mercoledì 1 gennaio 2014

DA "NOVE GALLINE E UN GALLO - RACCONTI E RICETTE TRA SECCHIA E CROSTOLO"

Rosalba, anzi, no: Rosa Maria. O forse solo Rosa.

Pare che tutto ciò abbiamo intorno - e che siamo - sia soltanto un inganno della mente; un’illusione perenne, un errore di percezione. Pare che ciò che comprendiamo con i sensi non corrisponda a quello che è; come quando osserviamo il cielo, dove le stelle ci appaiono come modeste luminarie di Natale, mentre, al contrario, ognuna è un sole. Pertanto, noi non possiamo vedere tutto, non conosciamo tutto: né l’infinitamente piccolo, né l’infinitamente grande.
In ogni modo, cosa sarebbe l’oggetto di quest’inganno cosmico? Cos’è che, del Creato, ci rimane nascosto? Particelle non identificate, cioè “materia oscura”, come la definiscono i fisici?
Pare che i cervelloni che frequentano e studiano l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande ne abbiano dimostrazioni: dai suoi effetti gravitazionali sulle galassie, le stelle e i pianeti, per esempio.
Certo che vivere in un universo che è, se non altro per metà - o forse più, - impenetrabile e oscuro, significa vivere in un mondo e in un tempo davvero senza confini, illimitato, dove sussisterebbero illimitate alternative di mondi.
Mia figlia Anna in Secchia con suo padre
Io non so cosa sia la “materia oscura”, ma mi piace pensare che sia l’amore, l’essenza stessa del Creatore, chiunque esso sia. Materia oscura come altra faccia dell’universo, spazio tempo in cui, prima o poi, torniamo tutti a nasconderci. E penso che i bambini (i figli, per esempio), arrivino da lì e conservino, per un po’, la scienza segreta e la potenza di quella dimensione.
L’ho pensato quando ho avuto tra le braccia per la prima volta mio figlio appena nato; un piccolo, meraviglioso prodigio, bello, buono e vivo come il pane in lievitazione. Materia cosmica e divina.
Forse perché vengono da là, i neonati, laggiù o lassù dove la materia oscura dà forma a mondi paralleli, non hanno paura di nulla; essi sanno più di noi quanto l’universo ci sia madre.
Si affidano a noi, si affidano al Creato tutto. Mia figlia, per esempio.

Come vedeva una pozza d’acqua, la streghetta ci si tuffava. Non era una bambina: era un pesce, o forse una ranocchietta; sta di fatto che, quando si andava al fiume, si doveva sorvegliarla senza sosta e riacciuffarla velocemente, appena spariva a faccia in giù nell’acqua.
E aveva sì e no due anni, la streghetta; anche uno, le prime volte che scendevamo al fiume Secchia, ma poi dovemmo limitarci, perché quella, quasi stesse morendo di fame, afferrava belle manciate di sabbia e se le metteva in bocca, tutta felice. Che dire: era fatta così.Veniva dalla materia oscura dove facilmente anche la sabbia era nutrimento.
Forse, in un’altra vita, o in quello spazio sconosciuto dell’universo, la mia figliola era stata una creatura marina, o di fiume o di lago. Trovava gustosa la sabbia e l’apnea le risultava naturale, quasi avesse ancora il cordone ombelicale a ossigenarla.

Si andava al fiume, d’estate. Il fiume era il nostro mare: lì, comodo, a dieci minuti da casa.
E c’era sempre la folla, allora. C’erano signore che, già ad aprile, cominciavano i bagni di sole, stese sul greto del Secchia (o dell’Enza), tenaci nel sopportare il sudore, i moscerini, il riverbero bollente dei ciottoli; tenaci e perseveranti nell’abbrustolire fino a settembre.
I risultati, a distanza di trenta e più anni, sono volti e decolleté completamente incartapecoriti, come le bistecche appena tolte dal barbecue, giacché un po’ di sole farà anche bene alle ossa, sì, ma alla pelle mica tanto; lo sapevano bene le contadine più anziane che in campagna ci andavano coperte il più possibile e con il largo cappello di paglia a proteggere il volto; lo sapevano bene le mondariso dell’età di mia madre che, in risaia, si spalmavano le gote, la fronte e il naso con la pomata “Biancardi” per evitare di abbronzarsi.
