lunedì 12 giugno 2023

PREDOLO/LA VECCHIA CAVA DI PIETRA: I PICIARÌN DEL MONTE BATTUTA

 

Un lavoro duro e pesante, tra polvere, schegge e conseguente silicosi. Cavatori e scalpellini protagonisti assoluti del luogo. Maestri di un mestiere che era un’arte.


Dario Guglielmi e il pozzo restaurato
 del castello di Felina


Insieme al legno, la pietra è il materiale più antico usato per abitazioni, luoghi di culto o sepolture, fin dall’ultimo periodo dell’Età del bronzo, intorno al terzo millennio a.C. Più recenti e famosi, gli scalpellini di Salomone (970 al 930 a.C.), di cui si parla nella Bibbia, primo libro dei Re: “Salomone aveva settantamila operai addetti a portare i pesi e ottantamila scalpellini per lavorare sulle montagne (…) Il re diede ordine di estrarre pietre grandi, pietre scelte, per porre a fondamento del tempio pietre squadrate.” Le pagine dell’Antico Testamento traboccano di costruzioni e cantieri, con allegorica enfasi o soltanto per diffondere il sapere pratico dei costruttori. La pietra rimase il materiale preferito dalle antiche civiltà e, nel Medioevo, si trasformò in castelli, chiese, monasteri e palazzi nobiliari. La storia della pietra passa poi per le chiese gotiche, come Notre-Dame, cattedrale di Parigi, innalzata da carpentieri, muratori e scalpellini del XII secolo.

Una delle vecchie cave del Monte Battuta
(della famiglia Albertini di Soraggio)

Era un bene essenziale dal quale si ricavava di tutto: mole per arrotare qualsiasi lama, abbeveratoi, pavimentazioni, coperture per i tetti, la “préda” per affilare le falci, acquai, mortai, macine dei mulini, la pietra dell’aia per trebbiare (in uso prima dell’avvento delle trebbiatrici), lapidi delle tombe, acquasantiere. Oltre a ciò, era alla base di una elementare architettura rurale: muri di sostegno, recinti, ripari, ghiacciaie, mulattiere; in questo caso, però, le pietre erano “di campo”, quelle delle “maşére”, o di recupero, assemblate a secco. Nei nostri paesi, per le abitazioni si adoperavano i sassi più accessibili - viste le difficoltà di trasporto - motivo per cui si avviavano cave, quando possibile, nei paraggi dei centri abitati. In questo modo, sorgevano borghi “monocolore” che riproponevano, senza contrasto con il paesaggio, la colorazione delle rocce locali. La pietra del Monte Battuta, in quel di Villaberza, riconoscibile nelle case intorno, è un'arenaria marrone chiaro che, però, una volta tagliata – quindi all’interno - è di un magnifico colore azzurro che la rende unica.

Zona della cava dove lavoravano Dino e Dario


I piciarìn: Dino “da Flìna Màta”

I cavatori e gli scalpellini della Battuta, con i loro strumenti di lavoro, come il cuneo, la mazza, il palanchino, erano i protagonisti del luogo: uomini che alla pietra avevano dedicato l’intera vita. Era musica, era un concerto quando si passava dalla cava, perché con il mazzuolo e lo scalpello era tutto un ticchettio, un suono ritmato ininterrotto. Uno degli scalpellini, a dire il vero, musicante lo era davvero: si tratta di Dino Pignedoli, di Felina Amata (Màta, nella parlata comune) che nella banda musicale di Felina suonava il clarinetto. Reduce dalla guerra in Etiopia, Dino era il nonno di don Maurizio Lusenti, attualmente celebrante e confessore in parrocchia. La cava era a cielo aperto, si estendeva e si approfondiva sempre di più mentre veniva asportato il materiale e cambiava la morfologia dell’area interessata, oggi occupata di nuovo dalle roverelle e dai pini silvestri. La separazione dei blocchi “dal monte”, prima dell’avvento dell’esplosivo, sfruttava i “giunti naturali”, cioè, nel caso di rocce sedimentarie come l’arenaria, le stratificazioni: quelle che i cavatori chiamavano “vene”. Le si apriva con i cunei battuti da una mazza, inserendoli in apposite fessure praticate lungo la superficie da staccare. Nella divisione dei blocchi era poi importante riconoscere il “verso”, identificato per l’arenaria dalle superfici di stratificazione.
I pezzi ottenuti venivano in seguito sbozzati e portati a compimento sia per la forma sia per l’aspetto superficiale. La lavorazione delle facce dei conci per muratura doveva essere perfetta sulle superfici di appoggio; le superfici laterali, invece, erano rifinite solo per una ristretta fascia lungo i bordi, mentre il resto restava grezzo.

