martedì 10 gennaio 2012

LA SIGNORINA E MONSIEUR PASSEPARTOUT-Racconto inserito nell'antologia "Garfagnana in giallo" 2011

La signorina e  monsieur Passepartout


Prima comparve la tela, smisurata, prudentemente introdotta nella porta aperta; poi presero forma i ricci incollati di lacca della signorina.

“Buongiorno Luca, non la disturbo se cerco una cornice, vero?”

Silenzio.

“Luca? Signor Luca?”

La signorina accostò il dipinto al bancone del negozio.

Nessuno, non c’era nessuno; allora arretrò di due passi e rimirò ben bene il proprio lavoro.

“Bello, bello, - mormorò, - ci vuole una cornice bianca qua.”

Lo accarezzò e rivolse lo sguardo intorno, sistemandosi la perfetta capigliatura a cannoli (il colore era proprio quello: bruno cacao; mancava solo la ricotta), poi si assestò una forcina sfuggita alla morsa della lacca.

 “Ma guarda te, quindici giorni senza parrucchiere, ma si può? Tutti in ferie nello stesso momento e lo sanno che non so lavarmi la testa da sola.”

Pareva contrariata, molto contrariata.

“Signor Luca? È di sotto? Signor Luca!”

La voce si fece via via più stridula. Niente. Gli angioletti di gesso, le madonnine, i vari padre Pio di ogni foggia e dimensione, le santa Rita da Cascia la osservavano, intanto, impensieriti. O almeno questa fu la sua percezione. Sempre più esitante, la signorina assunse un’espressione mesta e si fece il segno della croce davanti ad un Sacro Cuore.

“Signor Luca… c’è nessuno?”

Un’ icona “Madonna della Tenerezza con decorazioni” troneggiava di fronte a lei, in alto, in mezzo a un’icona “Sacra Famiglia - cornice lavorata” e a un’icona “Cristo Pantocreatore”. Inquietanti, in tutto quel silenzio. La signorina ritornò verso la porta, giusto in tempo per notare un assembramento di persone più in là, vicino al ponte.

 “Che succede? – disse ad alta voce.  – Non sembrano turisti…”

“ Eh no, signorina, - le rispose qualcuno dalle scale, - non lo sa? Non gliel’hanno detto?”

Eccolo palesarsi nel negozio, il signor Luca, ed infilarsi dietro al bancone, ove depositò una montagna di scatole di cartone.

“Ah, signorina, è passato anche il signor Dionisio, stamattina, e ha comprato una tela, dei colori e dei pennelli; sicuramente sarà andato a dipingere all’ombra di qualche pianta in riva al fiume. Però, le dicevo, la sa la novità?”

“Il parrucchiere è chiuso, le novità le imparo solo lì, - disse la signorina, - cos’è successo dunque?” L’uomo le fece cenno di aspettare, prese ad aprire i contenitori su cui campeggiava la scritta a pennarello nero “Luca Cerchi – Oggetti religiosi – Borgo a Mozzano (Lu)”, estraendone bruciaincensi con lumino, carboncini per turibolo, incenso a grani “Nero e Oro 500gr”, mirra granello, storace liquido Hounduras.

Afferrò quest’ultima bottiglietta e l’avvicinò al naso:

“Mmmh, buono questo profumo, vediamo un po’. Ah, sì: guardi, signorina, guardi qui; c’è scritto che il liquido deriva dalla corteccia di Liquidambar, lei sa che pianta è?”

Gli occhi dilatati delle donna lo ghiacciarono.

“Oh… mi scusi, non le ho risposto, aspetti, venga, venga che le spiego.”

La spinse delicatamente (era pur sempre un’anziana di oltre ottant’anni, anche se “signorina”, e il garbo era d’obbligo) in direzione della porta e indicò, lontano,  un furgone piazzato nel parcheggio attiguo all’ingresso del ponte.

“Vede? Vede cosa c’è scritto? È un furgone della Rai, sono lì per delle riprese che riguardano il  ponte”.

La signorina s’illuminò d’un sorriso smisurato e quasi gridò:

“ La Rai? Non mi dica, non mi dica… sarà forse… non mi dica… Oh, mio Dio! C’è lui? C’è lui davvero?”

 Il signor Luca scosse il capo:

“Di chi parla, signorina?”

Un botto secco, come lo scoppio di un petardo, poi un altro e un altro ancora deflagrarono improvvisi, tanto che la signorina si portò le mani alle orecchie e prese a salticchiare per il negozio strillando:

“Ossignore, sparano! Sparano, signor Luca, sparano!”

“Non credo, signorina, non credo, sarà stato un mortaretto, qualche ragazzino avrà scoppiato un mortaretto. A volte, pensi, li gettano nei cassonetti dell’immondizia, così poi bisogna chiamare i pompieri… beata gioventù! No, si figuri: chi vuole che si metta a sparare che la caccia è ancora chiusa?”

Il vociare in crescendo proveniente dalla calca oltre il furgone e il fuggi fuggi che ne seguì, spingendo diverse persone a ripararsi nel negozio, parvero dare conferma alla tesi della donna: sì, probabilmente avevano sparato. E probabilmente c’era un ferito, visto che, solo pochi minuti, e già stava arrivando l’ambulanza: un Piaggio Porter quattro per quattro della Misericordia di Borgo a Mozzano.



