martedì 10 gennaio 2012

Saggio inserito nel testo universitario "Fuori dal silenzio - Volti e pensieri dei figli dell'immigrazione" Clueb ed.



Figli di badanti e di un impero che non c’è più

di Normanna Albertini

Mi scopro ignorante geograficamente. Dov’è posizionata l’Ucraina? E dov’è la Moldova? La Georgia? La Bielorussia? Che cos’è la Trasdnestria? Parlano tutti russo? L. è fieramente ucraina e siirrigidisce quando le chiedo della lingua russa. I russi sono stati glioccupanti. I russi sono sinonimo di prepotenza, di mancanza di libertà. S. mi confida che il padre, prete ortodosso, dopo le confessioni, vedeva ogni volta sopraggiungere la polizia sovietica che lo interrogava, in barba al segreto del confessionale. La sfiducia nei confronti di tutto ciò che è russo è piuttosto chiara in L. . I suoi occhi verdi si rabbuiano al solo pensiero. È molto bella, bionda, corpo da fotomodella; eppure è timida, riservata, educata, e parla sempre a bassa voce.

L., appena è in grado di comunicare – succede presto, dopo solo poche settimane: è sveglia e imparavelocemente – mi dice che è venuta in Italia col fratello per raggiungere la madre, la quale vive con un italiano e lavora come domestica. E il padre? Li ha abbandonati anni prima, se n’è andato in Inghilterra in cerca diun’occupazione; là ha trovato un’altra e si è “dimenticato” di loro. Così è toccato alla madre partire. Disgraziatamente, è una vicenda che avrò modo di ascoltare troppo spesso. Le chiedo quali sono i suoi problemi più grandi. Mi risponde che è l’isolamento, il non avere amici con cui uscire, parlare, divertirsi. «Come, non hai legato con i ragazzi italiani?» le chiedo. Mi spiega che si sente scansata, guardata con diffidenza, addirittura è oggetto di frasi a sfondo razzista. «Tu? Ma sei bionda, sei uguale a tante ragazze italiane!».«Sì, ma io straniera…– risponde lei - loro cattivi con me». Le chiedo se è cattolica o ortodossa. Dice di essere cattolica e di essere sempre andata amessa in Ucraina. «E ora? Ci vai? Conosci il prete del paese dove vivi? Frequentare l’ambiente parrocchiale potrebbe aiutarti a trovare degli amici».Afferma di no, che non ha mai visto il prete e che nessuno l’ha mai invitataper alcuna iniziativa. E dice anche che non va in chiesa, perché la madre è convivente e, come cattolica, si sente a disagio. L. è poi indignata e sconcertata dall’atteggiamento di alcuni compagni di classe; mi dice che in Ucraina mai e poi mai ci si potrebbe permettere tanta mancanza di rispetto neiconfronti dei professori. Le dispiace, soprattutto, per l’insegnante di scienze della terra, che le appare timido, buono e molto capace, ma inerme in certi contesti di effettiva maleducazione. Impensabili, in Ucraina. Ho imparato, coltempo, che per un’ucraina, una russa o una moldava, l’insegnante è una persona importante, da tenere in considerazione, una figura che non può mostrarsi amichevole con gli studenti, perché non otterrebbe dei buoni risultati. Per L. è proprio ciò la causa della mancanza di autorevolezza e la rovina della disciplina. La sensazione che ci sia grande distanza nei metodi pedagogici e didattici dei nostri sistemi scolastici è forte.

