Maria Marzani e la sorella Gemma vicino alla fontanella di Costa de' Grassi |
Aveva il sentore amarognolo delle foglie di castagno
infilate nel fiasco a mo’ di tappo, l’acqua della Pianella, ma era fresca
fresca anche dopo mezz’ora di cammino sotto il sole. Usavamo proprio un mazzetto di foglie verdi
di castagno per impedire all’acqua di versarsi, così come – con le stesse
foglie - creavamo dei cestini in cui raccogliere le fragoline di bosco. Fiaschi impagliati o ricoperti di vimini,
dunque, uno per mano; per chi aveva mani grandi, anche due. Li portavamo così:
senza zaino, con le mani.
A cinque anni si era già capaci di andare “all’acqua”,
quella da bere.
L’altra, da usare in cucina, la trasportavano le donne, nei
secchi e con il “basle”; un peso non da poco sulle spalle e tanta tensione per
mantenere l’equilibrio. Ho sempre
pensato che se l’acqua l’avessero dovuta portare gli uomini, avrebbero tutti
comprato un asino e usato un altro tipo di recipiente. Ma c’erano le donne. Probabilmente, succedeva in ogni angolo del
pianeta. Sicuramente, in alcuni paesi è ancora così.
Dicono che le gambe delle donne siano i compassi che
misurano il mondo. A cinque anni, in
ogni modo, noi si andava alla fontana. Da soli. O in compagnia di altri bambini
più o meno della stessa età .
Domenico diceva che aveva un anno più di me, insisteva,
mentre, con i nostri fiaschi ancora vuoti, salivamo l’ultimo tratto della
carraia verso il castagneto. Lì, proprio ai bordi, sotto un argine, nascosta da
una copertura di frasche e da intrecci di vitalbe, c’era la fontana. Quella
dell’acqua buona.
Buona tutto l’anno, mica come l’acqua di Fontana morta, a
due passi dal paese, verso i calanchi della Battuta, che d’estate si
prosciugava e che poteva anche farti venire un bel mal di pancia. O quella di Rio del Monte, giù in basso -
sulla carraia che doveva essere stata l’antica via per Gombio - che sgorgava
proprio nel mezzo di una roccia; mia nonna Eva diceva che era scaturita grazie
a un miracolo di Sant’Elisabetta, ma la santa s’era un po’ troppo contenuta,
avrebbe potuto impegnarsi di più: era acqua pesante, dura da digerire.
D’altra parte, a Sant’Elisabetta - che, dicevano, era
apparsa ad un contadino su una quercia in un campo denominato “la maestà” e che
aveva salvato dalla tempesta il grano maturo - avevano dedicato solo una sagra
la prima domenica di luglio e l’oratorio di Soraggio; un semplice oratorio,
mica una grande chiesa.
L’acqua della Pianella era pertanto la più buona. Perlomeno,
mio nonno Carlo ne era convinto, tanto che, quando arrivò l’acquedotto della
Gabellina, per molto tempo in casa dovemmo continuare ad usare l’acqua della
fontana anche per cucinare, perché lui ripeteva che il brodo e il minestrone
diventavano acidi con “quella del rubinetto”.
E dopo aver pazientato e trafficato un po’ col cucchiaio, si
alzava da tavola col piatto in mano, in silenzio, poveretto, per andarne a
gettare il contenuto nella “zsotta” del maiale.
Non aveva tutti i torti: ricordo i fagioli che non cuocevano, non si
sfacevano e le verdure che ballonzolavano intere bollendo in quell’acqua “del
rubinetto”; non si amalgamavano più rapidamente come prima, fondendosi nel buon
minestrone a cui ero abituata. E il brodo di carne sapeva di agro.
Cambiarono per sempre i sapori della cucina col cambiare
dell’acqua. Forse cambiò anche il sapore del pane.
Di berla, poi, non se ne parlava neanche; arrivò tardi, la
Gabellina, ero già grandicella, ma ancora per parecchio tempo la usammo solo
per lavare e lavarci, oltre che per abbeverare il bestiame. Comunque, quel giorno d’estate avevo cinque
anni e Domenico ne aveva già compiuti sei, perché era nato a gennaio, e
discutemmo per tutto il tragitto verso la Pianella su chi sarebbe andato a
scuola per primo.
Ci andammo insieme, invece, l’ottobre seguente, e avevo
ragione io: avevamo la stessa età.
