martedì 10 gennaio 2012

Racconto inserito nella raccolta "Racconti emiliani 2" a cura di Elisa Pellacani

Le scarpe

Camminare a piedi scalzi sull’asfalto rovente lo faceva sentire san Lorenzo sulla graticola. “ E quando fu bello arrostito da una parte, il santo pregò i suoi torturatori di girarlo dall’altra…” ridacchiava con sadico compiacimento il suo parroco quando lui era ancora bimbetto. Però, poi, dopo le cronache dei barbecue a base di santi e l’immagine dei vermi che marciavano in processione sotto la pelle di re Erode, spingendolo a grattarsi a sangue, c’era, al catechismo, una specie di serena “confessione” a cui seguiva il lancio sul sagrato di manate di caramelle emerse dalle tasche capienti della talare. Nessun trauma, nessuna coercizione: c’era chi si era tenuto legato alla chiesa, chi non se ne curava più, chi la osteggiava apertamente e chi, come lui, aveva ora cose più serie di cui occuparsi. Lavorare per un grosso gruppo bancario non gli permetteva certo di sprecare tempo con le storielle del paradiso e dell’inferno. Eh! Maneggiare soldi per far altri soldi era roba da grandi. Chissà cos’avrebbe detto il suo vecchio parroco, sapendo che parte del lavoro del suo ex catechizzando consisteva nel rendere lieti i dopocena dei propri clienti con qualche compagnia femminile… Eh, s’usa così, caro don Giuseppe, s’usa così nell’economia globalizzata.

Vero che l’asfalto adesso scottava e non si vedeva la fine di quella strada. E c’era tutta una folla di gente appiedata che procedeva nella stessa direzione; forse c’era stato un grande ingorgo? Non riusciva a ricordarlo.

“Anche tu scalzo? – Chiese ad un ragazzo lì a fianco.- Hai perso le scarpe nell’incidente?”

“Quale incidente?” Rispose lui, mentre trafficava di cartine e tabacco.

“Tutte queste persone a piedi in autostrada, mentre non c’è una macchina in giro, cosa può significare se non un incidente?”

“Ah, non te l’hanno detto?” Bofonchiò il ragazzo emettendo fumo da ogni pertugio del viso.

“Detto cosa?” Proprio non capiva.

Il ragazzo alzò le spalle e si allontanò, arrotolandosi i jeans scesi in basso sul sedere.

“Scusi, cosa fa lì impalato? Mi faccia passare!” Una vecchietta in tailleur rosa con cappellino lo spintonò e lo sorpassò di scatto. I suoi nervosi polpaccetti erano fasciati in robuste calze di filanca e i piedini – forse un trentacinque a dargliela tutta – erano infilati in scarpe di vernice fucsia. Veloce più di nonna Abelarda, nonostante gli evidenti novant’anni o su di lì, in quattro e quattr’otto sparì nella folla più avanti.

“Cavolacci! – imprecò l’uomo.- La nonnetta le scarpe le ha, cinesi, di sicuro, ma le ha… e bisognerebbe farle un antidoping, accidenti!”

Già: perché lei aveva le scarpe e lui no?

Riprese a camminare accompagnato da un gracidio di rane scaturito dal canale fetido lì a fianco. Nel crepuscolo gli pareva di scorgere un ponte, forse un cavalcavia, che cominciava a macchiarsi d’arcobaleno. O per caso era l’alba? D’improvviso, una moto rossa gli si accostò e il pilota, sgasando, poggiò un piede a terra.  

“Giangiacomo Ottieri? “ Chiese il motociclista con atteggiamento da guardia municipale.

Era completamente vestito di pelle nera, stivali compresi, e il casco gli nascondeva il volto.

“Non vedo perché dovrei risponderle, lei chi è? – E sfoderò tutto il suo prestigio da bancario. - È forse un poliziotto? Un vigile? Un carabiniere? Perché, altrimenti, scusi, ma…”

Quello si tolse il casco e liberò una chioma rossa da vichingo, sfoggiò un bel sorriso e gli puntò addosso due occhi d’un azzurro angosciante. “No, no, stia tranquillo, niente forze dell’ordine. Devo soltanto consegnarle il pass per entrare quando arriverà.”

“Per entrare? Per entrare dove?”

“Guardi, avrà camminato sì e no per cinque chilometri; gliene restano ancora trentacinque. Ecco: questa è la tessera che dovrà infilare nella porta al suo arrivo. Non la perda, perché, allora, sarebbero guai.”

Una sgasata più forte e il motociclista era già sparito. Soltanto un opaco ronzio di calabrone denotava la presenza della sua moto laggiù, verso il cavalcavia.

Il signor Ottieri si appoggiò al guardrail e si massaggiò a lungo i piedi, ormai piagati e incatramati.

La fiumana di gente continuava intanto a camminare sull’asfalto, tutti con un’aria tra il confuso e lo sbigottito, tutti nella stessa direzione: giovani, vecchi, vecchissimi e pure bambini. Tutti assorti e, in buona parte, senza scarpe. Un terremoto? C’era stato un terremoto? Ma perché non riusciva a ricordare? Qualcosa lo aveva colpito in testa e gli aveva procurato una temporanea amnesia? Non riusciva nemmeno bene a capire dove fosse. C’era una catena di montagne, laggiù, oltre il cavalcavia. Potevano essere le Alpi Apuane, o addirittura le Ande? Le immagini di folle che scappavano sotto le ceneri di un vulcano sudamericano gli si presentarono nella mente. Era in Sudamerica per lavoro? Ah! Le donne, il sole…la spiaggia a mezzaluna di Copacabana. Lì c’erano vita, rumore, colori, esplosione di sensualità ed era bello sorseggiare il “chope” dopo aver fatto il bagno nell’Oceano. Ma no, impossibile, non poteva essere in Brasile: il motociclista gli si era rivolto in italiano e pure il ragazzo dai jeans in fondo ai glutei aveva parlato in italiano. La vecchietta dal tailleur rosa s’era intanto fermata ad annusare i fiori d’oleandro dell’aiuola spartitraffico. “Signora, mi scusi tanto, - la interpellò lui, - mi sa dire dove andiamo e, se è possibile, perché lei ha le scarpe ed io no?”

“Come? Non lo sa? – rispose lei. – Non l’aveva lasciato detto ai suoi?”

“Lasciato detto… cosa?”

“Di metterle le scarpe!”

“Mettermi… le scarpe?”

“Certo: non lo sapeva che c’era da camminare quaranta chilometri verso porta inferi? Guardi: siamo quasi arrivati.”

Davanti a loro c’era un casello autostradale, oltre al quale una fitta nebbia impediva la visuale. Sopra, una scritta luminosa: “PORTA INFERI”

“Caro mio, - riprese la vecchia, - io l’avevo lasciato scritto ai miei nipoti, perché, vede: al giorno d’oggi c’è questa mania di non infilare più le scarpe ai morti quando li si veste.”

Infilò la sua tessera nell’apposito lettore ottico e sparì nella nebbia.



(Normanna Albertini)


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