La prima impressione è che manchi, nelle studentesse provenienti dall’area sovietica, l’abitudine e l’attitudine al dialogo, alla discussione, al confronto, alla riflessione critica. Diventa complicato far capire che se si fa un gioco di ruolo, o se si stimola un confronto su un argomento, non si perde tempo, ma si fa esercizio di comunicazione verbale. Ti guardano male, poi ti chiedono: «Adesso lavoriamo?». Mi spiegano che nel tipo di istruzione di provenienza prevale l’apprendimento mnemonico, sia in campo umanistico (letteratura, storia), sia in campo scientifico. Questo fa a pugni con i nostri metodi didattici e la difficoltà è doppia, perché riguarda sia il docente, sia lo studente. N., una badante cinquantenne con discreta padronanza dell’italiano, laureata in Ucraina, che sta frequentando un corso serale di una scuola professionale, viene da me disperata perché non è abituata ai collegamenti interdisciplinari dei contenuti, non sa manifestare, quando richiesto, un pensiero suo su unargomento, si sente bloccata e incapace: «La vostra scuola è troppo diversa, io non ci riesco…», mi confida. A., che era insegnante a Leopoli, vuole assolutamente convincermi che noi sbagliamo a inserire i ragazzi diversamente abili nelle scuole “normali”. Nel suo paese gli handicappati vengono accolti in scuole separate; si accalora e insiste nel ribadire che noi italiani commettiamo un grave errore, che così non può funzionare. Rifletto su quanto la“visibilità” e “normalità” dell’handicap possa creare disagio a queste personee chiedo informazioni direttamente alle badanti. Apprendo che non sono assolutamente abituate, quando arrivano da noi, ad avere rapporti con minorati fisici, sensoriali e mentali, né in ambito scolastico né al di fuori. Ho come un flashback: anch’io, da bambina, non avevo mai visto una persona con handicap e rimasi veramente sconvolta dall’incontro, al mio paese, con un ragazzo down che solo in rare occasioni rientrava in famiglia. Fu vera paura. Purtroppo, le persone che arrivano dall’ex Urss sembrano non essere avvezze nemmeno al contatto con gli altri stranieri, soprattutto se di colore; gli unici neri che hanno visto, mi dicono, erano quelli dei paesi africani a regime socialista o comunista che andavano a studiare nelle loro università. Qui, la loro prima reazione è di evitarli o ignorarli. Diverse volte, con gli adulti, mi sono trovata nella situazione di dover intervenire per prevenire, scongiurare o aggiustare veri e propri imbarazzanti episodi di razzismo. Che non è una prerogativa degli italiani e nemmeno dei ragazzini dell’istituto frequentato dalle mie studentesse, le quali, intanto, mese dopo mese, cominciano a capire dove si trovano e imparano,lentamente, ad ambientarsi, a scuola, in paese, con la propria madre.

Le donne provenienti dall’ex blocco sovietico, così numerose sul nostro territorio, dove si occupano degli anziani,cominciano a portare anche i figli, mentre in passato si limitavano a lasciarli in patria, alle cure di qualche sorella o delle nonne. Se, di primo acchito, per similarità di aspetto fisico, le sentiamo più vicine a noi rispetto alle nordafricane, conoscendole meglio avvertiamo una grande distanza culturale oanche solo della visione della vita. Yaroslava è di Ternopil, è laureata in letteratura russa e straniera e in psicologia. Su un periodico della montagna reggiana, “Tuttomontagna”, scrive, a proposito del rapporto col figlio lontano:



Siamo venute in Italia pensando di rimanere qui per un periodo breve, ma gli anni passano e noi viviamo come trattenendo il respiro. Andiamo avanti con la speranza di tornare il prima possibile a casa dove crescono (o sono già cresciuti senza di noi) inostri figli. Per loro, per il loro futuro, paghiamo gli studi, costruiamo delle case. Sì, senz’altro sarebbe premura più preziosa ed efficace esser loro accanto. Ma a volte penso (forse per rassicurarmi) che spesso, pur vivendo sotto lo stesso tetto, non sappiamo aiutare i nostri ragazzi, non riusciamo a risolvere i loro problemi, e perfino non arriviamo a conoscerli bene. E loro, essendo gentili, educati, ben curati da noi, tacciono le loro difficoltà, non chiedono il nostro consiglio, non aprono la loro anima davanti a noi genitori. Siamo loro accanto e, nello stesso tempo, siamo assenti. Non ci accorgiamo quando perdiamo quel legame di profondità che si rivela nella sincerità e apertura vera. I nostri figli, lasciati con papà, nonni, zii, sono perciò comequelli che hanno la mamma accanto: alcuni bendisposti e altri problematici. M asi nota una cosa: chi ha la mamma lontana matura prima. Parliamo per telefono(in Ucraina Ovest alcune famiglie mantengono la tradizione del “lei” tra figli e genitori), ci preoccupiamo non vedendo dove sono e cosa fanno. Ti si spezza il cuore quando ricevi un sms come questo: “Mamma, non riesco a dormire, è come se mi fosse piovuto addosso tutto il suo affetto e io sono nell’inquietudine. Mamma, va tutto bene? Sta bene, lei? Non so perché, verso lacrime, la amo tanto tanto! Abbia cura di sé. Torni a casa al più presto. Non andremo in malora senza quei soldi”. Andrea, 25 anni, un figlio stupendo. Tu chiami e parli non per insegnargli, e gli riveli non solo amore, ma il tuo rispetto.