Lui, però, era più alto, più forte. Portava due fiaschi per
mano. E lavorava già nella stalla.
Domenico lavorava ed era il bambino perfetto che mia madre mi portava
sempre come esempio quando mi rifiutavo di dare una mano in casa, quello che...
“Lui sì che è un bravo bambino, mica te che non hai voglia di fare niente...” .
Anche a scuola era bravissimo, soprattutto in matematica. E aveva dieci in
condotta.
Domenico raccoglieva sempre sacchi e sacchi di castagne nel
castagneto dei Valeti, mentre io tribolavo a tirarne su qualche “sacchella”. Ci
andavamo di pomeriggio, così, per riposarci, dopo esserci macinati i nostri sei
chilometri di andata e ritorno da scuola e ci andavamo pure da soli, se i
genitori o i nonni erano impegnati in altre faccende.
Poi le vendevamo, con quelle degli adulti, a uno dei
fratelli Bertoni, di Leguigno (Augusto o Pucio), che giravano con un furgoncino
per i paesi a comprarle, e c’era Flavio Rossi, di qualche anno più grande di
me, che scendeva dal cassone dietro e aiutava a caricare. Erano tante, allora, le cose che i bambini
dovevano fare “per riposarsi”: tirare su i sassi mentre gli adulti zappavano,
per esempio: “Cosa fai lì seduto? Va’ a tirare su i sassi e portali nella
“masera”, mentre ti riposi, va’ là!” O rompere le noci per la torta, o sgranare
i fagioli, o togliere il filo ai fagiolini verdi, o spezzare gli stecchi per
accendere la stufa, o mondare le bietole per lo scarpasùn, o sbattere la panna
per fare il burro, o raspare il fango dai “carrarmati” delle scarpe (di tutta
la famiglia) con uno stecco. Odiavo pulire le scarpe.
Oppure stare a badare al latte, la mattina e la sera, in
modo che, bollendo, non “andasse sopra”, spandendosi sulla stufa e impregnando
tutta la cucina di quel tremendo odore di grasso bruciato. Che poi ci voleva la carta vetrata e tanto
unto di gomito per strofinare il piano di ghisa. Anche far bollire il caffè d’orzo – e
“Olandese” e “Malto Knapp”, incredibile miscuglio che dava una bevanda
deliziosa! - era “tanto per riposarsi”: si rimaneva lì con un cucchiaio, sulla
vampa della stufa, paonazzi e sudati, a rimestare la schiuma densa che si
formava in alto, evitando, così, che tracimasse.
Oppure, “tanto per riposarsi”, ma solo per le bambine: ago e
filo, aghi e lana, uncinetto e filo. I miei primi lavori a maglia, con la lana
riciclata dei vecchi maglioni disfatti, cominciavano come sciarpe, ma
diventavano sempre stranissime strisce spiroidali strette al centro... e i
centrini all’uncinetto mi si convertivano inevitabilmente in bizzarri
cappellini.
Invece, Natalia Zorra, una bambina più grande, bionda e con
gli occhi azzurri, riusciva a fare dei quadretti multicolori all’uncinetto che
poi, uniti insieme, diventavano coperte. Come la invidiavo. Fu proprio l’epoca delle coperte composte di
quadretti all’uncinetto, allora; le vedevi dappertutto, le piazzavano ovunque,
nelle case. Ma io non sono mai riuscita a terminarne una. L’importante tuttavia, per mia nonna Eva, era
che una bambina non si sedesse mai con le mani in mano.
Anche andare “all’acqua” era esercizio “tanto per
riposarsi”. Genitori e nonni a lavorare
nei campi, i bambini pure, col rastrello, che era il primo attrezzo che ti
facevano usare (e guai se lasciavi uno “stugo” sul campo!) e poi, quando
l’acqua era finita, ti mandavano alla fontana.
E tu prendevi su i due fiaschi e partivi per la Pianella. La
provinciale per Gombio, allora, non era asfaltata, però era ben inghiaiata,
quindi era già un lusso rispetto alle carraie, con l’unico problema che non
potevi correre perché sulla ghiaia cadere era un attimo ed era pure piuttosto
doloroso. Per strada non s’incontravano
automobili; ce n’erano ancora pochissime in giro. Soltanto Brenno, a Gombio,
aveva una Topolino. E poi c’era Lillo, il “servizio pubblico”. C’era il dottor Boccazzi, che a Gombio veniva
da Felina forse una volta la settimana e che, mi ricordo, si fermava sempre a
salutarci quando ci vedeva con i fiaschi.