La signorina era stesa sul letto con un flacone di lexotan, una bottiglia d’acqua gasata e un bicchiere sul comodino, le finestre accostate e un fazzoletto bagnato sulla fronte. La stanza sapeva di naftalina, di trementina e di colori ad olio; alle pareti, quadri di ogni modello, dalle madonne ai paesaggi, ma i più numerosi riguardavano il ponte della Maddalena che, con i suoi cinque archi, attraversava le acque del Serchio.

“Il diavolo, è stato il diavolo, - gemeva ininterrottamente la signorina, - non mi vuole credere nessuno, ma io l’ho visto, l’ho visto scappare di là dal ponte. Nemmeno tu mi credi, Dionisio?” Accanto a lei, seduto sul letto, Dionisio, vestito di tutto punto in giacca cravatta, con tanto di borsello a tracolla, le teneva le mani, accarezzandola.

“Non so, io non ho visto nessuno e sai che dalla mia finestra, di solito, non mi sfugge niente.” Dionisio aveva, più o meno, l’età della signorina; ex militare della guardia di finanza da tempo in pensione, aveva, come lei, la passione per la pittura e ambedue erano iscritti all’associazione culturale “Amici del pennello” della cittadina. Come la signorina, non si era mai sposato e frequentava assiduamente le celebrazioni e il confessionale della parrocchia.

Ogni giorno, dopo la messa mattutina, passava metodicamente ore e ore appostato alla finestra della sua sala da pranzo, dietro le tapparelle abbassate, scrutando, di là dalle fessure, le persone e le auto che transitavano in basso, sulla strada e, con puntiglio militare, ne annotava le caratteristiche su un quaderno. Di quei quaderni ne custodiva ormai un armadio pieno, che teneva chiuso a chiave e che la signora delle pulizie, una romena dagli incisivi d’acciaio, non poteva nemmeno spolverare.

“E Philippe, come sta Philippe?”

Domandò la signorina, scuotendolo appena, aggrappata alla sua manica, prima di scoppiare in un pianto dirotto. Lui le baciò le mani:

“Stai tranquilla, cara, dicono che sia in coma farmacologico, ma vedrai: si riprenderà. Piuttosto: quando verranno i carabinieri a interrogarti? So che volevano sentire tutti i testimoni.”

La signorina smise di piangere per un momento, poi riprese a lamentarsi ancora più forte:

“Il mio Philippe… il mio caro Philippe. Lo sai quanto è importante per me, lo sai! – si soffiò rumorosamente il naso. - E ora… questa sciagura… e pensa che non ho potuto nemmeno incontrarlo. Oh, che donna disgraziata che sono. Mi va tutto male. È il diavolo, è il diavolo, ne sono sicura. Il diavolo che vive lì, nei pressi del suo ponte.”

E indicò uno dei quadri alla parete. Rappresentava, appunto, la struttura dai cinque archi. Si diceva che il fabbricato fosse nato da un’idea della contessa Matilde di Canossa e che poi fosse stato parzialmente ripristinato dal signore di Lucca Castruccio Castracani. Un ponte a “ schiena d’asino” che univa le due sponde del fiume Serchio; un ponte che si narrava opera del diavolo in persona, costruito in una sola notte.

Diceva, la leggenda, (e la signorina non ne dubitava) che l’architetto a cui era stata affidata la realizzazione avesse tirato per le lunghe i lavori e che avesse poi capito di non riuscire a terminarlo come da contratto. Per lui, le conseguenze sarebbero state troppo onerose, perciò decise di chiedere aiuto al diavolo. Satana gli propose, in cambio del lavoro, di potersi impossessare dell’anima di colui che per primo avrebbe attraversato il ponte. Il diavolo, durante la notte, portò a termine l’opera e poi si sedette ad aspettare la sua vittima. Nel frattempo, l’architetto era andato a confessarsi da un prete, il quale gli aveva consigliato di imbrogliare il demonio con un semplice accorgimento. Durante l’inaugurazione del giorno dopo, infatti, il primo essere vivente ad attraversare il ponte non fu un uomo, né una donna, ma fu un roseo maialino.

 “Lo so, lo so che è stato il diavolo, - continuava a lamentarsi la signorina, - devi andare dal prete, Dionisio, devi farlo venire da me, dobbiamo confessarci e farci benedire… abbiamo peccato!”

“Per un bacio, Desolina? Per un bacio sulla bocca? Ma è un peccato veniale, non può aver risvegliato il diavolo!”

Dionisio a volte faticava a capire gli eccessivi scrupoli di Desolina; in fondo, lui mai le aveva o le avrebbe mancato di rispetto. Non erano sposati e lui mai l’avrebbe trascinata nel fango della lussuria. Era una donna per bene, lei, di quelle rare, e lui era un vero signore.

In quel momento squillò il telefono e Dionisio andò a rispondere.

“Sì, sì, la signorina sta meglio… sì, certo, commissario, certo… glielo dirò, certo, domani ha detto? Domani la interrogherete? Passate di qua? Ma… aspetti, aspetti: ha notizie del signor Daverio? Sempre in coma… già, già… sì, sì, glielo dirò, sì… ah, e avete fermato un uomo? Ah sì? Un marocchino? Eh? Quel che lavorava in pizzeria? Ossignore… sì, sì, grazie, la saluto, signor commissario.”

“Che dicono? -  piagnucolò appena la signorina. – Hanno preso l’assassino?”

“Non parlare così, - la rimproverò Dionisio, - il signor Daverio non è morto… per ora. Sì, comunque è vero: hanno preso un tipo… sai quel marocchino che faceva il pizzaiolo dalla signora Gianna? Ecco, proprio lui.”

