PAOLO LAMBRUSCHI
Alla vigilia del viaggio di Mario Monti in Libia, è urgente
porre alle nuove autorità di Tripoli la questione dei richiedenti asilo
subsahariani giunti in Italia nel 2011 a seguito della primavera nordafricana.
Sono meno della metà di tutti quelli sbarcati. La Camera, con il voto
dell'altro giorno, ha già impegnato il governo a chiedere ai libici il rispetto
dei diritti umani di profughi e migranti, evitando il ricorso ai respingimenti
in mare. Ora le organizzazioni umanitarie mettono sul tappeto il tema della
particolare condizione di questi profughi che, se non verrà risolta, potrebbe
provocare situazioni drammatiche e avere pesanti ricadute sociali sui nostri territori.
Senza contare che si commetterebbe una colossale ingiustizia. Proviamo a
riassumere. Secondo il Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, sono in tutto
circa 62mila i profughi provenienti dal Nordafrica. La cifra include i tunisini
sbarcati prima del 6 aprile. Ma sono invece 28 mila i subsahariani giunti dalla
Libia, quelli che il colonnello Gheddafi utilizzò come «bombe umane» per
rispondere agli ordigni lanciati dalla Nato. Persone che magari da 10-15 anni
risiedevano e lavoravano, spesso in nero, in un Paese ricco di petrolio che,
con neanche cinque milioni di abitanti, aveva bisogno di importare manodopera.
Il rais li fece imbarcare a forza dai suoi miliziani su sgangherate carrette
del mare puntando per ritorsione il timone su Lampedusa e le coste siciliane.
Morirono in mare circa 2.200 persone, per quel che ne sappiamo. I
sopravvissuti, una volta giunti in Italia perlopiù contro la loro volontà e
dopo aver perso quel poco che avevano guadagnato, non volevano rimpatriare né
potevano tornare nella Libia in guerra.
Allora hanno presentato domanda d'asilo e oltre 22mila sono ospitati nei centri di accoglienza della Protezione Civile, suddivisi nelle regioni e gestiti anche da realtà diocesane. Ma il 70% delle richieste d'asilo ha buone probabilità di venire respinto. Molti di loro non hanno infatti i requisiti richiesti in quanto Cittadini di Paesi terzi e presto dovranno lasciare i centri. Quando la commissione respinge la richiesta, viene infatti fissato il ricorso dopo mesi. Per dare un'idea, a coloro che hanno ricevuto il diniego a dicembre è stata data una seconda chance a giugno. Fino ad allora resteranno nei centri di accoglienza senza poter lavorare per legge, in una situazione di assistenzialismo. Dopo il secondo diniego, dovranno lasciare il Belpaese.
Facile intuire che finiranno in strada entro l'autunno
tra le file degli irregolari. Ma c'è una proposta per provare a uscire da
questa situazione complicata. Da tempo le organizzazioni chiedono al governo di
concedere con decreto un permesso temporaneo di sei mesi per motivi umanitari a
questi profughi. In questo periodo il richiedente asilo dovrebbe decidere tra
rimpatrio volontario, proseguimento del percorso di integrazione - se l'iter
dell'asilo lo consente e non ha ricevuto il diniego - oppure, ecco la novità,
ritorno volontario assistito in Libia. Per favorire la ricollocazione dei
lavoratori subsahariani occorre, però, che le autorità italiane chiedano la
collaborazione del nuovo governo di Tripoli, al quale potrebbe interessare il
ritorno di manodopera per far ripartire l'economia. C'è un'ulteriore opportunità:
finito il conflitto sono tornate in Libia alcune Ong occidentali e ha riaperto
l'ufficio dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati. Come si finanzia il
ritorno? Utilizzando i fondi stanziati per i centri, ad esempio, dato che ogni
richiedente asilo nei centri costa al contribuente 40 euro al giorno. Magari
con il denaro risparmiato evitando inutili ricorsi giudiziari a chi ha ricevuto
il diniego. Sono soldi investiti nella dignità di una persona, certo, perché i
migranti non sono numeri, come ricordava domenica scorsa il Papa. Perciò non
sprechiamoli, ma proviamo a impiegarli per creare futuro e speranza.Allora hanno presentato domanda d'asilo e oltre 22mila sono ospitati nei centri di accoglienza della Protezione Civile, suddivisi nelle regioni e gestiti anche da realtà diocesane. Ma il 70% delle richieste d'asilo ha buone probabilità di venire respinto. Molti di loro non hanno infatti i requisiti richiesti in quanto Cittadini di Paesi terzi e presto dovranno lasciare i centri. Quando la commissione respinge la richiesta, viene infatti fissato il ricorso dopo mesi. Per dare un'idea, a coloro che hanno ricevuto il diniego a dicembre è stata data una seconda chance a giugno. Fino ad allora resteranno nei centri di accoglienza senza poter lavorare per legge, in una situazione di assistenzialismo. Dopo il secondo diniego, dovranno lasciare il Belpaese.
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