Il Monte Battuta che univa. I sentieri e le carraie di un tempo, oggi
recuperati dal Cai; la cattura degli uccellini con le panie. Con un ricordo di
don Walter Aldini e don Battista Zini.
Chiesa parrocchiale di Villaberza |
Mia nonna Jusfina (anzi: la mia
bisnonna), afferrava gli anelli di legno della borsa di stoffa nera, si legava
per bene il fazzoletto sulla nuca, incrociava lo scialle di lana sul petto, se
era freddo, fermandolo con l’immancabile grembiule – che con il cappotto e con
le giacche non ci andava d’accordo - poi ci chiamava e via. Si partiva per la
bottega.
Da Predolo, proprio nel mezzo
dell’aia, correva giù, a quei tempi, una carraia comoda a sufficienza per il movimento
dei carri, cioè dei birocci trainati dalle vacche.
Scendeva verso Villaberza (che
era un paese vero, mica due case in croce come Predolo), dove c’erano la chiesa
parrocchiale, il bar dell’Irene e la bottega di Malagoli.
Perché, se si voleva andare alla
bottega, da Soraggio e da Predolo era necessario andare a piedi fino al
Fariolo, da quella dei Santi, o a Roncroffio; Gombio era assurdamente distante,
però aveva la “cooperativa” (bar e rivendita di alimentari vari che io pensavo
si chiamasse “comperativa”) e la “palta”, dove si potevano acquistare i
francobolli e il tabacco.
Gombio, come il Fariolo, aveva
pure la fiera una volta all’anno – tre bancarelle in croce, ma anche il
“calcinculo”, credo di ricordare, quella giostra su cui, per paura, non sono
mai salita - tuttavia era davvero impegnativo camminare fino laggiù.
Così, a Gombio ci andavo soltanto
a scuola e a messa, affrettandomi dietro al passo svelto di mio nonno Carlo (che
piuttosto che mancare alle funzioni religiose lasciava bagnare il fieno nei
campi), ed era già un bel camminare.
Scendevamo a Villaberza, dunque,
io e mio zio Giuseppe (bimbo come me) con la nonna, saltellando su è giù per le
scarpate, che non eravamo mai stanchi; sorpassavamo la fontana del “Pusùn” (il
pozzone), dove le donne di Predolo, della Scasola, della Bocca e della Battuta
sciacquavano i panni e attingevano l’acqua potabile e, superato il Casotto, finivamo
alla chiesa; poi giù, fino alla bottega.
In quella chiesa, i miei genitori
si erano sposati. Li aveva uniti in matrimonio don Battista Zini, che più
avanti mi aveva battezzata.
Davanti alla chiesa, all'uscita da messa; anni Settanta |
Trovavo affascinante quella
chiesa, con il buffo campanile basso basso lì davanti, tanto basso che potevo
toccare le campane, le due abitazioni dei mezzadri un tutt’uno con l’edificio
sacro, il monte dietro rivestito di campi lavorati, ripido e spelacchiato, e un
grande spazio verde aperto sul davanti.
Aveva qualcosa di incantato.
Bello, il luogo: esposto a mezzodì, assolato e rigoglioso.
Perfino il cimitero, lì a due
passi, pareva allegro, forse a causa del sole che lo riscaldava per buona parte
del giorno e dell’anno.
Io non ho conosciuto don Battista
Zini, o forse non lo ricordo, ma nei racconti di mio padre è una figura
talmente viva che mi pare familiare. Un bel tipo.
Qualcuno mi ha detto, una volta,
che ogni parrocchia ha il prete che si merita; gli abitanti di Villaberza
dovevano avere delle virtù nascoste se, agli occhi del buon Dio, erano
risultati tanto meritevoli da vedersi conferire personalità intriganti di
parroci come don Battista Zini, prima, e don Walter Aldini poi.