“Oh, povero il mio Philippe, - mugolò ancora la signorina, - lo so che è stato il diavolo! Ha voluto punirci per questo mio amore illecito per te… non morire, non morire, ti prego, non prima che ci siamo potuti incontrare…”



La prima volta che, accendendo la televisione, la signorina si era imbattuta in Philippe Daverio, era stato domenica ventiquattro ottobre duemiladieci alle ore tredici e venticinque precise.

Si trattava di un reportage sul Senegal che l’autore e conduttore del programma, il giornalista Philippe Daverio, appunto, davanti agli occhi increduli e ipnotizzati della signorina, definiva, con il suo accento marcatamente alsaziano e l’affascinante erre moscia, “un tevvitovio d’avanguavdia pev l’antvopologo cultuvale”. Con lui, lo scrittore Pap Khouma, ex “vu cumprà”, stava raccontando la sua vita tra l’Italia e l’Africa, svelando la cultura, la spiritualità e pure la politica del Senegal.

C’era poi Jean Blanchaert, il famoso gallerista amico di Daverio, che li aveva preceduti nel paese africano ed che, al momento, sciorinava sullo schermo i risultati delle sue esplorazioni, a volte davvero incredibili, come il laboratorio di un intagliatore di statuine all’interno di un enorme baobab. Insomma: per la signorina era stato amore a prima vista.

Monodirezionale, sì, ma poco importava.

Infatti, da quel preciso momento, Desolina non aveva smesso un minuto di pensare al giornalista e non aveva perso nessuna occasione per cercare di contattarlo e di incontrarlo.

Perché, ne era sicura, convintissima, quell’uomo meraviglioso, seducente nei suoi abiti variopinti, con quelle cravatte che parevano state strusciate nella tavolozza di un pittore, era il suo principe azzurro. Colui che aveva atteso per tutta la vita e che (ma rimaneva un pudico segreto) avrebbe avuto l’onore di cogliere il fiore intatto della sua purezza.

La signorina, infatti, prendendo sul serio gli insegnamenti di mamma e papà (e, soprattutto, quelli del catechismo), mai si era lasciata andare con un uomo, nemmeno con chi le aveva promesso, fin dall’inizio, di sposarla. Non si era fidata.

Ma ora, ad ottant’anni trascorsi, era arrivato Philippe e lei sentiva che era il momento, che poteva farlo, che per nulla al mondo avrebbe sciupato questa occasione. Non c’entrava il diavolo, no: un uomo tanto aristocratico soltanto Dio poteva averglielo mandato.

E non poteva esservi peccato in tutto ciò! Così si era data da fare senza indugio, appena spento il televisore sulle immagini del Senegal.

Aveva scritto lettere su lettere, con la sua calligrafia chiara e meticolosa, rotondeggiante, abbellita da riccioli qua e là, e le aveva spedite un po’ ovunque: dagli uffici della Rai, agli indirizzi delle riviste su cui compariva qualche articolo di Daverio, alle radio e alle televisioni locali. Aveva usato le buste e la carta intestata dell’associazione “Amici del pennello”, del cui direttivo faceva parte e di cui era presidente, già da un anno, il suo caro amico Dionisio.

Era in tal modo certa che Daverio, tanto amante dell’arte, avrebbe avuto un motivo in più per aprire e leggere le sue lettere. Invano aveva atteso una risposta, eppure non si era data per vinta finché, un bel giorno, dal panettiere, aveva incontrato un suo ex alunno delle medie (lei era stata insegnante di storia dell’arte) che  era attualmente giornalista della Nazione di Firenze.

Sapendo della passione per niente segreta della sua professoressa, la quale la ostentava gridandola ai quattro venti, la fermò e le disse:

“Signorina, lo sa che Philippe Daverio in settembre verrà qui, a Borgo a Mozzano per fare un servizio sul famoso ponte della Maddalena?”

Non c’era voluto altro. Da quel momento era stata felicità pura.

La signorina aveva abbandonato il lexotan e aveva ripreso a dipingere come una posseduta, giorno e notte, e un che di radioso pareva attorniarla come un’aura, o meglio: come un’aureola di gioia divina. Mai il signor Luca Cerchi aveva venduto tante cornici e, a dire il vero, mai come in quel periodo era riuscito a piazzare tanti quadri della signorina.

Il soggetto preferito dai clienti era sempre il ponte, ma la signorina aveva la peculiarità di ritrarlo in maniera surreale, sempre con la presenza del diavolo che, in qualche modo, si palesava nelle vicinanze.

Comunque, col ricavato delle vendite, Desolina era riuscita a pagarsi le cornici, perché certo con la sua pensione, una volta saldati l’affitto e le altre spese, non avrebbe potuto permettersi di acquistarle. Le cornici del signor Cerchi erano molto care, artigianali, vero prodotto italiano, mica robaccia cinese da bancarella di mercato.

La signorina aveva così trascorso l’estate in una specie di periodo d’avvento, agitata, emozionata, aspettando settembre e, con l’autunno, lui, il suo grande amore: il suo Philippe.

Ora, invece, il giornalista (e per lei principe azzurro) era là, inchiodato in un letto d’ospedale, colpito da una pallottola forse sparata da un marocchino geloso. Perché era questo che si diceva: che Daverio, fermatosi a pranzare nella pizzeria di Gianna, avesse, in qualche modo, provocato la gelosia del nordafricano.