Sì, in genere i figli restano al loro paese, ma le donne che si riformano una famiglia in Italia tendono a chiedere il ricongiungimento familiare, portando qui i ragazzi. Ci sono poi intere famiglie, ormai, che si spostano: padre, madre e figli, soprattutto dalla Romania e dalla Moldova. Immaginavo in queste donne, in genere molto colte, cresciute in un regime in cui, in teoria, tutti dovevano essere uguali, una grande apertura e disponibilità verso l’altro. Immaginavo anche un forte orgoglio di genere, la consapevolezza di essere alla pari con gli uomini, la coscienza chiara dei diritti rispetto alle fantasie di dominio o sfruttamento di qualsiasi cultura o persona. Pregiudizi alla rovescia i miei. In realtà, queste donne, e quindi anche i loro figli, hanno alle spalle storie di vita davvero complicate e faticose. E hanno avuto al loro fianco uomini che scontano il trauma del crollo di un mondo e della mancata ricostruzione di un altro. Uomini che paiono aver perso la loro identità. Uomini feriti nell’orgoglio perché disoccupati e incapaci di essere dei capifamiglia affidabili. Uomini caduti spesso in depressione, quasi chiusi in uno stato di torpore che li rende incapaci di reagire.

Quando A., studente moldavo che seguo attualmente, si accalora, nel suo buffo miscuglio di romeno e italiano, per convincermi che bere una bottiglia di cognac (a testa) durante un pranzo moldavo non è sintomo di alcolismo, e che i moldavi non si ubriacano, e che l’alcool moldavo non fa male, e che è normale pasteggiare a superalcolici, provo a ribattere spiegandogli che la vita media nei loro paesi è bassissima anche a causa dell’alcolismo, che forse nella loro cultura, come poi in tutte, c’è qualcosa che non va. Lui ride e mi invita a una festa moldava, di quelle che durano da mezzogiorno alla mattina dopo. Sussurra: «Ho tanta voglia di mia bella Moldova! Bella, bella,anche Italia è bella, ma, mia Moldova…». È un ragazzo educato, chiacchierone, che, dopo un iniziale momento di disorientamento nel trovarsi in classe conragazze musulmane col velo, stabilisce subito legami di amicizia con tutti.Sembra avere una famiglia unita e un ottimo rapporto con ambedue i genitori. Dice che sono venuti qui per lavorare, vogliono risparmiare un gruzzoletto per poi tornare in Moldova. Dice che gli uomini moldavi, anche se laureati, sanno adattarsi a tutto, non come gli italiani: infatti il padre sa fare l’idraulico, il muratore, il meccanico, il falegname; dice che i moldavi sono così perché hanno voglia di lavorare, che anche lui è così, che i ragazzi moldavi si abituano ad aiutare in casa e fuori casa fin da piccoli. Provo a parlare di questa cosa dell’alcolismo tra gli uomini dell’ex Urss con le badanti, ma non ottengo grandi informazioni: sì, bevono, ma bevono anche gli italiani… Forse è un altro nostro pregiudizio? Non secondo RojAleksandrovic Medvedev [1],che affronta il tema in La Russia post-sovietica. Un viaggio nell'era Eltsin.Secondo lo storico georgiano, dopo la messa al bando degli alcolici da parte diGorbacèëv, seguì una vera e propria inondazione di vodka dovuta alla politica di Elstin BorisNikolaevic, che rese il liquore incredibilmente economico.Nel 1992-93 il potere d’acquisto del salario medio si ridusse quasi della metà,ma riguardo alla vodka triplicò.In quegli anni precipitò l’aspettativa media di vita per gli uomini, tanto daraggiungere in breve uno dei limiti più bassi (56 anni) mai censiti nei paesi dell'ex-blocco, neanche durante gli anni delle purghe staliniane. Dice Medvedev che gli uomininon sono riusciti ad adattarsi al cambiamento anche perché, catapultati nel mondo del “mercato”, hanno scoperto che qualità come l’affidabilità, l’onestà ela professionalità non sono solo poco valutate, ma costituiscono un vero eproprio ostacolo verso il successo. Si sono trovati a dover dipendere economicamente dalle mogli e la vodka è diventata un buon palliativo per lenire l’angoscia.

Anche il padre di L., da come lei ne parla, pur nonaccennando a problemi con l’alcool, pare rientrare nelle descrizioni di RojMedvedev. Eppure la ragazza si mostra serena, determinata a cogliere al megliole occasioni che la scuola e la vita le offriranno, per costruirsi un futuronuovo, sorprendente, consapevole, che possa rendere suo padre fiero di lei.