La carraia che scendeva da
Predolo era quella che avevo già percorso più volte con mio nonno Ambrogio per
raggiungere il suo nascondiglio di frasche del “paimùn”, il panione: la cattura
degli uccelli con il vischio.
L’immagine nitida di due braghe
di fustagno indossate sul mio pigiama, sulle quali la nonna aveva teso fino
alle ginocchia le calze di lana fatte a mano, per poi infilare i miei piedini ben
foderati negli stivali di gomma neri, mi riporta all’odore della neve
calpestata, del fuoco basso acceso nel capanno, delle foglie marcescenti del
bosco, dei rametti di salice con cui erano costruite le gabbie per gli uccelli
catturati e, ancora prima, delle uova strapazzate con il burro, abitudine alimentare
del mattino che mio nonno aveva acquisito in Francia.
“Allons, ça va?”, diceva lui, che
a volte scherzava con il francese e, quando mi rivedeva dopo un po’ di giorni,
invece che “miracle”, mi accoglieva ridendo e storpiando la parola in “miracùl”.
Camminavo tutta fiera a fianco di
mio nonno, lui con la giacca di velluto e il fucile a tracolla, e mi fermavo a
raccogliere gli unici fiori spuntati nel gelo.
Erano piantine dal fogliame gagliardo,
con foglie palmate verde scuro; sugli steli carnosi c’erano delle rose puzzolenti,
anch’esse verdi, che brillavano di umidità in mezzo alla neve.
Il nonno mi intimava di lasciarle
lì, che erano velenose, “fiori delle bisce”, diceva. Oggi l’elleboro (quella
pianta) viene chiamata “rosa di Natale” e la usano persino nei giardini.
E poi, al capanno, l’odore del
vischio. Ottenuto bollendo le bacche della pianticella - credo dopo averle
poste per un po’ sotto al letame - veniva cosparso come una colla sulle panie, sorta
di rametti finti che finivano in alto, su un albero vero o su un palo.
Gli uccelli, richiamati da un
loro simile tenuto lì nascosto in una gabbia, si posavano sui rametti
impegolati restando appiccicati, e più si muovevano, più si invischiavano.
Ma mica tutti gli uccelli
andavano bene. Ci fosse finita una cornacchia o un’upupa, l’avrebbero liberata
subito, perché erano ritenute bestiole disgustose.
Mio nonno diceva che l’upupa
mangiava le formiche, per cui ne prendeva il sapore e puzzava pure.
No, gli uccelli che erano buoni
da mangiare e da vendere erano altri; in dialetto le chiamavano “séche” e
“clumbìne”; erano i tordi: il sassello, il bottaccio, la cesena e, credo, un’altra
specie: la colombella.
I tordi somigliano moltissimo ai
merli, sono un po’ più grossi e hanno le uova azzurre azzurre; lo so perché un
nido di “séche”, una volta, l’avevo “allevato” su uno degli aceri campestri
sotto casa mia. “Allevare” significava stare attenti - una volta individuato il
nido con le uova - a quando i piccoli diventavano “volotti”, il che coincideva
con l’accrescersi delle penne sulle ali.
Era indispensabile non toccarli e
non farsi vedere dai genitori intorno al nido, fino a quel momento, o li
avrebbero abbandonati e, così piccini, non campavano senza essere imbeccati da
mamma e papà. Una volta “volotti”, li si prelevava e li si portava a casa, in
gabbia.
Certo, gli unici uccellini che
nessuno avrebbe osato toccare o disturbare, quasi fossero sacri, erano le
rondini; per le rondini si lasciava sempre una finestrella aperta nella stalla,
in modo che riuscissero a entrare ad ogni ora del giorno. E se, per fatalità,
una rondine s’inventava di fare il nido in un ambiente della casa, anche lì le
si permetteva di girare dentro e fuori.
Erano tre, i miei tordi, e li
avevo poi cresciuti con la “pappa” delle galline, vermi e insetti vari. In
seguito li avevo liberati. Lo facevano tutti i bambini, allora, di rapinare i
nidi, ma, di solito, “allevavano” i merli.