La signorina si alzò respirando affannosamente, contò venticinque gocce di lexotan nel bicchiere, le diluì con l’acqua gassata, le bevve e si rimise a letto.

 “Domani verrà il commissario, sì… devo stare calma. Tanto lo so che Philippe guarirà, lo so. Dobbiamo incontrarci, è il nostro destino. Non può morire, non ora.”

Desolina si sistemò i bigodini sotto la cuffia a rete, gemette ancora un po’, poi, adagio, si addormentò ed iniziò sonoramente a russare.



“Trentadue, trentatré, trentaquattro, trentacinque. Bene, anche questi li ho contati, per oggi. Tutto regolare.”

Dionisio cominciò a ricollocare i bicchieri nella vetrinetta del soggiorno sollevandoli dal tavolo, uno alla volta, con estrema delicatezza. Era un’operazione che compiva ogni giorno, alla stessa ora, e che richiedeva la massima concentrazione. Bastava che squillasse il telefono o che qualcuno suonasse alla porta e gli sarebbe toccato ricominciare a contare i bicchieri dall’inizio.

Il lunedì contava i bicchieri, appunto, il martedì i piatti, il mercoledì le tazzine, e così via, fino alla domenica, completamente dedicata alla conta delle posate. Un lavoraccio, ma bisognava pur farlo. Inoltre, anche tutti quei numeri e relative date venivano con puntualità registrati su un quaderno, conservato in ordine nell’armadio dei quaderni a cui la signora romena dai denti d’acciaio non aveva accesso.

“Ce l’ho otto anni che ho in Italia, - si arrabbiava Camelia nel suo buffo miscuglio linguistico italo romeno, - ma mai visto uomini così; tu me sembri proprio che no stai bene, patrone!”

Di Camelia, Dionisio si fidava poco, tanto che si era messo a contare anche la frutta nel centrotavola di cucina e tutti gli alimenti presenti nella credenza e nel frigo; in questo caso non usava il quadernino, ma dei semplici post it che appiccicava in loco e che modificava ogni volta che qualcosa veniva mangiato: “Banane numero 3, pere numero 4, mele numero 7. Tutto regolare”

Dopo il lavoro di contabilità, Dionisio entrava nel suo studio, oppure usciva in cerca di un posticino con la giusta luce e si dedicava alla pittura; dipingeva quadri astratti e il suo maestro di riferimento era il pittore madrileno Miguel Ángel Campano, con i suoi rossi caldi, i gialli, i ghirigori, ma anche il bianco e nero: quadri che parevano coperte, collage, sculture.

“Io no capisco, tu me dici… - scuoteva il capo Camelia, - perché tu consuma tanto colori per tutte macchie, patrone? Perché tu va fuori davanti a il ponte e disegna pasticci di bimbino di asilo e no disegna il ponte?”

Che donna curiosa. Ma già, cosa ci si poteva aspettare da una persona nata e cresciuta sotto Nicolae Ceauşescu in un regime comunista? Una che forse era pure zingara?

Con la mano fece il gesto di scacciare il pensiero:

“Analfabeta, è solo un’analfabeta, una zingara comunista analfabeta, bah.”

Adesso sarebbe andato da Desolina che, sicuramente, stava attendendo il commissario.

“Camelia, io esco, - disse infilandosi l’immancabile giacca perfettamente stirata, - ricordati di stare alla larga dall’armadio dei quaderni, hai capito bene?”

“Sì, io capito bene, patrone, si tu piace che ce l’hai polvere, io no spolvero.”

Benedetta donna. Certo che ci voleva una pazienza con queste colf dell’est.

Avesse trovato un’italiana, magari del luogo, oppure emiliana, che quelle sanno fare anche la pasta in casa, avrebbe fatto dire cento messe alla madonna, quella del piccolo oratorio chiamata "Madonna dei Ferri", venerata da più di tre secoli e recentemente elevata a patrona del Comune. Tuttavia, era certo che era cosa inottenibile anche con un intervento miracoloso.

Bene, ora doveva proprio andare da Desolina. Ma prima voleva passare dal negozio di Luca Cerchi per farsi raccontare con precisione cos’avevano visto.

Si sa mai che Desolina, davanti ai carabinieri, s’ingarbugliasse.

Ultimamente non era più tanto lucida, secondo lui, e poi, tutto quel lexotan bevuto con l’acqua gassata la imbambolava. Si sa che l’anidride carbonica veicola subito le sostanze al cervello.

Lui no, lui era lucido, non aveva mai voluto assumere farmaci di nessun genere, nemmeno le aspirine. Figuriamoci poi con l’acqua gasata! E la sua testa funzionava ancora perfettamente; infatti contava, contava ogni giorno e non si sbagliava; ne era sicuro. I suoi quaderni ne erano la prova.

Scese in strada e prese a camminare - l’inseparabile borsello a tracolla - in direzione del negozio di articoli religiosi.

Borgo a Mozzano era veramente bella in quel periodo, con i colori caldi dell’autunno così simili a quelli del suo amato Miguel Ángel Campano. L’antico borgo pareva un gatto sonnacchioso beatamente sdraiato lungo le rive calme del Serchio, nella valle e mediavalle, in quella Toscana che era ancora Garfagnana.

Il ponte del diavolo, che attraversava il fiume a due passi dal negozio di Luca Cerchi e dalla casa di Desolina, si trovava sulla copertina di molte guide turistiche, ma pochi potevano immaginare quanto la località fosse perfetta per un riposo completo e per far sparire, in pochi giorni, ogni forma di tensione fisica e mentale.

