mercoledì 23 aprile 2025

COMIZIANTE SOCIALISTA E POETA - LA STORIA DI GIANÙN DA SACCAGGIO E DELLA MAESTÀ DI PALARETO

Articolo pubblicato su Tuttomontagna

Dal settimanale diocesano “La Libertà”, a firma del professor Giuseppe Giovanelli, riprendiamo un aneddoto che riguarda un’edicola, una “maestà” posta su un quadrivio di strade di Felina: quella di Palareto: “Nei primi anni in cui don Artemio Zanni era parroco a Felina gli sovvenne di seguire un ubriaco che, ormai a notte fonda, tornando a casa lungo la strada buia, si fermava tutte le sere a conversare con la sua “Madunina” dinnanzi a una maestà entro la quale ardeva un piccolo lumino. La guerra aveva strappato all'uomo l'unico figlio ed egli, per sopire l'amarezza del dolore, cercava conforto in un bicchiere di vin dolce all'osteria. Per la sua inconsolabilità, la gente definiva matto quel poveretto. Con sorpresa, don Zanni scopre che l'uomo si ferma davanti alla maestà e, a voce alta, come si fa con una persona presente, confronta il suo dolore con quello di Maria”.


A lei, Maria, l’uomo parla in dialetto. Riportiamo la struggente preghiera in italiano, ma come non pensare a Bernadette Soubirous che, con “Quella là”, “Aquèro”, discorreva in patois, il suo dialetto?

“Buona sera, Maria. / Voi siete piena di grazia,/ io son pieno di malvasia. Voi avete una corona di rose/perché un branco di disgraziati/vi ha ammazzato il figlio in croce./ lo sono da solo, qui in terra,/ da quel giorno che una fucilata /ha ammazzato mio figlio in guerra./lo e voi siamo qui che ci facciamo consolazione/una sera dopo l'altra/cercando di dare un po' di perdono./Voi si vede bene che l'avete già fatto / ma io ancora non ci sono riuscito / e forse per questo dicono che sono matto./ Ma credetemi Madonnina mia, / che è pur dura da fare/tutte le sere questa brutta via./ Vi saluto, Maria”.

Gianun


Giovanni Borghi: povertà e impegno politico

Cercando informazioni sul quel poveruomo, grazie ad Anna Maria Morotti, di Saccaggio, siamo risaliti a Laura Borghi, la quale vive in Liguria fin da ragazzina. Scopriamo così la storia di suo nonno Gianùn e, a intuito, il motivo che lo induceva a fermarsi a bere all’osteria. In più, comprendiamo perché non mancasse mai, prima di rientrare a casa - nonostante fosse un socialista anticlericale, sia pure rispettoso del papa! - di confidarsi con la Madonna di Palareto. È una storia di immensa miseria, di guerre che avevano segnato Giovanni anche nell’animo; dell’ultimo conflitto mondiale che aveva visto una orrenda strage a Saccaggio. Ed è probabilmente un ragazzo del paese, ucciso dai nazifascisti proprio davanti a casa di Gianùn, dopo essere stato attirato in un tranello , quel “figlio ammazzato” di cui il poveruomo parla; non figlio suo, ma figlio del paese, figlio di tutti: un ragazzo... È una storia di povertà, la sua, ma anche di desiderio di giustizia, oltre che di un amore infinito per la propria donna: Brigida. Grandi occhi scuri, belle gote, labbra piene e capelli folti, crespi, Brigida era la moglie di Gianùn. Per tutta la vita Giovanni la definì non “mia moglie”, ma “la mia principessa”. E fu lui ad occuparsene quando la demenza la obbligò a stare chiusa in casa.