Per i bimbi e i ragazzi, però, il fiume è sempre stato un bel parco giochi naturale a costo zero; passarci i pomeriggi estivi era oltremodo rilassante. Andare al mare? Ma no, non ci pensavamo proprio. Figuriamoci: rinchiudere i miei piccoli cresciuti in una casetta circondata da prati verdi, abituati a stare sempre all’aria aperta (tanto che, quando a due anni avevano smesso il pannolino, marcavano il territorio come i cani e i gatti con le loro pisciatine), rinchiuderli in un albergo o in un appartamento? Difficile senza farli soffrire.
Poi arrivò Rosalba. Cioè, no: Rosa Maria, per l’anagrafe, credo; Rosa per il battesimo (o forse il contrario); Rosalba per tutti.
Mia figlia con Rosalba in parrocchia a Guasticce
Una confusione di nomi tale che quando le arrivava qualche lettera importante o un vaglia postale intestato a “Rosalba”, la poveretta doveva poi fare i salti mortali per spiegare che era lei, anche se dai documenti risultava un altro appellativo.
Anche Rosalba, per me, venne fuori dalla materia oscura. Non c’è bisogno di accelleratori di particelle occultati in tunnel scavati nelle montagne, di rilevatori che aspettano pazientemente sottoterra e di telescopi che fissano il cielo per capirlo; forse non si riuscirà mai a penetrare la vera natura della materia oscura, ma per me, pure Rosalba era uscita da lì.
Rosalba di Bari, Puglia. Cugina acquisita.
Lei e il cugino Giancarlo avevano praticamente unito l’Italia con il loro matrimonio. Meglio di Garibaldi. L’Italia e anche un po’ d’Africa.
Già, perché due dei fratelli di Rosalba erano proprio “africani”: nati in Etiopia.
Adesso, con gli africani che sbarcano a Lampedusa chiedendo asilo pare strano, ma con le guerre coloniali, seguendo gli eserciti, in Etiopia ed Eritrea erano arrivati invece gli italiani: mercanti, locandieri, agenti di commercio e intermediari, tutti dietro quei flussi di denaro che i contingenti militari muovono.
Ecco: il denaro non so se derivi dalla materia oscura; il denaro, come la guerra, potrebbe essere, invece, il prodotto di scarto - tossico – delle due materie; una specie di reazione chimica provocato dal contatto tra i due mondi e infestante la vita della materia - chiamiamola così – “illuminata”, non oscura, corporea.
Nella materia corporea ci sono le guerre, pure quelle per arraffare le terre e i beni dove già vivono altre persone. A volte, oggi, le chiamiamo “guerre umanitarie” e servirebbero a esportare la democrazia.
Dall’Italia, verso l’Africa, insieme a quelle guerre erano partiti gruppi di operai disoccupati, richiamati dai tanti cantieri aperti laggiù. In seguito, ecco le prime famiglie contadine facenti parte di un progetto di colonizzazione agricola.
Più tardi, Mussolini giudicò inaccettabile che nella colonia si aggirassero operai italiani sbandati, perché la cosa, mio Dio, avrebbero offeso il prestigio nazionale; così come riteneva che alcuni lavori (il manovale, per esempio, mio Dio), sempre per dignità, dovessero competere esclusivamente agli indigeni. Ai neri. Alle “faccette nere”.
Il padre e la madre di Rosalba erano dunque emigrati in Africa come coloni e, dopo la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero, si erano trovati in quelle terre che, secondo il regime, non dovevano essere considerate come una colonia di semplice sfruttamento, ma avevano un altro, importante compito. Perché Mussolini pensava in grande.
Che dire: fosse diventato un bravo scrittore, o attore, il Duce, o direttore didattico o provveditore agli studi ci avrebbe evitato molto molto dolore.
Però, probabilmente, a parte nell’arte di arringare le folle, era pessimo in tutto.