O almeno questo era ciò che i turisti raccontavano a Dionisio, quando si imbattevano in lui, immerso nella pittura, davanti al suo cavalletto, e si fermavano a chiacchierare.

Certo, la pala eolica che un costruttore calabrese aveva piazzato davanti ad una nuova, enorme villa con piscina proprio lì dalle parti del ponte era un bel guaio dal punto di vista paesaggistico. Peccato davvero, perché i turisti erano tanti e il pittore li invitava sempre a farsi belle camminate, indicando loro le colline più in alto. Lassù, un dedalo di sentieri antichissimi erano perfetti per passeggiate a piedi e a cavallo, oppure, per i più giovani, in bicicletta.

Dionisio conosceva quegli itinerari come il palmo delle sue mani e ancora ci andava in cerca di scorci per i suoi dipinti o, meno romanticamente, ci andava in cerca di funghi.

Il fiume Serchio, poi, era un vero paradiso per i pescatori i quali, fin dal mattino all’alba, si piazzavano lungo le rive con le loro canne e riempivano in seguito i cesti di fantastiche trote.

Chissà se la polizia avrebbe interrogato anche loro.

Chissà se c’erano pescatori, il giorno del fattaccio; chissà se qualcuno di loro aveva visto qualcosa quando Daverio era caduto a terra colpito da una pallottola. Intanto, avevano fermato il marocchino.

Un certo Raber Fassar, ventotto anni, da dieci in Italia, di professione cuoco.

L’avevano notato vicino al cassonetto nei pressi del ponte proprio al momento degli spari e qualcuno giurava di averlo visto gettare la pistola nel fiume.

Erano ore, infatti, che i sommozzatori stavano cercando la rivoltella nelle acque dopo che, per misura cautelativa, i carabinieri avevano fatto svuotare tutti i cassonetti della zona. Ma niente: l’arma non si vedeva.

La cosa più strana, però, era che un proiettile ritrovato sul ponte, uno di quelli andati a vuoto e rimbalzato contro le pietre, risultava sparato da un’arma piuttosto obsoleta:  una Beretta “Mighty Mite” , modello 34 e 35.

Com’era riuscito un ragazzo tanto giovane ad entrare in possesso di un’arma tanto vecchia?





“Allora, signor Cerchi, lei era qui con la signorina Raffanti quando hanno sparato?”

Il commissario Milano si ravviava nervosamente il lungo ciuffo biondiccio mentre girava per il negozio, bloccandosi, ogni tanto, ad esaminare il ponte dalle vetrate. Sembrava talmente giovane che, quando si era presentato alla porta, Luca Cerchi lo aveva scambiato per uno studente del liceo in cerca di colori e tele.

“Sì, sì, certo: io e la professoressa Desolina eravamo qui, vede? Proprio in questo punto…”

“Ah, sì, bene, e la signorina Desolina Raffanti dice che verrà a minuti? Posso evitare di andare a cercarla? L’ha sentita per telefono?”

“Sì, le ho parlato poco fa; per quel che ho capito sta arrivando. Non abita lontano, vede? È quella casa rosa, quella là in fondo.”

Il commissario si fermò più a lungo contro la porta, scrutando, in lontananza, un capannello di gente.

“Cavolo! I giornalisti. Non è possibile. Adesso cominceranno con tutte quelle dirette televisive basate sul nulla. Eh… ci campa, certa televisione, sulle disgrazie… e guardi, guardi: c’è pure la criminologa bionda dalla faccia rifatta!”

“La dottoressa Roberta Bruzzone? Ma nooo… è qui davvero? Lei dice che ha la faccia rifatta? Le labbra, forse. Ah, ecco, guardi: è in arrivo la signorina e c’è pure il signor Dionisio.”

“Dionisio chi?” Chiese infastidito il commissario.

“Il signor Dionisio Simoncini, presidente dell’associazione culturale ‘Amici del pennello’, pittore anche lui come la signorina.”

Il commissario li osservò divertito e, per un momento, pensò di essere finito dentro un film del genere  “C’era una volta in America”.

L’uomo era in completo gessato con tanto di cravatta rossa, borsello e scarpe lucidissime; lei in tailleur pantalone azzurro puffo con la messa in piega bruno ramata appena compressa da un leggiadro cappellino dello stesso color bianco crema delle scarpe.

Erano questi i testimoni? Magari anche probabili assassini? Oppure, a proposito di televisione trash, si era forse su “Scherzi a parte”? No, non era possibile che gli si facesse perdere tempo in quel modo!

Non quando, invece, facilmente, l’assassino, se non si trattava del marocchino che già avevano fermato, era da ricercare nell’ambiente frequentato dal giornalista Philippe Daverio.

Qualcuno che ce l’aveva con lui, qualche straniero conosciuto nei suoi viaggi, per esempio.

O qualche malavitoso a cui il conduttore aveva inavvertitamente pestato i piedi.

Sul marocchino non è che ci fossero molte certezze, né tantomeno, a parte le testimonianze di chi l’aveva visto sul luogo del ferimento, c’era uno straccio di prova. L’unico appiglio era il fatto che il signor Daverio aveva pranzato nella pizzeria dove il nordafricano lavorava e che c’era stato, tra i due, un piccolo diverbio. Veramente, il Fassar aveva concluso la discussione urlando “T’ammazzo, se le parli ancora t’ammazzo” all’indirizzo di Daverio. E questo l’avevano sentito tutti.

