venerdì 5 febbraio 2021

PLUTO E L'AMORE PER LE PECORE - STORIE VERE DAL BOSCO DAL CIELO E DAL FIUME

 


Vincenzo meditò di procurarsi un cane da pastore già ai tempi della capra bianca, quella scappata sul Ventasso e diventata, ormai, una leggenda.

Successe una decina d’anni fa, ed è un fatto che già abbiamo raccontato: un cane randagio spaventò la capra bianca e le altre intente a brucare, beate, nei pressi dell’agriturismo di Rio Riccò, inducendole a fuggire.

Se ci fosse stato un cane da pastore (anzi: un cane da protezione, che ha competenze in più), il randagio si sarebbe trovato in grosse difficoltà, perché il cane da protezione non ci pensa due volte a dare la vita per il suo gregge. Addirittura per gli asini, in alcuni casi, negli allevamenti, presi di mira dai lupi. Ci sono infatti cani che non aspettano indicazioni e non hanno bisogno di segnali dal padrone; cani che sanno già cosa fare, così che non è la volontà dell’uomo a guidarli, ma la loro.

Hanno grande dignità, fierezza, intuizione e istintivo senso di responsabilità.

Se Vincenzo avesse avuto un cane simile, la capra bianca non sarebbe fuggita.

Nobili, indipendenti e molto equilibrati, se educati bene, sono ostinatamente irremovibili.

Stiamo parlando di loro, dei pastori maremmani abruzzesi; cani che in realtà non ti ubbidiscono, ma decidono di compiacerti. Scelgono di fare come vuoi tu, però a decidere sono loro.


Quando su questi cani si raccontano misfatti, si tratta, in realtà, di cuccioli ai quali è stato permesso di ascendere nella scala gerarchica ‘di casa’, nei confronti dell’essere umano, prima che compissero un anno di età. Mai concedergli, in quel periodo, a detta degli esperti, di sentirsi capobranco: nel momento in cui un maremmano stabilisce di essere il capobranco, rispetto all’amico umano, subentrano i problemi. Invece, se cresciuti come si deve, l’appagamento del rapporto ‘alla pari’ che dà un cane di quella razza si dice che sia unico.

Autonomi e un po’ selvatici, si pongono come alleati e collaboratori del padrone, amando le pecore più del pastore e più di sé stessi, quasi per un secolare marchio atavico conservato nel cuore.

Belli, con il foltissimo pelo bianco - così simile al vello delle pecore - quando sono sdraiati a sorvegliare il gregge, distaccati e pacifici, li si percepisce del tutto integrati nella natura, come un qualsiasi animale selvatico. I loro occhi neri con il taglio a mandorla, un po’ orientali, paiono narrare storie arcaiche. In effetti, il cane da pastore maremmano abruzzese e il patou, o pastore dei Pirenei, (quello del romanzo e poi film ‘Belle e Sebastién’) non sono altro che una derivazione di un altro antico cane da pastore (per millenni meticcio) che da un po’ di anni è stato riconosciuto dalla ‘Federazione cinofila internazionale’ con il nome di ‘cane da pastore dell’Asia centrale’.

Quella del maremmano abruzzese è davvero una razza straordinaria e lo sapeva anche il proprietario dell’agriturismo di Rio Riccò da dove era fuggita la capra bianca. Certo, però, probabilmente non immaginava di cosa sarebbe stato capace il cane che poi si procurò.

Dunque, riepilogando, un bel giorno Vincenzo, che aveva comperato anche le pecore, decise di portare a casa un cane da guardiania, perché un pastore che si rispetti deve averne uno.

Guardiania, cioè protezione: sono cani che hanno il compito di proteggere il gregge, impiegati da millenni come custodi delle pecore, con un comportamento difensivo, non aggressivo, mentre il cane da pastore - o da conduzione – sa soprattutto condurre e ‘comandare’ il gregge.


Di quest’ultimo, un cane da conduzione, ci parla il nostro investigatore naturalistico Umberto Gianferrari: “Avevo conosciuto, anni fa, un pastore di Monteorsaro soprannominato ‘Mucchia’, nel senso dell’imperativo ‘ammucchia!’, che era l’ordine da lui dato al cane quando era ora di radunare le pecore. Il nostro ‘Mucchia’ mi raccontava, ormai vecchio, di aver avuto un gregge di cinquecento pecore. Al mattino si alzava, liberava le sue pecore dall’ovile, prendeva la strada per andare in Cusna e saliva lassù, fino ai Prati di Sara, luogo veramente incantevole, dove le sue pecore pascolavano indisturbate. All’epoca non si sentiva parlare di lupi, li avevano sterminati tutti, mentre vi si trovavano, in certi periodi dell’anno, da settembre ad aprile, i pivieri dorati, uccelletti migranti che possono provenire dall’Islanda, dalla Groenlandia, dalla Siberia e che scelgono l’Italia per svernare. Giunto lassù, Mucchia lasciava a guardia del gregge una cagna, una bastardina uguale a tutti quei bastardini che i pastori allevano da un anno all’altro, scegliendo il migliore della cucciolata, e scendeva di nuovo a Monteorsaro.