L. continua gli studi senza intoppi; in genere tutte le ragazze straniere paiono mostrare una serietà e un impegno maggiore rispetto ai coetanei maschi.

A., infatti, in quarta superiore viene fermato ecostretto a ripetere l’anno. Ancora troppe le incertezze in lingua italiana, ancora trascurato lo studio di discipline come storia, da lui considerate marginali. È bravissimo in matematica e convinto che questo basti. Mi arrivano,i ntanto, altri ragazzi, come C., diciassettenne moldavo. Conosco la madre che ha già frequentato il corso di italiano, poi quello per la licenza media e,infine, un corso da operatore socio sanitario. Tutto in cinque anni, mentre lavorava come badante. “Voglio pensare un po’ a me, ora,” mi aveva confidato, “a me e ai miei figli. Voglio ricominciare da capo, rifarmi una vita.” Diverse volte l’avevo vista rabbuiata, triste, tuttavia essere oggetto di confidenze da parte delle donne dell’Est è raro, soprattutto quando queste riguardano le difficoltà personali o familiari. Sono educate a non parlarne, a farsi carico da sole deil oro problemi, perché tanto ognuno ha i suoi e “…che vuoi che importi agli altri se io sto male?” Una sera, però, usciti da scuola, Ca. mi aveva fermato e mi aveva detto: “Voglio far venire qui i miei figli, non ne posso più di saperli lontani. Sapessi cosa mi ha combinato il più piccolo!” Poi mi aveva chiesto alcuni consigli su quale istituto superiore scegliere per i figli e informazioni su come funzionano le scuole qui in Italia. Qualche settimana dopo, di nuovo mi aveva fermata: “Sai cos’è successo? Io ho mandato i soldi a casa per far venire il più grande e invece… Lui è partito, è passato dalla Grecia, dove vive suo padre con l’attuale compagna, e si è fermato lì… Tutti i miei soldi persi e non avrò mio figlio.” Che forza, Ca. . Lei, che si era sposata a diciassette anni, abbandonando gli studi di violino, lei che aveva avuto subito due bambini e che era stata quasi subito lasciata dal marito emigrato in cerca di lavoro. Non era più tornato, il marito; aveva incontrato un’altra e si era fermato in Grecia. Sola, due figli, un lavoro che non le permetteva di campare, un appartamento minuscolo a Chisinau con la cucina e il bagno condiviso con altre famiglie, si era trovata ad affrontare pure la morte improvvisa del padre. Allora aveva deciso. Un bel giorno aveva preso i suoi ragazzi, li aveva portati dalla madre poi, senza dire niente, aveva varcato la frontiera. E così, di frontiera in frontiera, aiutata, a pagamento, come tuttii clandestini, dai trafficanti di emigranti, era arrivata in Italia. Poi aveva avvertito i suoi. Difficile immaginare l’impatto del trauma sui figli. Invece. Quando, alla fine,riesce a farsi raggiungere da C. in Italia e me lo porta al corso d’italiano, mi trovo davanti un ragazzino minutissimo, scuro scuro, pieno di brufoli e con un gran sorriso. Non manifesta nessuna angoscia, nessuna problematica. È tranquillo, rispettoso. Siamo in febbraio ed è già iniziato,parallelo al mio, il corso per l’esame di licenzia media. Ca. mi chiede se, a mio parere, aiutato anche da lei a casa, C. potrebbe farcela, perché vorrebbe che ottenesse al più presto il diploma. Le suggerisco di provare. Così il ragazzo frequenta il corso d’italiano con me ogni mercoledì e giovedì e il corso per la terza media ogni lunedì e venerdì. È intelligente, pronto. Impara velocemente e in poche settimane parla e scrive già in un buon italiano.Continua a stupirmi la sua serenità. Un giorno, davanti ad una persona che si era presentata ai corsi per iscriversi, ma che pareva interessata più a verificare la possibilità di trovare un lavoro attraverso i presenti,insegnante compresa, che a studiare l’italiano, C. commenta: “Eh, bisogna stare attenti. Quando si vive da soli per tanti anni, si impara a non fidarsi,si impara a stare attenti.” “Abitavi da solo, in Moldova, non con tua nonna?”