Anche Hitler, se avesse avuto successo come pittore o architetto ci avrebbe forse evitato gli orrori che ha poi riversato sul mondo.
Mai fidarsi di questi artisti frustrati e falliti: diventano spesso dittatori terribili.
E trovano continuamente masse frustrate, anche più di loro, che li seguono e li ascoltano.
Peggio ancora: li venerano. Lasciateli dunque dipingere, recitare, scrivere, coloro che si pensano  geni delle arti; fate loro credere che sono degli artisti sublimi, così che solamente in quello possano spendersi – soddisfatti - per tutta la vita.
Mussolini, nel suo delirio, aveva un’idea ben precisa in testa. Pensava in grande, il Duce.
l’Impero, colonie comprese, non poteva sussistere senza un popolo numeroso e in grado di rigenerarsi e aumentare di numero, superando, in quel caso, la popolazione etiope; una massa da cui prendere soldati pronti a mobilitarsi per la guerra.
Aveva la guerra, in testa, il Duce. La guerra, lo scarto tossico della reazione chimica tra la materia oscura e il mondo concreto. E per la guerra servono figli. Culle piene per trincee piene.
La mamma di Rosalba seguì le istruzioni del Duce, diventando subito una prolifica madre della Patria, ma il marito finì prigioniero degli inglesi (altrimenti chissà quanti figli avrebbe fatto, dice ora Rosalba), così che la loro fiorente attività agricola nella colonia africana dell’Impero ebbe fine.
Prigioniero degli inglesi significava, per chi non lo sapesse, un vero e proprio campo di concentramento. Lo raccontò poi al ritorno, Giovanni, il padre di Rosa Maria, e per tutta la vita nutrì un odio viscerale e un immenso disprezzo per i britannici.
Erano campi – tantissimi - di quasi ventimila reclusi l’uno, suddivisi in tendopoli; mille uomini per ogni tendopoli; otto persone per ogni tenda. Riso bollito a pranzo e cena, quando non era brodaglia peggiore, seduti a terra e, per letto, sotto le tende, solo la sabbia umida.
Il campo di prigionia inglese più grande d’Africa era quello di  Zonderwater, in Sudafrica; lì, a Zonderwater, avrebbero potuto alloggiare fino a 112.000 uomini.
Una storia dimenticata, questa dei prigionieri italiani degli alleati.
Volutamente dimenticata? Volutamente oscurata?
Giovanni Daddario, padre di Rosalba, fu prigioniero di guerra in mano inglese e probabilmente poi si sentì, per sempre, un prigioniero di serie B, dato che, nel periodo postbellico - momento di guerra fredda – si tendeva a parlare solo dei reduci dalla Russia o dagli orrori del nazismo, lasciando in secondo piano, o addirittura ignorando, il sacrificio di questi altri poveri italiani.
Io dei prigionieri italiani in mano alleata non sapevo proprio nulla. Altro che materia oscura!
Fu Rosalba a raccontarmi questa parte a me ignota dell’ultimo conflitto mondiale.
Rosalba uscita da quella parte dell’universo che dona il bello e il buono e dove il bello e il buono tornano. Rosalba che, in quella materia oscura, aveva a lungo cercato un bambino, un figlio, che madre migliore di lei non poteva essercene altra, ma poi aveva dovuto rinunciare, sublimare il dolore e diventare madre in altro modo: dei nipoti, dei bimbi che accudiva come bambinaia, degli amici, dei parenti. Anche di noi, in fondo.
Rosalba e Giancarlo avevano davvero unito l’Italia, in lungo e il largo, sposandosi.
Avevano unito Puglia, Calabria, Emilia e Piemonte. Si erano incontrati a Genova, avevano abitato nel Lazio e si erano poi trasferiti in Toscana, dalle parti di Livorno.
Da lì, un bel giorno avevano deciso di venirci a trovare, così me la trovai davanti, Rosalba, tutta carina, sorridente, con i capelli gonfi, come usava negli anni Ottanta; alta, vita stretta e fianchi barocchi tipici delle donne del meridione.