Non c’è animale più intelligente del cane da pastore che vive tutto il giorno con il gregge e con il padrone. Si crea una simbiosi tale che basta uno sguardo perché il cane vada e faccia ciò che gli viene chiesto. La sintonia, l’intesa profonda che si realizza tra il cane e il suo compagno umano è incredibile. La comunicazione che li lega è impercettibile per noi, l’armonia nei movimenti rapidi del cane, attento ai sottili segnali del pastore, è affascinante. ‘Mucchia’, che era anche un cacciatore, in autunno faceva la transumanza, come tutti allora, andando con il camion dalle parti di Poviglio. Tornando alle sue parole, mi disse che, quando tornava a Monteorsaro e lasciava le pecore con la cagna a custodirle e guidarle, era tranquillo, perché lei sapeva cosa fare. La brava custode aveva infatti imparato che, all’imbrunire, appena c’era qualche accenno di tramonto, doveva radunare tutto il gregge e portarlo a casa. E così faceva, coscienziosamente, ogni sera.”

Questo è il compito di un cane da conduzione, ma Vincenzo aveva bisogno di un cane che sapesse anche proteggere il gregge, un bravo cane da guardiania. Ed ecco che un giorno optò per la scelta, quasi obbligata, del pastore maremmano abruzzese. Si informò, chiese in giro e venne a sapere di una cucciolata e, quando uno di quei cuccioli compì circa sessanta giorni, ormai svezzato, Vincenzo lo portò a casa. Le sue figlie lo chiamarono Pluto.


Sembra di vederlo il piccolo cucciolo bianco: cresce con le pecore, in mezzo a loro, fino a che diventa adulto. “Ho osservato spesse volte Pluto con il gregge”, racconta Umberto, “era libero e, pur potendo andare a cercare altri cani, a inseguire femmine in calore in giro per le borgate, non si spostava. L’ho sempre visto con le pecore, nel raggio di dieci metri dall’ovile. Oppure, dentro al recinto, all’aperto, insieme alle pecore. Mentre loro pascolano, lui è lì tra di loro, sdraiato, sempre attento ad ogni potenziale pericolo.”

La spiegazione di questo comportamento sta nel fatto che il pastore maremmano abruzzese è stato selezionato da secoli per fare questo mestiere e lo sa fare molto bene. Quasi sempre la femmina partorisce in mezzo al gregge, scegliendo un luogo riparato, come una mangiatoia, in modo che i cuccioli non vengano calpestati. Appena nati, da subito, hanno questo imprinting: respirano l’odore delle pecore, ne ascoltano le voci, i rumori, i passi. Quindi, ancora con gli occhi chiusi, i cagnolini si sentono figli del gregge, si sentono fratelli, si sentono parte di quell’universo animale. Giocano con le pecore e con gli agnellini e questi hanno un grande rispetto per loro in una vera simbiosi mutualistica.


“Il maremmano abruzzese è disposto a dare la vita per il gregge… fin troppo”, spiega Umberto, “infatti leggiamo spesso, in questi ultimi anni, di persone che si lamentano perché, trovandosi in giro per i sentieri, si sono casualmente avvicinate a un gregge e i cani le hanno rincorse, considerandole un pericolo.”


C’è qualcosa di biblico, in tutto ciò: Abramo, Mosé e re Davide erano pastori, Dio stesso è definito ‘pastore’ e Gesù, l’Agnello di Dio, quando nacque ricevette la visita di pecore, pastori e, sicuramente, cani: i primi ad adorarlo.