La premessa pare che fosse stata una lunga, intensa conversazione tra il Daverio e una donna, un’insegnante italiana che il giornalista aveva invitato al suo tavolo e che, dagli accertamenti successivi, era risultata essere l’ex fidanzata del Fassar.

Durante i vari colloqui con la signora Gianna, padrona della pizzeria, il commissario aveva appreso che la giovane, certa Flavia Rocchi, originaria di Castiglione Garfagnana, prima di diventare insegnante di religione nelle scuole elementari di Borgo a Mozzano e Valdottavo, aveva lavorato alle sue dipendenze come cameriera e lì aveva incontrato Raber Fassar.

“Una gran brava figliola, signor commissario, - aveva raccontato la pizzaiola asciugandosi le lacrime, - brava e bella, troppo bella. Mi ero così affezionata. Pensi che aveva partecipato anche alle selezioni per Miss Italia e si era ben classificata all’elezione di Miss Toscana. Ma poi… s’è andata ad innamorare di Raber, che non è cattivo, sa? Sono tanto affezionata anche a lui, sa?- E le lacrime scendevano copiose. - Non è cattivo. È solo geloso, tanto geloso. Ha il sangue caldo, che vuole… gli arabi sono un po’ come i siciliani: sono gelosi, che ci si può fare?”

Già, che ci si può fare, oltre a sporgere denuncia per stalking? Lo sapeva a memoria, il commissario che gli "atti persecutori", indicati gergalmente con la parola anglosassone stalking (letteralmente significa "fare la posta"), in termini psicologici sono un complesso fenomeno relazionale, indicato anche come "sindrome del molestatore assillante" ecc… ecc… Lo sapeva, come sapeva quanto fosse difficile fermare questi comportamenti e proteggere davvero le donne.

Eppure, qualcosa non gli tornava. Insomma: se il marocchino voleva davvero uccidere Daverio, perché farlo alla luce del sole davanti ad una folla di gente e senza darsi alla fuga? E l’arma del delitto? Perché una pistola così vecchia e perché non era stata ritrovata nel punto dove, secondo i testimoni, il Fassar l’avrebbe gettata?

“Commissario, la prego, mi dica che il signor Daverio si è ripreso, la prego!”

La signorina Desolina quasi si genufletteva davanti al commissario, il quale, con quei capelli lunghi, castani, gli occhi azzurri e il pizzetto, un po’ l’aria da Cristo ce l’aveva, tanto che Dionisio, capita l’imbarazzante situazione, la trattenne e le cinse la vita con un braccio. Meno male che lui era lucido.

“Tranquilla, cara, tutto regolare. Ora rispondi alle domande, poi ti riporto a casa che hai bisogno di riposo.”

Il commissario rimase per un momento pensieroso, incerto sul da farsi. Avrebbe volentieri rispedito subito a casa i due anziani, che gli suscitavano ondate di tenerezza miste ad altre di irritazione, poi, però, si decise: li fece accomodare lì, nel negozio di Cerchi, e cominciò ad interrogarli.

Fu quando Dionisio gli accennò all’impatto ambientale causato dalla pala eolica e al fatto che Philippe Daverio, probabilmente, intendeva denunciare tale scempio, portandolo in televisione, che al commissario si accese una lampadina.





Nel negozio, Luca Cerchi aveva acceso il televisore e stava guardando una di quelle trasmissioni in cui cinque o sei presuntuosi tuttologi, moderati da una coppia di inetti conduttori, si rimbeccavano per ore sul perché e sul per come, sviscerando vari avvenimenti di cronaca nera. Il tema del giorno era, ovviamente, il ferimento di Philippe Daverio. Oltre alla criminologa bionda e al criminologo obeso e barbuto, c’era pure un elegantissimo prete con capelli lustrati di gel, una sessuologa con acconciatura alla Moira Orfei, uno psicoterapeuta col maglioncino verde pisello e, infine, un architetto del paesaggio che non riusciva mai a prendere la parola e osservava tutti, come a chiedersi se quello fosse uno studio televisivo o una gabbia di matti.

Era passata ormai una settimana dal fattaccio; Daverio non si era risvegliato dal coma, il marocchino era ancora in stato di fermo e le indagini parevano bloccate.

Adesso, in televisione, stavano dicendo che perfino il costruttore calabrese, quello della pala eolica, era stato interrogato come persona informata sui fatti, ma che a suo carico non c’era proprio un bel niente, quindi si era punto a capo. In realtà, le indagini sul tipo erano ancora in corso, tuttavia, trattandosi quasi certamente di uno ‘ndranghetista, erano coperte da segreto istruttorio e ai giornalisti non arrivava niente. Così inventavano.

Pertanto, in certi programmi televisivi, i tuttologi polemizzavano di ipotesi surreali e si scannavano sulle solite argomentazioni trite e ritrite.

E mentre il pretino dal collarino immacolato aveva iniziato a discettare di valore della vita da difendere fino al suo compimento naturale e addirittura di aborto (che c’entrava con Daverio? Mica era un feto abortito!) come crimine contro l’umanità, nel negozio entrò la signorina:

“Signor Luca, ha qualche buona notizia da darmi? Vede, vede là? – e indicò l’apparecchio televisivo, - In televisione discutono tanto ma, alla fine, non ci si capisce niente.”

“Nulla, professoressa, non so nulla, a parte che Philippe Daverio è certamente ancora incosciente.”