La cava abbandonata com'è oggi


Dario Guglielmi, i colleghi e la silicosi

Altro scalpellino storico della Battuta era Dario Guglielmi. Ce ne parlano le figlie, Mara e Giuliana (che in realtà si chiama Ombra, perché Dario diceva che all’ombra si sta bene!) con il supporto dei nipoti Daniela e Mauro Croci: “Nostro padre prima lavorava come scalpellino alle Grotte di Felina. Dopo la guerra, nel ‘46 -’47 cominciò a scavare alle cave di Predolo, sulla Battuta, con altri tre piciarìn: Dino, Severino e Merli. In quel periodo i sassi erano molto richiesti, perché durante la guerra erano andate distrutte molte abitazioni e stalle. I sassi venivano estratti a mano dal terreno, non si usavano ancora le mine. Quelli molto grossi venivano tagliati con dei cunei di ferro o acciaio e con mazze molto pesanti. La lavorazione non era per niente a caso, ma i tagli dovevano essere effettuati in base alle ‘venature’ del sasso (altrimenti si sbriciolavano); successivamente, venivano squadrati e lavorati per essere utilizzati nei muri o negli angoli delle case. La lavorazione ad angolo veniva effettuata con una punta piatta in modo che, posati sul muro, fossero perfettamente a piombo. Era un lavoro molto duro e pesante perché il sasso in inverno era gelato e in estate molto caldo. Anche il trasporto era faticoso, come lo era raggiungere la cava; infatti, nei primi anni, i piciarìn ci andavano in bicicletta, poi con le moto. Nella cava c’era un vagoncino che si muoveva su un binario e serviva a spostare il materiale. Con pochi attrezzi (punte, punteruoli, cunei, mazze e mazzuoli) uscivano dei veri e propri capolavori. Gli utensili venivano forgiati da Dario con la forgia per lavorare il ferro, il fornello a carbon fossile per riscaldarli fino a farli diventare roventi e, successivamente, poterli battere sull'incudine e risagomarli, affilandoli. Lavorando in cava in quelle condizioni, purtroppo Dario si ammalò di silicosi.”

Dario Guglielmi con la moglie

Certo, gli incidenti potevano capitare, innanzitutto agli occhi, per le tante schegge e le polveri (infatti, la protettrice dei piciarìn è Santa Lucia), ma il grande nemico degli scalpellini era proprio la silicosi. Quella polvere finissima che si depositava nei polmoni, conosciuta da sempre, ma che non si sapeva come combattere. Scrive, alla fine del Settecento, Giovanni Targioni Tozzetti, medico naturalista,: “Quando gli scalpellini hanno necessità di spaccare i massi a forza di subbie e di cunei avvertono sempre di versare dell’acqua nella fessura dove forzano i cunei, perché altrimenti volerebbe in alto certa polvere finissima che offenderebbe i loro polmoni.” Dario, nato nel 1911, morì comunque a 93 anni, nel 2004.

Dino Pignedoli (al centro) con il clarinetto


Alfio Pignedoli, maestro restauratore

Il terreno della cava dove lavoravano i piciarìn era di Alberto Piazzi, il quale lo aveva acquistato una volta tornato dall’America, dove era emigrato tempo prima. Le ultime pietre, in quella vecchia cava, le estrasse (o forse le raccolse) e lavorò, il nipote Alberto Zanni intorno agli anni Settanta.