Le scritture sono piene di allegorie in cui vengono usate le pecore e i pastori, come in Ezechiele 34, 8, di una attualità impressionante (non solo in campo religioso): “…poiché le mie pecore sono abbandonate alla rapina; poiché le mie pecore, che sono senza pastore, servono di pasto a tutte le bestie dei campi, e i miei pastori non cercano le mie pecore; poiché i miei pastori pascono sé stessi e non pascono le mie pecore…”

È sempre Umberto che raccoglie la storia di Pluto e della prova della sua dedizione al gregge fino all’estremo sacrificio: “Succede che Vincenzo, per questo suo collaboratore fedele e prezioso, decide di comprare il miglior mangime possibile, quindi si informa dagli amici cacciatori e decide per delle crocchette di un certo tipo, considerate tra le più buone. Quindi, ne fa una bella scorta per il suo Pluto. Si accorge presto, però, che, nonostante l’assunzione di questo prodotto di qualità, nonostante Pluto venga curato con grande attenzione, venga vaccinato e sverminato regolarmente, appare sempre piuttosto magrolino, debole. Vincenzo non sa darsi spiegazioni, visto che sceglie il meglio per lui. Allora, prova ad aumentare la quantità dei pasti giornalieri nella ciotola , ma non c’è niente da fare. I mesi passano e Pluto diventa sempre più malridotto. Gli si contano quasi le costole, il pelo non è lucido, appare mogio, triste. Vincenzo non si dà pace. Non accetta l’idea di avere il suo aiutante in tale sofferenza. Finché, un bel giorno, ha un’intuizione. D’altra parte, quando certi esseri viventi sono legati da un grande affetto, queste intuizioni capitano.”

Cosa poteva essere successo? Una malattia? Perché il cane deperiva così velocemente, a dispetto dell’ottimo cibo che gli veniva somministrato?

Umberto tradisce l’emozione, mentre continua il racconto: “Quella sera, Vincenzo va dalle sue pecore per accudirle portando fieno e acqua, e prepara, come suo solito, la dose di crocchette dentro la ciotola di Pluto. Sono i gesti consueti di ogni sera, tuttavia, questa volta Vincenzo ascolta la sua intuizione. Mette la ciotola davanti al cagnolone e si allontana. A differenza delle altre volte, invece di chiudersi la porta alle spalle, si sofferma a osservare, nascosto, di là dalla soglia. E fa bene… cosa vede? Con grande stupore, vede che, mentre Pluto è lì dalle sue crocchette, le pecore gli si avvicinano. Allora, Pluto, con quei suoi occhi orientali, dolci, un po’ tristi, ma convinti della necessità del sacrificio, lascia il suo pasto e si allontana per far sì che le sue sorelle pecore possano mangiare. Immaginiamo l’incredulità e, insieme, la meraviglia di Vincenzo… Nelle crocchette per cani sono presenti anche dei vegetali, dunque non era strano che le pecore le gradissero. La cosa straordinaria, fuori dall’ordinario, era il gesto di Pluto. Vincenzo se ne va con il pensiero di trovare una soluzione, perché, come dice un adagio: ‘non accontentarti di trovare difetti, trova i rimedi…’”

Pluto, però, non vuole allontanarsi dalle pecore.

È un cane serio, sicuro di sé, un cane che si porta nel cuore, da secoli, un antichissimo precetto: prima la salvezza e la vita del gregge, poi la sua. Come fare per indurlo a mangiare?

Vincenzo si consulta con il suo veterinario e decide di cambiargli radicalmente la dieta. Sa di avere degli erbivori che vivono in simbiosi con un carnivoro e cerca il sistema per evitare ogni conflittualità durante i pasti. Decide di contattare il proprio macellaio, si fa tenere la carne di scarto, quella migliore possibile, prepara delle buste con le dosi singole e le ripone in freezer, così da averle pronte. Nei giorni successivi, Vincenzo porta a Pluto la sua ciotola con la carne, gliela lascia davanti e si allontana. Come sempre, le pecore, vedendo il pastore uscire, si avvicinano alla ciotola, si soffermano qualche minuto, sbigottite, poi decidono di allontanarsi e di ritornare a rosicchiare il loro fieno nella mangiatoia. Così, da quel giorno, il nostro Pluto riprende forza e vigore, diventando sempre più bello.


“Quando gli ho scattato la foto", conclude Umberto, "mi sono fermato con lui per diversi minuti, perché l’idea di trovarmi davanti a questo essere vivente che, per amore delle pecore, era disposto a morire di fame, è stato, per me, commovente. Pluto è un esempio fulgido, l’immagine di un amore grande, dove colui che ama arriva a lasciarsi morire per l’amato. Per fortuna, a volte, interviene qualcuno di superiore, a volte un superiore normale, come in questo caso, a volte un superiore con la S maiuscola, che poi trova rimedi.”

Il Pastore per eccellenza: Colui che non abbandonerebbe mai le sue pecore ‘alla rapina’.



Per chi fosse interessato, ricordiamo il sito dell'agriturismo di cui si parla nel racconto

www.agriturismoricco.it


  




Nessun commento:

Posta un commento