Pare una crudeltà, e sicuramente
è bene che oggi tali pratiche siano vietate per legge, tuttavia quello era un
modo per imparare a prendersi cura, fin da piccoli, di un essere vivente, a diventarne
responsabili. Anche il minuscolo orto di neanche un metro quadro che mia nonna Eva
mi lasciava zappare, seminare e custodire da sola, probabilmente, serviva a
questo.
Perché i vegetali, non meno degli
animali e degli umani, richiedono cura, tempo e amore. La pazienza si impara; l’attesa
dei risultati si impara; anche alla pazienza, però, bisogna educare e allenare.
Nel bel mezzo di quell’orticello
da gnomi, io e mio fratello trapiantammo, un giorno, un pino silvestre alto
pochi centimetri, prelevato sulla Battuta, e una pianticella di vite. Oggi sono
ancora lì, e i rami del pino con il vento si impigliano, alti, nei cavi del
telefono.
Una delle carraie della Battuta |
La Battuta, il monte delle cave
di sasso – la bella arenaria azzurro verde con cui erano costruite la mia casa
e le altre lì intorno - era l’alto scoglio che separava Soraggio da Villaberza.
Separava o univa? La Battuta era
lì, elevata tanto da impedire, verso Gombio, la visione della Pietra di
Bismantova, dominante e in parte piana sulla sommità (o forse livellata dal
troppo scavare massi nei secoli), cupa e coronata di grigi calanchi a nord, più
morbida e assolata, rivestita di roverelle, carpini e pini silvestri a sud.
La Battuta era percorsa da tante
carraie che si intersecavano e portavano un po’ ovunque, fino a Montecastagneto;
larghe, comode e pulite, erano belle, con le scarpate ricoperte di brugo e di
ginestre che si riempivano, in estate, di garbati fiori violetti e gialli. Oggi
sono state in parte ritrovate e accomodate dai volontari del Cai di Reggio
Emilia, i quali hanno segnato, da poco, il sentiero 674: l’anello
Villaberza-Montecastagneto. L’unica cosa che, della Battuta, un po’ mi
spaventava era la diceria che fosse luogo di serpenti, ma mica vipere e bisce,
no: serpenti verdi, enormi, con la cresta. Forse parenti di quel “serpente
regolo” che popola l’immaginario popolare della Garfagnana?
Paura o no, quando ero bambina e si
andava a piedi, erano quelle le strade abituali, non la “strada nuova”, dove
passavano le automobili; troppo lunga, che non si arrivava mai…
La Battuta era anche la
denominazione di una casa, una stalla, una famiglia: quella di Ornella Olmi,
che sarebbe diventata la compagna di classe e di banco delle mie scuole medie e
superiori, nonché l’allegra, ironica, spassosissima, insostituibile amica del cuore
di tutta la mia adolescenza.
Con lei, ridendo e
chiacchierando, avrò percorso migliaia di volte le stradine e i sentieri della
Battuta tra Soraggio e Villaberza, dato che spesso ci accompagnavamo e
riaccompagnavamo a casa, reciprocamente, all’infinito, finché non faceva buio.
Io e Ornella, sedicenni, alla chiesa di Villaberza |
Insieme, da ragazzine, ogni tanto
scendevamo al bar dell’Irene per un gelato; da don Walter ci andavamo, invece, per
implorarlo di darci una mano nei compiti di latino, o anche solo per fare due
chiacchiere, o per andare a scartabellare e rovistare nel suo archivio, vero
caos di libri e documenti e miniera di importanti informazioni. La sua canonica
era sempre aperta.
Ci accoglieva con disponibilità,
anche se era impegnato nei suoi studi di filosofia o, magari, nella
preparazione di una delle sue conferenze nelle università del Messico, oppure,
con monsignor Giovanni Costi, poteva essere intento a scrivere testi di
religione per le scuole.