La signorina annuì mestamente, alzò lo sguardo verso un quadro "Madonna del Ferretti" e si fece il segno della croce, bisbigliando una preghiera. In quel momento, sulla porta comparve Camelia.

“Buongiorno, signor Cerchi, me manda mio patrone signor Dionisio che ce l’ho da comprare i colori per suoi pasticci di quadrini.”

“Ciao, Camelia, - la salutò la signorina, - Dionisio è già uscito?”

“No, no, professoressa, lui ancora a casa, lui oggi conta piatti.”

“Ti ha fatto la lista di quel che gli serve?” Chiese il signor Cerchi ridendo.

“Sì, sì, ecco, aspettate, apro foglio, tenete.”

Luca Cerchi dispiegò la pagina di quadernino a quadretti su cui, con un disposizione militare angosciante, era scritto: “Blockx Olio Extrafine, confezione 1; Sennelier Oil Stick, confezione 1; Olio di cartamo, confezione 1; Olio di girasole, confezione 1, Olio di lino, confezione 1, Olio di papavero, confezione 1; Essiccante scuro Schmincke da ml.60, confezioni 3.”

“Bene, vado a prendere tutto giù in magazzino, - poi, rivolto a Desolina, - mi controlla lei, professoressa, se arriva qualcuno in negozio?”

“Signor Cerchi, - esclamò allora Camelia, - io voglio che vengo con voi giù, così aiuto…”

Sembrava agitata, nervosa, comunque Luca annuì e, insieme imboccarono le scale.

Appena giunti in magazzino, Camelia lo bloccò:

“Signor Luca, io ce l’ho tanto bisogno di che voi me aiutate, io bisogna parlare con commissario…”

La donna sembrava veramente spaventata, tanto che il commerciante si sentì in dovere di tranquillizzarla. Poi l’ascoltò.

Quando risalirono in negozio, la donna era più serena e, dopo aver salutato lui e la signorina, Camelia fece per andar fuori subito con la sua busta di plastica ben stretta tra le mani.

Ma Desolina la interruppe:

“Ti ricordi, vero, che domani devi venire da me per le pulizie e lo stiro?”

“Io me ricordo, professoressa, - sorrise la donna, e gli incisivi, di fine siderurgia odontotecnica sovietica, mandarono lampi minacciosi, - però voi me dovete pagare come mio patrone, lui me dà sette euro un’ora adesso!”

Desolina alzò gli occhi al cielo e annuì sconsolata mentre Camelia usciva e, - incredibile! - Flavia Rocchi, sì, proprio l’ex fidanzata del marocchino Fassar, bella come il sole, dall’alto del suo metro e ottanta di una silhouette perfetta, entrava nel negozio.

“Oh, mio Dio! – esclamò Desolina. - Lei è la professoressa Rocchi, vero? Quella del cuoco marocchino… oh, mio Dio! Cosa dice, cosa dice: è stato lui a sparare? Davvero è così innamorato di lei? Davvero è così geloso? Oh, mio Dio… che tragedia…”

“No, guardi, preferisco non parlarne, - rispose la ragazza, - ci penserà il commissario. Però, insomma, io non credo proprio che Raber abbia sparato, non ne sarebbe capace. È un po’ troppo ossessivo con me, ma non è un assassino.”

Nel frattempo, il signor Cerchi aveva sollevato il telefono:

“Pronto? Sì, i Norm dei carabinieri? Sì… sono Luca Cerchi… sì, il negozio di Borgo a Mozzano, ho bisogno di parlare col commissario Milano… Ah, è già qui? Al ponte? Ah… va bene, ora guardo, sì… ma glielo dite via radio che ho bisogno? Ah, bene, bene… sì, preferisco che passi lui dal negozio. Grazie e arrivederci.”

Poi si rivolse alla professoressa Rocchi:

“Flavia! Che bello vederti, come stai? Ti serve del materiale per la scuola?

“Certo, Luca, e… - guardò di soppiatto la signorina, - posso scendere con te in magazzino?”

Luca ricambiò lo sguardo d’intesa, le fece l’occhiolino e, cercando di dominare la vampata di calore che gli era salita al volto, rispose:

“Non c’è problema, vieni…”



“Venticinque, ventisei, ventisette, ventotto… tutto regolare, anche questi sono a posto.”

Dionisio aveva appena finito di contare i piatti e ora si apprestava a riporli nella credenza, non senza aver prima segnato sul quadernino la data, l’ora precisa e il numero delle stoviglie inventariate. Un lavoro davvero massacrante. Ma bisognava pur farlo. Qualcuno doveva occuparsene. Qualcuno lucido come lui, ovviamente.

Intanto, si chiedeva come fare per aiutare la sua amica Desolina che presentava, a suo parere, sempre più evidenti segni di squilibrio.

Era cominciato tutto con quell’ossessione per Philippe Daverio; ora, lei pensava soltanto al giornalista e, al contempo, aveva sempre più spesso visioni del diavolo, là, al ponte.

Dionisio ne aveva parlato col suo confessore, il quale gli aveva spiegato che la signorina, sentendosi in colpa per il forte desiderio che provava - e che sapeva peccaminoso - trasformava in visioni del maligno la paura del suo peccato. Certo, la misura era colma.

Solo due settimane prima, mentre passeggiavano lungo il Serchio, Desolina aveva creduto di vedere due zampe da caprone spuntare dalla giacca di gomma di un pescatore e aveva voluto a tutti i costi rientrare in casa.