Ad un certo punto, si lasciava la strada e ci s’incamminava per il
vecchio percorso che si diramava poi in due vie per i boschi: a sinistra per la
capanna di Peppo e, proseguendo, per il Mulinello e poi, ancora su, per Costa
Modolana e Beleo; a destra per la fontana della Pianella e, proseguendo, per la
Piagna, Tracosta e Predolo.
Castagneti inframmezzati da radure di pioppi biancastri che
mio nonno chiamava “albarell”, qualche ciliegio selvatico, alti alberi di sorbo
dai frutti a grappoli rossi e tanti salici lungo il fosso; poi maggiociondoli
fioriti di giallo in primavera e qualche robinia; siepi di rovi che si
riempivano di more durante l’estate e fragoline selvatiche che sapevamo
benissimo dove scovare. E bisce: nere,
lunghe, a volte distese sul sentiero, da un capo all’altro; a volte sguscianti
via sull’argine, a volte avvolte a spirale, con il capo eretto, proprio lì
vicino alla fontana. Sapevamo che non
erano velenose, ma i racconti delle loro cattive abitudini - frustare con la
coda le persone o andare a succhiare il latte alle mucche - ci intimorivano un
po’. E poi, a volte, erano davvero enormi.
E noi solo bambini.
Imparavamo che bisognava lasciarle scappare, poi si
continuava fino alla fontana. Vipere, vicino all’acqua, non ne ho mai viste.
Veramente, di vipere ne avrò viste tre o quattro in tutta la
mia vita e sono sempre scappata io, perché davvero la vipera sta ferma lì e
pare non accorgersi di te. Vicino alla
fontana c’erano, invece, dei piccoli roditori - che noi chiamavamo “ghiri”, ma
che, probabilmente, erano altro, forse moscardini - i quali fabbricavano dei
bellissimi nidi di paglia bianchi, appesi alle canne all’intorno.
E dentro la fontana c’erano le sanguisughe. Nere, mollicce,
scivolose che lentamente si spostavano sul fondo.
Si appiccicavano al fiasco, e pure alle mani, quando le
staccavi e le ributtavi nell’acqua.
L’acqua fluiva freddissima e abbondante da una fessura nel terreno e si
raccoglieva in una piccola fossa da cui poi usciva, rovesciandosi in un
canaletto che portava ai “laghi” più in basso e, infine, nel fosso.
I “laghi” erano due grandi pozze circondate, su due lati, da
larghe pietre piane: le pietre su cui s’inginocchiavano le donne per sciacquare
la biancheria e su cui si battevano le lenzuola. Anche lì dentro c’erano le sanguisughe, e poi
i tritoni, bellissimi, con le loro creste rosse e gialle, e le lumachine attaccate
al fondo e alle pareti.
Le rane ormeggiavano i loro sacchi gelatinosi di uova alle
piante vicino alla riva, ed era bellissimo quando i girini cominciavano a
guizzare intorno come lacrime d’inchiostro.
L’effluvio intenso del mentastro acquatico avvolgeva tutto e i grandi
fiori del vilucchione si arrampicavano intorno creando candidi bagliori.
E le donne in ginocchio, le mani nell’acqua. I capelli
raccolti dai foulard legati ben stretti sulla nuca o sotto la gola e le maniche
perpetuamente rimboccate fino ai gomiti.
Quanta fatica, le donne! Ricordo nitidamente mia madre che, a casa,
agguantava con una mano il secchio con la biancheria già lavata e da
sciacquare, si caricava in spalla il “basle” con gli altri due secchi (che
avrebbe poi riempito d’acqua buona) e poi via, verso la Pianella. E noi a
trotterellarle dietro.
I panni bagnati sono pesanti, anche se strizzati e sbattuti
sulle piagne. Pure l’acqua è pesante. Ma tutto si spostava sulle spalle delle
donne.