Cartolina dal fronte

ANSELMA, CHE VISSE IN UN CASTELLO CON TANTO DI TELEFERICA



L'intervista risale a diversi anni fa, quando era già novantenne. Oggi Anselma non c'è più, ma vive nel cuore dei suoi cari e di tutti coloro che l'hanno conosciuta


Le fascine le acquistava il casaro di Banzola che le usava per alimentare il fuoco sotto le caldere. A quei tempi, la latteria era privata e i contadini vi conferivano il latte della zona: una superficie collinare piuttosto aspra, dove le strade, le carraie, i sentieri si arrampicavano scomodamente sulle alture e rendevano più duro ogni spostamento. Dal Castello di Paullo, le fascine venivano spedite in basso con una rudimentale teleferica - costruita chissà quando - del tutto simile a quelle usate nei lavori forestali di allora o dai contadini delle Alpi per il trasporto del fieno. Se la ricorda bene, Anselma Franzini, oggi novantunenne, che al Castello si trasferì dopo il matrimonio con Rodolfo Morani, mezzadro, il quale lavorava un podere di proprietà dei signori Barchi. Aselma era nata a Casa Mazzoni di Giandeto, nel comune di Casina, il 21 aprile del 1927. Famiglia benestante, la sua – secondo i parametri del tempo - di coltivatori diretti che possedevano terra, casa e stalla con ben tre mucche, Anselma ricorda un’infanzia felice senza particolari privazioni. Certo, quando s’innamorò i Rodolfo, semplice figlio di mezzadri, i genitori non approvarono la sua scelta e la contrastarono, per quel che fu possibile. Alla madre, Anselma spiegò che il suo innamorato era un uomo buono e che quella era la cosa più importante, per cui voleva lui e soltanto lui. La ragazza vinse e, alla fine, si celebrò il matrimonio. Da Case Mazzoni andò a vivere a casa di lui, al Castello, un posto isolato, una rupe sovrastante la valle del rio Fiumicello, in mezzo al bosco, un tempo sede di un vero e proprio fortilizio. “Il castello sorse in luogo aspro e selvoso e bene adatto alla difesa. Era ristretto e cinto da un sol muro, con un palazzo e una torre sovrastante la porta d’ingresso, e, come quello di Paderna e di Montalto, dominava la stretta valle del Crostolo”, scrive il professor Arturo Montruccoli nel suo volumetto su Paullo, e ancora: “Finchè imperarono i marchesi di Canossa, il castello, come pure tutto il resto di Paullo, rimase nell’orbita del loro dominio, ma alla morte di Matilde passò sotto l’influenza del vescovo di Reggio, il quale ricevette conferma da Federico I nel 1160 dei beni già goduti da Paullo e li tenne fino al seguimento voluto dal Comune cittadino nel 1197”.

Castello di Paullo (Casina), foto di GIUSEPPE COLIVA

Quando Anselma arrivò lassù, della fortezza non restavano che parti delle mura ormai inglobate in una costruzione colonica composta di case e stalle. C’era una grande aia, al limite della quale si innalzavano due querce, unite alla base, che si allargavano a V verso il cielo. Agli stessi alberi era stato fissato il cavo della teleferica che, da quella postazione, scendeva al monte di Banzola, giù in basso. Al Castello le terre erano divise tra due proprietari: Ido Barchi, di Banzola, e l’avvocato Piero Fornaciari, di Reggio. Quest’ultimo, fu un antifascista convinto, tanto da finire torturato al carcere dei Servi, e diventò poi un grande protagonista del mondo giudiziario: fondamentale il suo ruolo nel processo a Leonarda Cianciulli, dove rappresentò una delle famiglie delle vittime costituitasi parte civile. C’erano, dunque, due poderi e due mezzadri, dove prima c’era stato il fortilizio appartenuto a varie famiglie nobili, tra cui i Fogliani. Sappiamo che quel castello fu distrutto per la prima volta nel 1349 dai Gonzaga insieme a molte altre fortezze della montagna. L’edificio odierno non ha più niente dell’antica rocca, come già ai tempi della giovane sposa Anselma Franzini. Allora, c’erano due famiglie, c’erano sei vacche in tutto - rosse reggiane - campi scomodi, in pendenza, da lavorare con la sola forza delle braccia e con l’aiuto degli animali. Ecco il perché della teleferica, utile per il trasporto del latte fino al caseificio, troppo distante per essere raggiunto a piedi due volte al giorno.