Utensili di Dario

In quella cava andava a prendere i conci da sbozzare anche Alfio Pignedoli, di Felina Amata, padre della professoressa Cleonice: “Mio padre Alfio, che era amico di Severino, era uno scalpellino: aveva imparato dopo la guerra, andando a giornata a costruire i muri di contenimento delle strade. Era diventato molto bravo, tanto che don Francesco Milani lo volle per il rifacimento dell'abbazia di Marola. L'ultimo restauro che fece fu una delle due pietre alla base del portale d'ingresso del castello di Carpineti, sotto la direzione dell'architetto Cristina Costa. La pietra della Battuta era la sua preferita per le venature grigio chiare e azzurre. La riteneva la migliore. Era un grande conoscitore del taglio, dei pezzi adatti, del verso giusto, tanto che venivano in molti a consigliarsi con lui. Dalla squadratura della facciavista, alle pietre angolari, passò poi a fare pilastri, portali e, infine, soprattutto caminetti. Era molto riservato nel suo lavoro. Quando mio fratello, geologo, gli chiese di insegnargli a squadrare le pietre, si rifiutò dicendogli in dialetto: ‘Alùra, cus’et stüdiâ a fâr?’ Lo riteneva un mestiere faticoso e insalubre che non doveva essere tramandato. Si rifiutò anche negli ultimissimi anni di insegnarne i rudimenti e i segreti ad aspiranti piciarìn. Da un lato era orgoglioso di essere diventato così bravo, tanto da essere ricercato per lavori di restauro, dall'altro si riteneva niente di più di un operaio. Quando io gli chiesi, in occasione della ristrutturazione della casa di famiglia, di non coprire il sasso, lui non mi ascoltò, ma intonacò l'esterno con un'orribile graniglia bianca che, ahimè, resiste tuttora.”
Panorama dalla cava


Nei ricordi di Mauro Croci, le damigiane di vino...

Non aveva tutti i torti, Alfio Pignedoli: tra le arti minori delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri, nate a Firenze tra l’XI e il XIII secolo, ce n’è una che fu a torto sottovalutata, ed è proprio l’arte dello scalpellino. Considerato solo un mero operaio, in realtà era spesso un vero e proprio artista. A Marola, quando nell’abbazia vennero abbattute le sovrastrutture barocche, furono tanti gli scalpellini, i migliori, chiamati a ricostruirla, nelle originali forme romaniche, persino da altre regioni.

Mauro Croci con la zia in braccio

Mauro Croci, il nipote di Dario, da bambino seguiva ogni tanto il nonno sulla Battuta, oppure a Predolo, dove, in un piccolo fabbricato tuttora in piedi, c’era la fucina. “In moto, Dario mi portava alla cava. Arrivati a Predolo, passavo il mio tempo a giocare con il mio amico Sante e con altri ragazzi e ragazze che erano in paese. La prerogativa dei piciarìn, forse per la polvere, era quella di bere del vino in modo non esattamente moderato. Il fornitore della cooperativa di consumo di Gombio, mentre passava, si fermava sempre dai nostri amici scavatori lasciando lì una damigiana. In media, quella damigiana durava sette giorni, ma con il lavoro così pesante non erano mai ubriachi: espellevano tutto l'alcool con il sudore. Con Sante, si faceva un po' di tutto: giocare a pallone, andare a nidi… ma il divertimento più grande era fare i dispetti all'Onesta della Bocca. Mi ricordo che una volta le abbiamo mangiato tutte le pere (o prugne?) che aveva messo a seccare al sole. Sono stato in bagno per due giorni…” Racconta Mauro che la fatica dei piciarìn in parte aumentò quando iniziarono a usare l’esplosivo, perché era dal fondo della cava che poi dovevano tirare su i sassi. Da scalpellini diventarono anche artificieri: grande responsabilità, dato che dalla sistemazione della polvere per le mine dipendeva il lavoro successivo.

Vagoncino un tempo usato sulla Battuta

“Questa città l’abbiamo fatta insieme. Voi con le idee e i soldi, noi mettendoci la mano d’opera. Perché le pietre di questo palazzo le avranno tagliate i miei antenati”, disse lo scrittore Tiziano Terzani, discendente da famiglia di scalpellini, riferendosi ai Guicciardini di Firenze. Oggi anche tutti noi dovremmo ricordarcelo entrando in qualsiasi città d’arte, ma ancor di più dinnanzi alle case in pietra dei nostri nonni.

Forgia a carbone di Dario

Casotto a Predolo dove era
 la fucina dei piciarìn 

                                                                                                                              
 


Nessun commento:

Posta un commento