E ricordo che d’inverno, a sciacquare, mia madre andava in
un’altra fossa più vicina - perché d’inverno l’acqua era un po’ dappertutto - e
rompeva il ghiaccio con le mani per poterci tuffar dentro la biancheria. Le sue
mani erano sempre livide e piene di tagli, poveretta. Fosse e laghetti, pozzi, fontane d’acqua più
o meno potabile erano disseminati un po’ ovunque, un tempo. Era come se ci si
affannasse ad imprigionare tutta l’acqua possibile. Quella piovana scendeva dalle grondaie nei
larghi mastelli d’alluminio che venivano utilizzati anche per il bucato e...
per il bagno settimanale. Sì, perché gli altri giorni ci si lavava “a pezzi”.
Soltanto al sabato ci si permetteva di sprecare tutta quell’acqua.
Sulla stufa economica, tutta contornata dagli asciugamani
che si scaldavano, grandi pentoloni fumanti riempivano di vapore la cucina e,
magicamente, dalle mani della mamma comparivano le saponette: quella verde, la
Palmolive, e quella rosa, la Camay. Ma prima del loro arrivo, era il sapone di
Marsiglia, col suo odore pungente, lo strumento dell’igiene settimanale. Il caldo in cucina era soffocante; mia mamma
mi infilava nel mastello, mi strofinava con cura senza trascurare i capelli,
poi mi metteva in piedi, prendeva un catino e, con cautela, in modo da non versarne
in terra nemmeno una goccia, cominciava a sciacquarmi con acqua pulita. Tutta
portata in casa sulle sue spalle. Infine mi avvolgeva negli asciugamani e mi
prendeva su di peso, portandomi sulla panca di legno.
Cominciava, in quel momento, il rito del borotalco: una
spolverata profumata da capo a piedi che ti rendeva la pelle asciutta e setosa.
Dopo toccava ai miei capelli, e lì era sofferenza vera. In mancanza di fono, dopo averli ben
districati e parzialmente asciugati vicino alla stufa, mia mamma me li legava
in due treccione strettissime, così che, spesso, mi venivano dei feroci mal di
testa, ma non si poteva protestare, perché non ti credevano... I capelli si
asciugavano pian piano, forse in qualche giorno.
Intanto, nell’acqua dove mi ero lavata, o ci si lavava
qualcun altro (inutile inorridire, lo facevano tutti!), o ci si lavava
qualcos’altro. In ogni caso, di sicuro non veniva gettata. Era la fatica a
renderla preziosa. Tutta la fatica per portarla fino a casa.
Era preziosa l’acqua ed era pericolosa. Tutti quei fossi,
rogge, laghi, stagni erano senza recinzione; si recintavano gli orti, per
proteggere le verdure; si recintavano, in alta montagna, i campi per proteggere
il foraggio dalle greggi; ma non si recintavano le buche piene d’acqua per
proteggere i bambini. I bambini dovevano proteggersi da soli.
E mio fratello, nella fossa dietro a casa, ci finì dentro
che ancora aveva il ciucio in bocca, e io ero lì di fianco a lui e gridavo,
gridavo mentre lo vedevo scomparire sott’acqua. Arrivarono mia mamma e mia zia
e lo tirarono su. Ricordo soltanto lui disteso sulla panca vicino alla stufa
che sembrava morto, ma poi no, respirava, e poi il suo ciucio che galleggiava
in mezzo alla fossa. Gli andò bene. La
mia amica Adele, invece, fu meno fortunata. Era stata in classe con me nei
primi anni delle elementari. In seguito, la sua famiglia – mezzadri poverissimi
– si era trasferita a Salvarano di Quattro Castella.
Lo lessi sul giornale quand’avevo 16 anni e conservo ancora
l’articolo: “Tragedia a Salvarano di Quattro Castella – Fratello e sorella
annegano in un lago – La raccapricciante scoperta fatta da un passante – Forse
la ragazza è morta nel tentativo di salvare il congiunto colto da malore – Viva
commozione nella zona.”
Marco aveva 10 anni, Adele 16, come me. Nessun testimone
della sciagura. Soltanto un vicino di casa, Romano Fontanili, aveva udito grida
di aiuto, ma era arrivati troppo tardi.
Adele era stata la mia compagna di banco e avevo pianto tantissimo,
anche se di nascosto, quando l’avevo vista - bionda, triste, minuta - fare San Martino
insieme ai suoi aggrappata, in un angolo, al carico delle loro povere
masserizie.
Era l’unica bambina di Soraggio della mia età.
Da quando era partita, non l’avevo mai più rivista.
Nessun commento:
Posta un commento