Era uno studioso, un filosofo di grande
levatura; un grande uomo che viveva un po’ da asceta nell’isolamento verde
della chiesa di Villaberza.
Sorridente con tutti, ospitale e di
incredibile umiltà – lui, così colto e alto non solo di statura fisica – ci
seguiva, noi adolescenti, con consigli attenti, ma riguardosi, semplici, densi
di saggezza.
E se le sue omelie risultavano certo
un po’ troppo complesse per gli abitanti dei nostri paeselli – che di Kant non so
quanto capissero - quando parlava a tu per tu con le persone sapeva davvero
“farsi greco con i greci”, con modestia, simpatia e uno spiccato senso
dell’umorismo.
Il suo studio era sommerso di scaffali pieni di libri che
erano esondati anche sulla scrivania - ricoprendola completamente - e sul
pavimento, in pile disordinate.
Si salvava solo il pianoforte da quell’alluvione di tomi,
volumi, registri, quaderni, fogli; sulla tastiera, perennemente scoperchiata,
noi ci divertivamo a strimpellare canzoncine stonate, disturbando i topolini
che, ogni tanto, con nostro raccapriccio, ma senza che il parroco si
scomponesse, fuggivano in cerca di un rifugio più sicuro.
Ci stimolava, don Walter, a studiare, a capire, a muoverci.
“Se ti perdi in una foresta, che fai, t’incammini per cercare di uscire o stai
lì ad aspettare che ti vengano a cercare?”, mi disse un giorno, e io gli
risposi che, sì, mi sarei incamminata. “Ecco”, concluse lui, “è questo che devi
fare nella vita: avviati, cerca l’uscita sempre, cerca la strada, perché
nessuno ti verrà a tirare fuori se non sei tu a incamminarti”. Non lo
ringrazierò mai abbastanza.
Nel suo archivio, frugando frugando, un bel giorno io e
Ornella trovammo i registri di battesimo e ci mettemmo a spulciarli fino a che
non ci imbattemmo nel nostro anno di nascita e nell’annotazione dei nostri
battesimi; calligrafia antica ed elegante di inchiostro e pennino, don Battista
Zini aveva trascritto il mio nome spezzandolo in due; forse perché il mio nome
vero non aveva santi sul calendario? Credo di sì, ma ci rimasi male.
Che era un prete particolare, don Zini, lo sapevo dai
racconti di mio padre, ma anche dalle satire di Isaia Zanetti (bella zona, la
mia, capace di generare addirittura poeti anarchici e anticlericali!), che tutti
più o meno conoscevano e recitavano, ridacchiandoci su.
Come dice l’esperto di dialetto della montagna reggiana
Savino Rabotti, doveva aver avuto problemi nei rapporti con il padre, il poeta
Isaia. Un padre rigido che non aveva visto per lui altre alternative oltre al
lavoro dei campi. Ma allora, spesso, era così.
Isaia, quindi, represso nelle sue ambizioni e creatività, si
era sfogato con le satire, nelle quali rimarcava che l’autorità costituita,
essendo sopraffazione e abuso, era da combattere con mezzi legali e illegali;
che gli unici a lavorare sul serio erano soltanto i contadini e gli operai,
mentre i professionisti, gli impiegati e gli studenti costituivano una massa di
sfruttatori improduttivi (e chissà cosa direbbe oggi,in proposito!); che il vero
povero è solo il contadino, anche se possiede campi e bestiame, perché è
costretto a lavorare senza interruzione ed è legato al lavoro per tutta la
vita.
Nato nel 1899, Isaia morì nel 1973 e, per tutta la sua
esistenza solitaria, bersagliò qualsiasi potere con le sue satire: prima il
podestà, che tratteggiava come una sanguisuga opportunista, poi il parroco, don
Zini, sul quale arrivò perfino a gettare fango, e poi tutti coloro che non
svolgevano un lavoro fisico.