“Sì, da solo, e mi facevo tutto da solo.” Provo ad immaginare un ragazzino italiano di quindici/sedici anni che deve vivere in completa autonomia; eppure, di storie come quella di Cornel è pieno il mondo dei migranti. Ciò nonostante mantengono, questi ragazzi, la capacità di relazionarsi e una visione positivae costruttiva della vita. All’interno del corso, C. fa amicizia con un ragazzino brasiliano che abita a pochi chilometri da lui. Più tardi legherà con un polacco, un indiano, un cubano e, insieme, trascorreranno i momenti disvago. Quando chiedo a questi ragazzi perché non frequentano i coetanei italiani, mi rispondono che non vogliono, perché questi bevono, fumano “canne”e a loro non va di comportarsi così. Sarebbe da stupidi. C. ha ben presente le devastazioni prodotte daalcol e droga nel suo paese e non ha nessuna intenzione di essere così poco furbo da cadere in simili logiche autodistruttive. Ca., nel frattempo, si è sposata con un italiano, il figlio della signora che accudiva, e ora ha una casa, una famiglia, persino l’orto e le galline. C. dice di trovarsi benissimo nel “suo” paesino sperduto sui monti, di sentirsi come a casa. Supera senza problemi l’esame a soli tre mesi dal suo arrivo e ottiene il diploma di terza media. Poi si iscrive alle superiori. Sceglie un istituto professionale: ha un’età che non gli permette di perdere altro tempo; deve cercare di ottenere una qualifica che gli consenta di entrare al più presto nel mondo del lavoro. Opta per meccatronica. Avesse avuto più tempo e mezzi finanziari, con le sue capacità avrebbe potuto affrontare un buon istituto tecnico e poi l’università. Anche per lui, lo scoglio sono le materie umanistiche, storia in primo luogo. Non è abituato a tanto studio in storia e letteratura e, come A., mette al primo posto la matematica e le discipline scientifiche. Viene infatti rimandato a settembre initaliano e storia. Durante l’estate sceglie di studiare per ottenere la patente e di andare a lavorare presso un artigiano. A settembre lo bocciano, così, adiciotto anni, si ritrova in prima superiore. Però ha la patente e non pare per niente avvilito; in effetti, nella vita ha incassato ben altre sconfitte. Superate benissimo, con una capacità di resilienza invidiabile. Ecco: la resilienza è proprio ciò che connota positivamente gli adolescenti migranti che ho incontrato sino ad ora. Sanno fare fronte ai vari mutamenti, alle enigmaticità e alle pressioni da questi determinati, senza uscirne deprivati nelle proprie capacità. Sanno anzi usare le complicazioni, i timori, anche i duri colpi subiti come occasione di sviluppo e di rinforzo, tappe ineludibili verso la vita adulta. Rivedo C. in un’occasione tristissima, che trova riuniti in chiesa, al di là delle varie appartenenze religiose, tutti i suoi amici conosciuti al corso. Si tratta del funerale di M., giovane mammapolacca (di soli 39 anni), sorella di Ma., mio ex allievo. M. se l’è portata via un cancro, dopo che aveva preferito non curarsi avendo scoperto di aspettare un bambino. “La vita di lui”, aveva detto al medico che le aveva chiesto che scelta fare. M. era arrivata sull’Appennino come badante quando aveva trent’anni appena; a casa aveva lasciato un figlio di sette anni il cui padre, un russo, si era, come tanti altri, dissolto nel nulla. M. voleva farcela, voleva una vita nuova. Il matrimonio con un italiano, molto più anziano di lei, le era sembrata una buona possibilità di cambiamento. Il fratello, Ma., poco più che ventenne, l’aveva raggiunta e aveva subito trovato lavoro in una panetteria. Si era iscritto al corso di italiano, poi aveva sostenuto l’esame per la licenza media. Per anni aveva sperato di trovare un lavoro meno faticoso, con orari meno pesanti; avevavalutato anche la possibilità di iscriversi a qualche corso professionale, ma la stanchezza delle notti al forno era troppo grande, insormontabile. D’altra parte, pur essendo il fratello minore, si sentiva responsabile nei confronti della sorella e del nipote, P., che, nel frattempo, li aveva raggiuntidalla Polonia. Pur avendo già il diploma di terza media, Ma. continuava a frequentare i corsi di italiano, spesso per aiutare poi il nipote nei compiti a casa. Diverse volte, infatti, al termine della lezione, si era fermato, aveva tirato fuori l’eserciziario di italiano di P. e mi aveva chiesto spiegazioni. Non parlava mai dei suoi problemi familiari, ma il volto tirato e gli occhi dicevano tristezza e preoccupazione. Spesso doveva partire improvvisamente per la Polonia in aiuto del padre, che viveva separato dalla madre ed aveva seri problemi di salute. Allora lo sentivi dire che non sarebbe più tornato, che non ne poteva più di quella vita. Ma c’era la sorella malata di tumore, c’era la sorella chesceglieva per una pericolosissima maternità; c’era, più avanti, il piccolo G. con una mamma malata e un papà anziano, pensionato, povero. Ma.,trentun anni oggi, nessuna prospettiva di futuro se non quella di un duro lavoro e della responsabilità nei confronti dei figli di sua sorella e del cognato che non sa come pagare il mutuo. La madre lo ha raggiunto il giorno delf unerale. Anche lei ha il cancro al seno; la stessa malattia di M. .

