la qualità e le dimensioni, forse il
grado di essicazione, ma doveva essere cosa importante perché lo vedevo
realmente concentrato in quella manovra.
Non mi
ricordo chi organizzasse la campagna della trebbiatura dalle mie parti prima
dei Pantaliùn. Chi sono i Pantaliùn? In realtà si chiamano Magnani e mai ho
capito il motivo di tale soprannome. Li ho sempre visti più o meno lavorare per
conto terzi con le macchine agricole, mentre il più piccolo (e più bello!),
Quinto, si mise poi a fare il casaro. Tranne lui, che, pur alto, era di stazza
normale, erano tutti omoni grandi e grossi - qualcuno più grosso che grande - compagnoni,
simpatici.
Pino e Luigi
Magnani, due dei fratelli Pantaliùn, dal ’67 fino a non tanti anni fa aprivano
la campagna della trebbiatura intorno al 27/28 giugno a Quattrocastella, per
condurla a termine a Frassinedolo dopo il 15 d’agosto. Luigi dice che era come
andare a nozze ogni giorno, una festa continua, e che quello è stato il periodo
più bello della sua vita.
Mentre
a Soraggio si trebbiava aia per aia, in alcuni paesi, dove le stradine erano
troppo strette, perciò era impossibile accedere in alcuni cortili (come a Costa
de’ Grassi), la trebbiatura aveva luogo per buona parte lungo la via comunale. I
contadini ammucchiavano i covoni nei vari piazzamenti, così si trebbiava il
grano di tre o quattro famiglie per volta. A Costa, Luigi e il fratello Pino
restavano per una settimana, poi si spostavano a Talada, Ca’ Ferrari e
Frassinedolo, dove concludevano la campagna.
Erano
quattro le specie di grano allora seminate: “mentana”, “san pastore”, “fiorello”
e “virgilio”, ma per un buon pane fatto in casa si sapeva che il più adatto era
il “mentana”. Tutte qualità di piante e competenze che andiamo perdendo, tra
l’insensibilità generale e l’avanzare degli Ogm.
Da noi
a Soraggio, dunque, le ultime battiture le fecero proprio i Pantaliùn, laddove,
nei paesi più verso il crinale, dal 1970 cominciò a muoversi un loro
concorrente: Giuseppe Valentini. Dice, Giuseppe, che a Costa de’ Grassi
trebbiava solo in alcune borgate: la Chiesa e metà Ferdana; il resto lo faceva
Pantaliùn. Poi, dal 1971, è arrivato a trebbiare il grano di tutto il paese:
1150 quintali! Provate a immaginare che popolazione doveva avere allora quella
frazione di Castelnovo ne’ Monti… Valentini utilizzava una trebbiatrice Carra
Virgiliana, una pressa Gallignani 149 e un trattore Fiat OM 75. Per finire
tutto il paese gli ci volevano quindici giorni.
La
campagna la cominciava a Pregheffio - praticamente a casa sua - verso il venti
di luglio e la terminava l’otto settembre lassù, quasi sul crinale alle
Comunaglie di Ligonchio, dove il grano matura molto più tardi. Pure a lui
piaceva tanto quel lavoro, anche se a volte c’erano sistemazioni difficili, soprattutto
per gli ingressi scomodi nei cortili. Senza contare i problemi atmosferici: una
volta, a Casale di Talada, Valentini trebbiò il sei di settembre; solo due
giorni dopo, il luogo dove prima c’era la catasta dei covoni franò sotto una
pioggia violentissima.
Pare
che la prima trebbiatrice sia giunta dalle nostre parti intorno al 1910; era
una macchina molto semplice: c’era solo il “baddûr”, appunto, e una caldaia a
vapore, di ferro, molto pesante e che avanzava stentatamente sulla ghiaia delle
strade, tanto che ai buoi che la trainavano spesso si doveva aggiungere un paio
di mucche.
Quando,
dopo tanto penare, si era riusciti a trascinare i due trabiccoli nell’aia,
anche allora bisognava “piazzarli”. Poi si collegava la puleggia della caldaia
al “baddûr” con il cinghione di trasmissione, mentre un fuochista cominciava a
buttare legna nel forno della caldaia che impiegava un’oretta buona per andare
in pressione. Allora, la puleggia iniziava a muoversi, prima piano piano, poi
sempre più velocemente, e giù legna e via che il cinghione si tendeva e girava
sempre più forte, così da permettere l’inizio della trebbiatura.
Battere
il grano era un tribolerio; richiedeva tantissima manodopera e nei paesi ci si
organizzava, (come già prima per la mietitura e dopo per portare via il letame
e arare), con “l’ândar a òvra”.
Gli
uomini di ogni famiglia lavoravano, a turno, per tutte le famiglie del paese,
così, senza dover pagare nessuno oltre a chi aveva la macchina da battere, si
trebbiava tutti.
Il
pranzo, le colazioni, le merende e il tanto, tantissimo vino erano, ovviamente,
offerti dai contadini e la trebbiatura diventava davvero, per ogni borgata,
nonostante la fatica immane, occasione di festa, risate, racconti di aneddoti
buffi, scherzi, incontri con persone che non si vedevano da tempo.
E il
lavoro fianco a fianco in mezzo a tutta quella polvere ricuciva gli strappi, le
ferite, smorzava, almeno per un po’, gli odi dovuti agli inevitabili litigi tra
parenti e paesani, rinsaldando la vita sociale e la comunità.
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