Un bell’esempio dei suoi versi corrosivi: “Vilabêrs l’ê ‘na
paròchia, /cùma i dîši, bên cumpòsta, /un pô chêta, bên unîda, /cun d’la grân
gênta istruîda. /A gh’è di fûrb e dj’ istruî, /dj’ignurânt e d’imbambî, /a
gh’n’é di sêvi e ânch di màt, /e pu’ a
gh’é anch d’i pajàs. /Don Batista, (ch’al srê il càp) /lû l’è ‘l re d’ tú-c i
pajàs. /Al fa sémper dal pensâd /da far
rìdr’ e spajasâr.”
Insomma: secondo Isaia, don Zini era il “capo dei pagliacci”
che faceva sempre delle “pensate” stravaganti, ridicole e risibili; era quello
che, in un’altra satira, il giudizio l’aveva perso e l’aveva messo in solaio
con le altre cianfrusaglie.
Mio padre ricorda che durante la guerra, un mattino, Isaia
passò davanti a casa sua, probabilmente salendo da Montecastagneto, e si fermò
pensoso; quella notte, “Pippo”, il famoso aereo alleato da ricognizione (ma
erano più di uno) che sorvolava, in notturna, i cieli dell’Italia del Nord,
aveva compiuto il suo giro, spaurendo
non poco la gente. Isaia sostò, guardò il cielo, poi sentenziò: “Duce! La sera
senza luce, la notte rioplani, la mattina senza pani!”, riassumendo, in poche
parole, tutta l’assurdità del fascismo.
Mio padre ha bei ricordi pure di don Zini, che ha
frequentato sin da bambino in quanto la nonna paterna, Adele Manfredi,
originaria di Fergnola, oltre Montecastagneto, da nubile aveva lavorato come
perpetua dal precedente parroco di Villaberza. Così, pur abitando in parrocchia
di Gombio, Adele preferiva andare a messa con la famiglia a Villaberza.
Che poi, a dire il vero, attraversando la Battuta, era molto
più comodo scendere lì.
Afferma, mio padre, che di uomini come don Battista non ne
nasceranno più.
Era forte anche fisicamente, rigido, autoritario, ma
autorevole, in grado di farsi rispettare da tutti, persino da chi gli era
superiore. E di un’intelligenza unica. Modestissimo, di abitudini frugali,
conduceva una vita di vera povertà, facendosi da mangiare da solo e offrendone
per di più agli operai che, come mio padre, a volte erano lì per opere in
muratura o per lavori nella stalla.
“Quando era mezzogiorno”, dice mio padre, “ci chiamava:
‘Oh!La resdora l’ha prùnt!’, ma era lui la resdora che aveva preparato il
pranzo. In genere, ci bolliva un brodo, dove buttava della pastina. C’erano dei
pezzi di carne che ballonzolavano nella minestra… però era buona.”
Come Isaia, don Zini aveva creatività e iniziativa: “Quando
sapeva che portavano in giro la Madonna Pellegrina”, continua mio padre, “lui
portava in giro la sua. Una volta eravamo a pesare il latte a Predolo, al
mattino presto, proprio lì dal forno della Pia, dove sbuca la carraia del
“Pusùn”, e a un tratto abbiamo sentito dei canti religiosi provenire dal basso.
Cos’era? Chi cantava a quell’ora? Spuntarono sull’aia: era don Zini con una
squadra di pellegrini che egli aveva requisito e che portavano la Madonna sulle
spalle, in quattro, con due pertiche. Passarono da Predolo e andarono sulla
Battuta, transitando dalla Bocca, sempre cantando a squarciagola. Ed era
l’alba, praticamente. Poi non so se siano scesi a Montecastagneto o se siano
tornati a Villaberza dalla Scasola… ma la scena era stata incredibile.”