Però, da brava pugliese, aveva già assunto la cadenza toscana, che nessuno come i pugliesi riesce ad assorbire perfettamente parlate e dialetti dei luoghi di emigrazione.
Sì, ogni tanto se ne usciva con qualche bella espressione barese: “Achiude u cèsse!”, oppure: “A ffà la varve au ciucce se perde l'acque u timbe e u sapone!”, ma in genere parlava livornese, pur evitando il “deh” esclamativo con la “e” aperta e il “dé” di “Dé, guarda ‘i c’è…” che invece usavano abbondantemente i suoi altri familiari che abitavano in zona.
Prima di lei, prima di incontrare Rosalba, oltre a non conoscere né il dialetto barese, né le espressioni gergali livornesi (e nemmeno il Vernacoliere, foglio satirico che più volgare non si può, ma in senso positivo, almeno per me), non conoscevo buona parte della storia d’Italia – che a scuola ci sono pezzi che proprio non si studiano – e non conoscevo tanto altro.
Per esempio, il peperoncino. Non l’avevo davvero mai sperimentato, m’ero sempre rifiutata di provarlo. A casa di Rosalba, il peperoncino entrava quasi in ogni pietanza: impossibile non assaggiarlo. E poi il pesce: che ne sapevo io del pesce davvero buono e preparato davvero a modo?
Insomma, sì: avevo mangiato il pesce come si cucina qui o in Romagna, ma non avevo mai mangiato il vero, unico meraviglioso pesce appena pescato, comprato ancora vivo al mercato di Livorno e cucinato dalle mani magiche di Rosi.
Che è come dire: mettere il parmigiano nel ripieno dei cappelletti o metterci solo del pan grattato. Che è come dire: mangiare l’erbazzone fatto in casa con la ricetta della nonna o mangiare quello industriale, lardoso e unto, che sa solo di sale, grasso e cipolla e ti si pianta sullo stomaco per giorni.
Prima di Rosalba, non avevo mai mangiato il cacciucco alla livornese (con quattro c, come si usa a Livorno), un piatto di una bontà straordinaria.
Seppioline in umido di Rosalba
Prima di Rosalba, credo, non sapevo nemmeno ben individuare il giusto punto di cottura della pasta; lei era magica, magica davvero. Le sue pastasciutte erano qualcosa di celestiale, di incomparabile e il piccolo orto giardino davanti a casa sua era una miniera di delizie da cui attingere per la cucina: pomodori, zucchine, cetrioli, basilico, maggiorana, origano e ogni altro tipo di aromatiche; persino una pianta di passiflora arrampicata sulla recinzione, con i lunghi tralci legnosi, carichi di viticci, e i fiori bianchi, porpora, alcuni rosati e sfumati di bronzo.
Nel bel mezzo del giardino, un albero profumato di eucalipto dal tronco eretto, con la corteccia grigia che si rompeva appena in scaglie rossastre e il fogliame verde scuro, lanceolato. E poi violacciocche, piante grasse di ogni specie, rose, margheritone bianche, fiori di ibisco e una bella vite di uva fragola a ricoprire la pergola sulla porta di ingresso.
Inquilino di quel giardino, oltre che guardia attenta e componente della famiglia, era Rocky, un magnifico incrocio tra un pastore tedesco e un collie; il cane di Rosi e Giancarlo.
Quando erano venuti a trovarci, quella prima volta, l’avevano portato con sé, il loro Rocky, perché difficilmente riuscivano separarsene.
Rosalba e Giancarlo erano venuti a trovarci e, con un affetto e una simpatia cui era stato difficile resistere, ci avevano invitati a casa loro, offrendosi di accoglierci per le vacanze estive.
Al mare, in quel di Tirrenia.
Così, poco tempo dopo, abbandonammo i bagni di sole sul greto del Secchia a due passi da casa e, stipata la Renault 5 – beige e seminuova - di valigie, borse e figlioletti, partimmo (lemme lemme) per il nostro esodo attraverso il Passo del Cerreto alla volta di Guasticce, Livorno, Toscana.