E poi, Daverio… Eravamo proprio sicuri che lui non le avesse scritto? Che non l’avesse incoraggiata? Davvero lei si era illusa per niente?

“Tutto regolare qui.” Si disse Dionisio dopo aver chiuso la credenza. Invece, niente di regolare c’era nella vita della sua amica. E non era un bene, no, non era per niente un bene.

Il campanello della porta strombettò con l’effetto echeggiante della sirena di una nave.

Dionisio andò a controllare dallo spioncino e vide la faccia messianica del commissario Gionata Milano. Aprì immediatamente.

“Buongiorno, - esordì il commissario, invitando ad entrare i due carabinieri fermi alle sue spalle, - possiamo dare un’occhiata alla sua casa?”

“Dare un occhio sì, purché… sa, sono un ex militare e so bene che per una perquisizione occorre un mandato.”

Il commissario prontamente dispiegò il foglio che teneva in mano:

“Eccola.”

Dionisio sbiancò e vacillò appena, poi si fece da parte e lasciò entrare i carabinieri, seguendoli a capo chino.

“Lei possiede un’arma?” Chiese Milano con finta indifferenza.

“Io.. be’, sì, ho un revolver, ma non so nemmeno più dove l’ho messo.”

“In quell’armadio, forse?” Proseguì ambiguo il commissario.

Dionisio scosse il capo e si lasciò cadere sulla poltrona.

“Fate a modo, però, - li supplicò avvilito, - non mettete in disordine i miei quaderni.”

“Ha la chiave? O dobbiamo rompere la serratura?”

Dionisio scattò in piedi e cominciò a frugare nel suo borsello; ne estrasse una chiave d’argento e la porse ai carabinieri:

“Per l’amor del cielo, - li implorò ancora più sconfortato, - quell’armadio è del ‘700, non rompetelo e non rovinate i miei quaderni!”

Quando la serratura scattò e il commissario aprì le due ante di spesso noce nero, un forte odore di carte polverose, di canfora e tabacco inondò la stanza. Gionata Milano cominciò a sternutire e a tossire convulsamente, mentre i due carabinieri estraevano, con cura, le migliaia di quadernini perfettamente affastellati all’interno dell’enorme guardaroba.

Seduto sulla sua poltrona, Dionisio li guardava e contava ad alta voce:

“Novantanove, cento, centouno, centodue…”

Fu allora che, dalla porta rimasta spalancata, entrarono, insieme, Camelia e la signorina Desolina. Quest’ultima, come vide la scena, prese a protestare:

“Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Ma che state facendo? Volete farlo morire? Commissario… non si può, non si può… Dionisio, diglielo che non possono, che dopo devi ricontarli tutti!”

Ed ecco che, proprio in fondo alla prima pila di quaderni, emerse una scatola. Il commissario l’aprì e mostrò a tutti il contenuto: una Beretta “Mighty Mite”, modello 34 e 35.

 La signorina gridò:

“Una pistola! Oh, mio Dio… chi ha messo una pistola nell’armadio di Dionisio?”

“Nessuno, cara, - le rispose pacatamente Dionisio, - quella è la mia rivoltella ed è sempre stata lì.”

Poi si alzò e andò in direzione di Camelia:

“Per trovarla devi aver spostato tutti i quadernini e devi perfino aver aperto la serratura con un grimaldello, vero? Sei più intelligente e precisa di quanto pensassi, non mi ero accorto di niente. Si vede che sei cresciuta sotto Ceauşescu, complimenti davvero.”

Infine si girò verso Gionata Milano presentandogli i polsi:

“Mi metta pure le manette, tanto non mi resta ormai che confessare.”



Luca Cerchi aveva di nuovo acceso la televisione; aspettava la visita di Flavia, la sua amata, che poteva frequentare soltanto in segreto dato che, se la curia avesse saputo della relazione che la professoressa intratteneva con lui, le avrebbe impedito di insegnare religione.

Perché lui, Luca, era invece regolarmente sposato, ma con un’altra.

La consueta trasmissione spazzatura con i soliti tuttologi rumoreggiò quindi nel negozio.

La notizia del giorno era che Philippe Daverio era uscito dal coma e che il suo feritore, il signor Dionisio Simoncini, aveva confessato.

Era dunque stato il pittore a sparare e l’aveva fatto dalla sua postazione lì accanto al ponte, dove quel dannato giorno si era seduto a dipingere proprio a due passi dal giornalista.

Dionisio aveva saputo mesi prima, dai giornali, dell’arrivo di Daverio; si era pertanto ben informato sui suoi movimenti, in seguito aveva pulito e lucidato la sua vecchia arma, l’aveva caricata e, il giorno previsto, si era semplicemente seduto a pitturare al solito posto.

Chi avrebbe fatto caso ad un vecchio pittore?

Interrogato sul perché del gesto, l’uomo aveva detto che, alle spalle di Daverio, sì, proprio dietro le sue spalle, da tempo, in televisione, lui vedeva qualcun altro.

Un essere orribile, con corna e grugno caprino.

Un essere che, sogghignando, gli diceva che Desolina, prima o poi, sarebbe stata sua.

E lui non poteva permetterlo.

Era lucido, lui, aveva ancora la mente brillante, non come Desolina, poveretta, imbottita di lexotan.

Sapeva contare, lui, e voleva che tutto fosse regolare.

“Tutto regolare.”

Aveva detto dopo aver sparato.

E si era segnato data e ora precisa sul solito quadernino.

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