Sono tante le ragioni per cui le ragazze dell’Est cercano disposare uomini italiani e quella dell’ottenimento del permesso di soggiorno non è la principale. In realtà, quel che si percepisce è che vogliono sposarsi per avere una famiglia, un nido caldo, una casa, degli affetti, dei legami forti e sicuri. L’occasione di sposarsi nei loro paesi, quando hanno più di trent’anni, oppure sono divorziate e con figli, non si presenterà mai. Nella cultura di quei paesi, una donna nubile di trentacinque anni o più non ha praticamente alcuna possibilità di “trovare” marito. È vecchia. Una donna divorziata con figli è nella stessa situazione.

Ne parlo con una ragazza russa diciottenne, la quale mi dice, convinta, che il modo di vivere delle donne dell’ex Urss ne forma il carattere rendendole molto più forti e più amorevoli, pazienti, sicuramente più resistenti delle italiane. C’è poi il fatto che in Russia e nei Paesi dell’area ex Urss le donne sono molto più numerose degli uomini e che sono sempre gli uomini ad abbandonarle, a divorziare, mentre in Italia succede il contrario. Così è grande la paura di rimanere sole, perché una donna sola, senza un uomo, non è ritenuta una vera donna, ma una creatura inferiore. A. mi spiega poiche noi italiane ci vestiamo come i maschi, mentre le ragazze russe curanomolto l’abbigliamento, il trucco, il portamento. Altre donne, russe, ucraine, moldave, mi parlano inorridite del “femminismo” occidentale. Non ci si comporta così con gli uomini, non è così che si ottiene ciò che si vuole. Addirittura, mi raccontano della “corruzione” dei costumi che il vivere tra noi comporta: quando tornano nei loro Paesi alcune “osano” persino entrare in chiesa con i pantaloni. Con grande scandalo, perché il prete le prende e le butta fuori. In chiesa una donna entra solo con la gonna e il capo coperto.

A. è venuta in Italia col visto turistico in visita alla zia sposata con un italiano. È proprio la zia ad accompagnarla ai corsi. A. ha una capacità d’apprendimento incredibile e, in pochi mesi, passa anche lei al corso per ottenere la licenza di terza media. Mi confida che qui sta benissimo, che vuole rimanere, che dell’Italia le piace soprattutto la tranquillità, la mancanza di violenza continua per le strade, che, per la prima volta, sa che può uscire a passeggiare senza la paura di essere assalita o di prendersi una coltellata. Vuole studiare, vuole continuare la sua vita qui. Mi parla della nonna maestra che amava dipingere e scrivere fiabe per bambini, ma che conosceva anche le erbe medicinali e aveva un bel giardino pieno di fiori.Vorrebbe diventare come lei. Improvvisamente, vedo che non è più la zia ad accompagnarla ai corsi, ma lo zio italiano. Intuisco subito la situazione. Mi dicono, infatti, che i due si sono separati e che ora è la ragazza ad aver preso il posto (e la casa) della zia. Mi dispiace: A. ha scelto la via più breve, quella che le sembrava più opportuna, mentre io avevo immaginato, per lei, un cammino di studio e impegno verso una completa emancipazione. In questo modo, l’emancipazione per lei si è solo allontanata. Eppure so che non posso esprimere giudizi. La fame porta a buttarsi sul cibo appena lo si ha a disposizione; non ci si può permettere di aspettare; lo si potrebbe veder sparire. E la fame non è solo mancanza di cibo. La vera fame dei giovani stranieri come A. è fame di futuro, mancanza sedimentata di opportunità.






[1] Roy Aleksandrovic Medvedev, La Russia post-sovietica. Un viaggio nell’era Eltsin, Torino, Einaudi,2002.

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