Era forse il primo lungo viaggio per mia figlia, che lo fece tutto con il naso fuori dal finestrino, lamentandosi con la sua vocetta disperata ad ogni curva: “Mamma! Vompio… vompio…”, perché il mal d’auto le sarebbe passato soltanto con l’adolescenza e spostarsi, anche per pochi chilometri, significava, per lei, vomito sicuro.
Ma ci arrivammo, a Guasticce, sia pure in tempi biblici.
Prima di incontrare Rosalba, per me finanche Guasticce era parte della materia oscura; ci trascorsi poi, per ben trent’anni, almeno una settimana ogni estate, che da lì alla spiaggia di Tirrenia era un attimo.
Guasticce: “Neppure duemila anime,  - dice l’amica guasticcese Patrizia Barbini, - un microcosmo piatto incapace di trovar posto in qualunque carta geografica che si rispetti. Li vedete i paesini all’intorno? Leggete i nomi: cosa vi ricordano? Stagno, Mortaiolo, Nugola, Arnaccio, con quel suffisso che non promette niente di buono... Eh sì, ci troviamo all’interno di una ex palude che solo la lungimiranza dei Granduchi di Toscana strappò alle zanzare, le quali peraltro se la legarono al dito ed ogni anno, in piena estate, ritornano a perseguitarci, con somma gioia dei produttori di Autan.”
Vero: Rosalba e Giancarlo abitavano nel bel mezzo di quella che era stata un’immensa palude, nel bel mezzo di uno zanzarificio, a due passi dal mare, vero, ma anche a due passi dalla raffineria di petrolio dove Giancarlo lavorava, - e che inquinava l’aria con un tanfo ammorbante, - e a due passi dal Camp Darby, una gigantesca base militare americana nata nel 1951 da un accordo tra Italia e Stati Uniti.
Prima di conoscere Rosalba, anche le basi americane in Italia, per me, erano parte della materia oscura. Non ne sapevo niente, me sciagurata.
E ora, eccolo lì, il Camp Darby, con i suoi infiniti rotoloni di filo spinato in alto, sulle recinzioni, per chilometri e chilometri, e tutti quei capannoni, e case, e persino una chiesa e molti campi sportivi dentro. E poi armi, carri armati, aerei ben in vista. E il divieto di fotografare sui cartelli appesi alle reti.
Eccolo lì, costruito sul Tombolo, in quella pineta che, fino agli anni Cinquanta, era stata luogo di passeggiatrici, di contrabbandieri, di renitenti sfiancati dalle guerre.
Mi raccontarono che nel Camp Darby era custodito il più grande arsenale americano all’estero e che, grazie al canale navigabile che arrivava all’interno della base, i materiali potevano andare e venire dal porto senza che nessuno se ne accorgesse.
Inquietante: Livorno, Pisa, Italia, e nessun controllo?
Oggi, le prostitute sono tornate e stanno lì, in bella mostra, seminude o completamente nude, lungo la strada che costeggia la recinzione del Camp Darby e che porta a Pisa; stanno lì in pieno giorno, sotto i pini marittimi, accomodate su divani sporchi e spelati, oppure su una sedia, mentre i loro magnaccia vigilano passando avanti e indietro in auto.
Ma non sono italiane, le sventurate, e forse non sono nemmeno tutte di sesso certo, perché, dalla loro vistosa nudità, appare una muscolatura del fondoschiena e delle cosce – e un’assenza di cellulite - non esattamente femminile.
Corsi e ricorsi della storia: soldati che, per volere del Duce, erano morti o che erano stati fatti prigionieri in Africa per creare un Impero e “civilizzare” le “faccette nere” - buttando invece nella miseria più spaventosa le loro famiglie in Italia - e ora quelle “faccette nere” qui a ricordarci che la colonizzazione selvaggia e il ladrocinio hanno creato altrettanta miseria e devastazione che si sta ritorcendo contro di noi.
Su quella strada che rasentava il campo americano, noi transitavamo dunque per andare a Tirrenia, al bagno Vittoria, alla spiaggia, e la colonna sonora proveniente dal mangianastri dell’auto mutava ogni anno, mescolandosi con la fragranza decisa dei pini e il salmastro del mare che il libeccio ci rovesciava addosso.
