giovedì 12 gennaio 2012

LE RAGAZZE STAMINALI E L’ORRORE DEL LIMITE - di Clotilde Masina Buraggi




Dire a un bambino piccolo che “la mamma torna fra due ore” non ha senso perché il bambino non  ha ancora la capacità di misurare il tempo. Questa capacità si sviluppa soltanto con il passare degli anni e l’entrata nella struttura temporale comporta l’acquisizione che la vita è composta da un numero limitato di ore. Una constatazione del genere sembra ovvia, ma non lo è per tutti: vi sono persone che in psicoanalisi vengono definite “psicotiche”, le quali vivono senza la consapevolezza del tempo, persone che non vivono pienamente in una realtà che a loro risulta troppo difficile. Individui siffatti sono fortunatamente un numero percentualmente esiguo, mentre molte di più sono quelle che, pur avendo soltanto alcuni  tratti psicotici, hanno grandissime difficoltà ad accettare che i giorni a disposizione abbiano una fine e, per difendersi dalla angoscia provocata da una tale prospettiva, usano  tutti i mezzi  psichici possibili.

E' bene dire che è normale avere paura della morte, tutti gli uomini l'hanno, ma un conto è averne una paura “normale”, un conto è averne una paura tale da diventare un pensiero ossessivo e una inquietudine costante. Può avvenire che una persona non abbia neppure  chiara  consapevolezza del suo terrore della morte, ma chi le è vicino si accorge  che il pensiero della morte è talmente prioritario in lei rispetto alle altre preoccupazioni da indurla a   comportamenti tesi più a negare la morte che a condurre una buona vita.  Di fronte  all'angoscia suscitata dal pensiero intollerabile della morte, la psiche può negare che questo pensiero le appartenga ,  e persino che questo pensiero esista , ma  tale modo di difendersi da un evento che non si vuole accettare, e persino ammettere, è patologico: non è al servizio della vita, in quanto, non volendo riconoscere e quindi annullando  quel pensiero e l'angoscia  connessa,  annulla anche la capacità di vedere la realtà e di farle fronte in modo adeguato.

Accettare che vi sia  un limite alla propria esistenza è certamente uno dei problemi principali che costellano lo sviluppo umano, a livello della persona e a livello della società. È drammatico, per la mente infantile, rendersi conto di non essere più un’unità con la madre e di avere un confine corporeo; è drammatico, per un  adulto, pensare che con l’avanzare dell’età il numero delle ore di vita si va riducendo. Ma il problema tocca anche la collettività. Nei primi anni ’60 del secolo scorso, almeno nell’emisfero Nord,  le scoperte scientifiche e lo sviluppo economico  diffusero l'illusione che il progresso e l'aumento delle ricchezze fossero una fonte di vita illimitata; si finì per dimenticare che   l'accumulo dei beni  di consumo  non portava  come conseguenza l'allungarsi del   tempo della vita in cui sarebbe stato possibile godere tali beni . In   altri termini,  accumulare oggetti, “avere”, lasciava pensare alla possibilità di un’esistenza illimitata o quasi.

I filosofi Greci, ai quali dobbiamo tanti elementi della nostra civiltà, a cominciare dal concetto di democrazia, anche nel periodo del loro massimo splendore pensavano che un principio fondante della loro società dovesse essere il senso del limite, (anche quello della morte), e che questa qualità dovesse essere posseduta soprattutto da chi avesse responsabilità di governo. La moderazione, l’autocontrollo, che essi chiamavano “enkrateia”, aveva per loro lo stesso valore che ha per noi una legge costituzionale; l’”ubris” (esaltazione), la mancanza di misura, quei sentimenti che potremmo tradurre come “illusione onnipotente di essere esenti dalla morte”, era considerata follìa e una città non sarebbe mai stata affidata a una persona che ne fosse contagiata.

 Nella  società di oggi, per tante ragioni tra cui forse la perdita dell'illusione che la scienza sia in grado  di risolvere tutti i problemi dell'uomo, l'angoscia della morte è ritornata in primo piano e connessa ad essa la difesa  della negazione .