Non aveva timore di niente e di nessuno, don Zini, nemmeno
del suo vescovo, tanto che si prendeva “licenze” liturgiche o catechistiche
mica da poco, che nessun giovane parroco di oggi si azzarderebbe a imitare.
Per esempio, la confessione dei ragazzi. Li metteva con la
faccia contro il muro, poi elencava tutti i peccati possibili ed essi, quando
si riconoscevano peccatori, dovevano alzare un piede.
O quella volta in cui, durante la processione del Corpus
Domini, si ricordò improvvisamente di non aver consacrato l’ostia prima di
partire.
Non ci fece una piega: inserì l’ostia nell’ostensorio
raggiato, fece tutta la processione e rientrò in chiesa, dove celebrò
regolarmente la messa; nei giorni seguenti, prese carta e penna e scrisse una
lettera alla Sacra Congregazione dei Riti (che in Vaticano svolge il duplice
compito di regolare e dirigere i sacri riti della Chiesa latina, e di occuparsi
della canonizzazione dei Santi), esordendo pressappoco così: “… ho saputo che
un parroco ha portato in processione, nella festa del Corpus Domini, un’ostia
non consacrata. Ditemi: ma si può fare?” La risposta, preoccupata quanto mai,
non tardò ad arrivare: “… ci dica subito di chi si tratta!”.
Non ho notizie, poi, di come don Zini l’abbia rimediata.
Uomo di sobrietà vicina alla povertà, “incarnato nel
popolo”, direbbe oggi certa teologia, non aveva pretese di essere trattato con
particolare riguardo, quando entrava nelle case.
“Una volta, salendo a piedi da Gombio, si era fermato a casa
nostra,” ricorda mio padre, “era stanco e chiese di potersi sdraiare un po’.
Avevamo una cassa che faceva pure da panca e si era seduto lì. Mia madre gli
propose di andare a riposarsi su un letto, ma lui rifiutò, dicendo che la cassa
andava benissimo e che poi c’era bel fresco. Allora, mia madre gli disse di
aspettare, che sarebbe andata a prendergli un cuscino e lui rispose di no, che
poteva portargli il panchetto basso che usavano a mungere le pecore…”
Ma il ricordo di don Zini aveva varcato perfino l’oceano… Un
po’ di anni fa, quando insegnavo alle elementari di Felina, insieme alle mie
due classi avevo avviato una corrispondenza con un vescovo brasiliano; uno
scambio di lettere che in seguito, nell’ora di religione, usavo per discutere e
approfondire i problemi della povertà nel mondo.
Il vescovo era Dom João Maria Messi, dell’ordine dei Servi
di Maria, nato a Recanati nel 1934, ora vescovo emerito per raggiunti limiti di
età a Barra do Piraí-Volta Redonda, nello Stato di Rio de Janeiro. Ebbene: in
una delle lettere, monsignor Messi ci scrisse che, quando era ancora un giovane
Servo di Maria, passava dei periodi di vacanza alla chiesa di Villaberza, da
don Battista Zini. Incredibile. Quando si dice “i casi della vita”.
A quei ragazzi dei Servi di Maria di Reggio, don Zini
portava il latte fresco delle sue mucche.
Dice mio padre di averlo visto salire in corriera a Felina,
mentre il bigliettaio gli caricava e sistemava due bidoncini di latte. “Aveva
passione a fare quel che gli altri non facevano,” dice mio padre, “inventava,
immaginava, era un ingegnoso. Diceva che era figlio di contadini. Mi pare che
fosse nato a Santa Maria Maddalena di Saccaggio, da quel che mi hanno
raccontato, anche se so che aveva parenti a Campo dell’Oppio di Carpineti. Un
episodio: una sera don Zini capitò a Santa Maria Maddalena e, per prima cosa,
si mise a suonare la piccola campana dell’oratorio. Tutti gli abitanti di
Saccaggio, spaventati, salirono a vedere cosa fosse successo, ma trovarono solo
don Battista con un galletto vivo in mano. Alla famiglia (forse Mercati?) che
lo ospitò, chiese di ammazzare e cucinare il gallo e, quando la signora gli
disse che andava a preparargli il letto, lui rispose, tra l’ilarità generale,
che avrebbe dormito sulla paglia sotto il portico. Disse che era nato lì e che
aveva sempre desiderato, prima di passare a miglior vita, di tornarci a
dormire… Avrà poi dormito in un letto… gli piaceva fare le sue battute.”