Nell’ ’89, per esempio, con i finestrini spalancati, i nostri figli cantavano a squarciagola le canzoni dell’ultimo album di Zucchero, “Oro, incenso e birra”, tanto che le note di “Diavolo in me”, “Overdose d'amore”, e della tenera, commovente “Diamante” arrivavano probabilmente anche agli zingari del campo nomadi di Coltano, lì vicino.
Zingari che, un bel dì, Rosalba si era ritrovata in camera da letto a frugare in tutti i cassetti per cercare l’oro; lei ne aveva molto sofferto, perché la violazione della propria intimità è ancora più dolorosa della perdita di qualche oggetto prezioso.
E a proposito di corsi e ricorsi storici, se a Coltano oggi c’è il campo nomadi, alla fine della seconda guerra mondiale c’era un campo di concentramento.
Messo in piedi dagli Alleati, lì ci finirono i prigionieri della ex Repubblica Sociale Italiana, i militari tedeschi e i collaborazionisti dei nazisti. Il campo rimase attivo pochi mesi, da luglio a settembre del 1945.
Ma a noi non importavano né gli zingari, né le armi del Camp Darby, né le zanzare di Guasticce, né i miasmi della raffineria di Stagno, né il fatto che da quelle parti ci fosse stato un campo di concentramento; noi andavamo al mare, al bagno Vittoria, dove c’erano tutti i parenti e gli amici di Rosalba e poi, a mezzogiorno, mangiavamo in pineta.
A quel punto sorgevano dei seri problemi di digestione, dato che l’idea meridionale di “pranzo al sacco” con il sacco inteso come paniere e la sua frugalità non coincideva proprio.
La sera prima, infatti, mentre i miei figli, seguendo alla televisione le lotte del Wrestling, dell’Uomo Tigre e di Antonio Inoki, si rotolavano sui divani e le poltrone di Rosi, impeccabilmente rivestiti da  granfoulard fermati con gli spilli, finendo poi prigionieri degli spilli stessi, lei cucinava per il picnic del giorno successivo. Panini? Tramezzini? Non sia mai!
Dalle mani sapienti di Rosalba, cuoca pugliese (ma anche un po’ genovese, piemontese, laziale, dato che Rosalba aveva assorbito le ricette dei luoghi in cui si era spostata), uscivano piatti complicati e prelibati che di più non si può.
Così, il giorno seguente, in pineta veniva fuori dalla borsa frigo di Rosalba, novella Mary Poppins, qualcosa come un pranzo di nozze, e bisognava mangiare, anzi: non si riusciva a non mangiare, perché tutto era talmente gustoso che era impossibile resistere.  
Finiva sempre che ci ritrovavamo gonfi come mongolfiere, stravaccati su qualche panchina sotto ai pini ad aspettare le tre ore canoniche per poter tornare in acqua – con i bambini a chiedere ogni cinque minuti se era finita la digestione e se potevano tuffarsi, salvo poi fare la spola tra la pineta e il bar a comprarsi gelati e ghiaccioli - e a ripensare alla parmigiana di melanzane, al soufflè di zucchine, allo sformato di patate, al “riso, patate e cozze” (una delizia barese senza paragoni) che avevamo ingurgitato.
Don Italo tra Anna e Rosalba
In più, eravamo preoccupati del fatto che la sera, probabilmente, Giancarlo ci avrebbe propinato una bella grigliata in compagnia della numerosa schiera di fratelli, cognati, nipoti, amici, parenti più o meno acquisiti di Rosi (che in meridione usa così).
E poi Rosi invitava anche il parroco, don Italo, che però non voleva essere chiamato “don” e che per tutti noi divenne soltanto “Italo”: un prete aperto, capace di stare in mezzo alla gente con l’umiltà e la simpatia di una persona comune; uno che promuoveva sempre belle iniziative in parrocchia con altri preti eccezionali, come padre Alex Zanotelli, e che divenne, in seguito, un caro amico di famiglia.