 Tale difesa si manifesta con comportamenti diversi.  Talvolta con una iperattività che dilata i confini della veglia  e la retorica del fare. Talvolta con l’uso di droghe o di farmaci di cui pure è nota la pericolosità. Altre volte   con la presunzione di poterla controllare sfidandola. Appartengono a questa categoria gli sport “estremi” praticati da “superuomini” da cui  il pubblico è affascinato. Nel passaggio all’età adulta, quella in cui si prende consapevolezza che la vita ha una fine, gli adolescenti  ostentano di non temere la morte indossando  indumenti  su cui sono disegnati teschi o scheletri. I fascisti usavano schernire la morte nelle loro canzoni e nei loro motti: ”A noi la morte non ci fa paura”, o anche: “La signora morte/ fa la civetta in mezzo alla battaglia,/ forza, ragazzi,/ facciamole la corte,/ diamole un bacio sotto la mitraglia,/ lasciamo le altre donne agli imboscati”. I falangisti scrivevano sui muri. “Viva la muerte!”.

La negazione della morte si esprime anche in un certo tipo di applicazione scientifica “smodata”. Sono notissimi gli esempi di vecchi ricchissimi che finanziano istituti di ricerca che si occupano di estendere il limite della vita, sperando di poter godere essi stessi di queste nuove possibilità. Anche il ricorso continuo e sfrenato  di certe persone “importanti” alla chirurgia estetica nell’illusione che gli altri non si accorgano della loro età avanzata non è solo una mancanza di accettazione del limite ma è anche una bugia detta agli altri e a se stessi. La difesa della negazione è infatti il maggior inganno che la psiche possa commettere ai danni di se stessa.

L’angoscia della morte spinge inevitabilmente a comportamenti particolarmente gravi. L’utilizzare minorenni per trarre  da loro linfa vitale, non è soltanto una perversione sessuale, (la perversione è definibile come una negazione delle differenze generazionali), ma è anche una spinta coercitiva dettata soprattutto dalla negazione della morte. Si potrebbe dire (ma è un eufemismo) che le ragazze vengono “usate” per contatto magico, come cellule staminali che possono rigenerare il corpo decadente del vecchio.



Un’altra forma di esorcismo della morte è quella che fu cara ai faraoni dell’antico Egitto: provvedersi di una casa per l’Oltre-tomba, facendosela costruire da grandi artisti.

Infine l’angoscia della morte è presente nella società italiana di questi mesi nella elaborazione di una legge sul “fine-vita”, espressione ideata per non nominare la morte. Questa legge, che dovrebbe essere in difesa della vita, non solo non garantisce il rispetto della volontà del singolo, ma rende la morte, (soprattutto in ospedale), non più un evento “naturale,” un aspetto proprio della vita, ma un evento terrorizzante da allontanare il più possibile, qualunque costo.. E’ chiaro che non si possono mettere sullo stesso piano casi diversi, ma va difesa proprio la possibilità di diversificare i casi, e la possibilità che i medici abbiano la facoltà di decidere  in accordo con la volontà del paziente e della famiglia, la desistenza da un accanimento terapeutico, quando una malattia degenerativa o un evento traumatico venga diagnosticato ragionevolmente irreversibile  e non vi sia più quindi la possibilità  di garantire al paziente una qualità di vita dignitosa. Ho scritto sopra che la negazione è sempre accompagnata dalla bugia, forse sarebbe meglio dire che la negazione stessa è una bugia. 

La legge che si vorrebbe far passare alla Camera è argomentata  infatti da una menzogna:    quella che afferma che l’idratazione e l’alimentazione forzata non sono atti medici. La verità è che non soltanto sono atti medici, ma atti che richiedono èquipes mediche e infermieristiche specializzate e l’uso di farmaci. Anche l'affermazione  che  negli stati vegetativi si soffra la sete o addirittura la fame è considerata una bugia dei  medici specialisti  delle cure palliative, quelli che con grande coraggio stanno vicino alle persone che stanno morendo cercando di farle soffrire il meno possibile.

Soltanto il terrore della morte, comunque, può far negare a certi parlamentari che sugli stati di vigilanza e su quelli vegetativi,  la scienza abbia ancora molti punti  oscuri,  che non permettono di garantire che attualmente sia possibile emettere leggi che garantiscano la dignità del paziente e la sua tutela da inutili sofferenze.

 

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