In chiesa, senza aspettare tante direttive liturgiche, aveva
fatto spostare, molto prima che l’idea venisse ad alti livelli, l’altare
indietro nel coro; a chi gliene aveva chiesto ragione, aveva risposto che lui
voleva vedere la gente in faccia, non averla alle spalle.
In casa, non aveva praticamente niente, nemmeno abbastanza
bicchieri per offrire da bere agli ospiti, tanto che, se erano troppi, versava
da bere nelle tazze.
Certo, la sua indole autoritaria non lo rendeva un soggetto
facile, così, tra i parrocchiani, c’era chi lo stimava e lo venerava e chi,
invece, lo detestava, proprio come Isaia Zanetti.
Rischiò parecchio, don Battista Zini, quando si trovò
coinvolto nei fatti del 3 aprile 1944.
C’era stato il rastrellamento di Gombio condotto dalla
divisione Göring e dalla Guardia Nazionale Repubblicana di Reggio; erano stati
catturati cinque uomini, portati poi sul Monte
Battuta per essere fucilati. Tre morirono: Mario Ferrari, Ettore
Ferrari, Nello Maroni. Due, Ulievo Ferrari e Giovanni Albertini, si diedero
alla fuga.
Il monumento ai partigiani sul Monte Battuta |
Ettore Ferrari si trascinò fino alla località Casello,
vicino alla Scasola; lì venne ritrovato moribondo.
Lo raccontava Vando del Casello: era inzuppato di sangue,
aveva persino le tasche piene di sangue. Qualcuno andò a chiamare don Zini per
trasportare il ferito in canonica, ma non ci fu possibilità di fermare
l’emorragia e il partigiano morì. Il giorno dopo, i tedeschi si recarono dal
parroco.
Don Zini raccontò, in seguito, che si erano fermati vicino
al cimitero e che gli avevano ingiunto di scendere laggiù dalla loro jeep. Che
fare? Li raggiunse e venne interrogato.
Un po’ titubante, chiese poi se avrebbe potuto rettificare
la propria deposizione, in caso gli fossero venuti in mente altri particolari;
dissero di sì, e allora si sentì salvo.
“Ha mai avuto paura nella vita?”, gli domandò una volta mio
padre, sapendolo uomo così forte e coraggioso, “Sì, quella volta con i
tedeschi. Quella volta ho avuto davvero tanta paura di morire…”
Da bambina io non mi curavo di tutte queste storie, non ci
facevo caso; da bambina scendevo semplicemente a Villaberza con la nonna per
andare alla bottega, approfittandone per farmi comprare un buon gelato al bar
dell’Irene e per giocare con Teresa Musi, una bimbetta della mia età.
Sapevo solo che camminare per quei sentieri era bello, che
tutto intorno era bello: l’aria lustra, la Pietra di Bismatova in alto a
proteggerci come un altare, il Monte Ventasso a forma di vulcano, spesso bianco
di neve, i declivi verdeggianti, dolci, ancora in parte ricoperti di viti, la
fontana del “Pusùn” pronta a dissetarci.
Oggi sono consapevole del valore di quei luoghi. Che sono
belli, ma anche ricchi di storia; di storie di gente coraggiosa, creativa,
finanche un po’ bizzarra, come il poeta Isaia.
E se il Cai di Reggio Emilia ha recuperato e segnato, per le
escursioni, il sentiero 674, l’anello Villaberza-Montecastagneto, non sono
l’unica a pensarla così.
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