La grandiosa, luculliana grigliata comprendeva, oltre alle salsicce fatte in casa da Rosi e alle braciole, anche della roba di agnello che, subito, non avevo ben identificato.
Però era roba buona. La mangiai. Poi, Rosalba mi chiarì ogni dubbio, e, se non fosse stato per lei, mai avrei immaginato che quella “roba” potessere diventare un cibo per umani.
Pare che, in Puglia, non si butti niente degli agnelli e dei capretti, nemmeno gli “gnemerìdde”, le interiora. Ecco cos’erano! Tagliate a striscioline e strette a gomitolo, lì, sulla griglia, Giancarlo ci arrostiva budella d’agnello; cena leggerissima, dopo il pranzo altrettanto leggerissimo in pineta.
Dal mare, ogni anno, tornavamo, ovviamente, con qualche chilo in più. 
Giancarlo in giardino
Ma mai con tanti chili come Pinuccio, il figlio di Giuditta, un’anziana maestra amica di Rosalba che saliva dal Sud, quasi ogni estate, con un carico sterminato di prodotti pugliesi. I lampascioni, per esempio, cipollotti piccoli, biancastri all’interno, spontanei nei prati, poi il pane di Altamura, la ricotta salata, lasciata seccare e ottima da grattugiare come il parmigiano, acciughe sotto sale, pomodorini secchi, capperi, caciocavallo, taralli ai semi di finocchio, orecchiette, olive verdi e mozzarelle che si scioglievano in bocca come burro.
Pinuccio, anzi “Pinone”, che come suffisso, vista la forma a uovo, andava meglio “one”, aveva una bella pancia… e te lo credo: con tutta quella bontà a portata di mano ogni giorno!
Della cucina di Rosi, uno dei piatti preferiti di mia figlia erano, però, “gli impiegati” - come li aveva battezzati lei, perché li vedeva parecchio piegati e arrotolati, - cioè le brasciole (si scrive proprio così) di cavallo alla pugliese. Si tratta di involtini di carne di cavallo con un ripieno di parmigiano, aglio, prezzemolo, capperi, forse anche origano e mortadella, in un sugo di pomodoro fresco. Con “gli impiegati”, Rosi condiva la pasta, le orecchiette o i cavatelli, che spesso faceva anche in casa.
Tornavamo a casa nostra dal mare, dunque, belli grassi e gonfi; “freschi”, diceva mia suocera che, essendo cresciuta nella miseria, non poteva vedere le persone magre e valutava come brutte tutte le modelle e le attrici televisive “con le ossa di fuori”.
Al bagno Vittoria, Tirrenia

Io, come già detto, a tavola da Rosi scoprii innanzitutto il pesce cucinato come Dio comanda, specialmente il cacciucco; con quel cibo degli dei fu amore alla prima forchettata.
Il cosmo della materia oscura fa parte del nostro cosmo; tutto ciò che percepiamo con i sensi ha un solo tipo di esistenza, ma ciò che non siamo in grado di cogliere potrebbe avere un numero infinito di realtà e forse, su qualche supercomputer, prima o poi si scoprirà la vera natura della materia oscura. Intanto, io avevo scoperto il cacciucco, e mi bastava come assaggio del paradiso.
Quando poi, davanti allo sguardo compiaciuto di Rosi, mio figlio prese il pane e ripulì anche l’ultimo residuo di cacciucco, per riprendere subito in mano la forchetta e rovistare sul fondo del piatto, lei scoppiò a ridere e strillò, con il finto cipiglio che la distingueva quando voleva sembrare infuriata (“ingufita”,  diceva mia figlia): “Mario, oh Mario! Il piatto lascialo!”
Mario la guardò sorpreso; povero bimbo: aveva confuso i disegni decorativi dei pesci sul fondo del piatto con il pesce cucinato, e stava cercando di recuperarli con la forchetta.

Era tanto buono il cacciucco di Rosalba (Rosa Maria, per l’anagrafe, Rosa per il battesimo, o forse il contrario), che spingeva a mangiare anche il piatto.

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