PROLOGO
Marola, Monte Borello, anno domini 1089
Era
proprio un lupo.
Fermo, gli occhi metallici, pervasi d’apparente inermità, lo
fissavano.
Il pelo, lungo e scuro, si sollevava sul petto, accompagnando
gli sbuffi di vapore fuori dai canini serrati.
Era un lupo; immobile, e pareva enorme, seduto accanto
all’altro animale bagnato di sangue.
Lo guardava, e in quegli occhi scorrevano il vento e il
tempo delle stelle, la neve dell’inverno e il bollore estivo, le piume dei nidi
e l’esalazione tiepida del letame.
Fermo, come un dio antico, stava lì, illogicamente - lui,
belva - a proteggere un cinghiale ingannato dalla tagliola. Tutt’intorno si
levava un puzzo di fango, di foglie di castagno e il felpato profumo della
guazza.
L’eremita si avvicinò. Estrasse uno zufolo dal mantello.
Non ne uscì alcun suono, quando vi soffiò dentro, eppure il lupo parve
avvertire qualcosa.
Mosse le orecchie, annusò l’aria; sbadigliò, tirando fuori
la lunga lingua, e chinò il muso.
L’uomo ripose lo zufolo. Si avvicinò ancora e gli parlò
piano, come in preghiera.
Bello, quanto sei bello amico mio. Non aver paura.
Non si
mosse, il lupo, superbo. Bambino e schivo negli occhi. Abbassò ancora il capo, ma
impercettibilmente, quasi annuendo.
Bello, non aver paura; vediamo cos’è
successo al cinghiale, vuoi?
Dignitosamente,
il lupo scosse la pelliccia liberandola dall’umidità, poi si rizzò e, con
misura, si avvicinò all’uomo.
Con misura, l’eremita fece ancora un
passo verso di lui, si curvò, pose un ginocchio a terra e aspettò che la bestia
gli fosse proprio di fronte, fino a sentirne il fiato umido e l’odore pungente.
Lo accarezzò; lui reclinò le
orecchie e guaì piano.
Bravo, amico, bravo. Guardiamo cos’è
successo al cinghiale.
Come di
comune accordo, a passi lenti, uomo e lupo si accostarono al mucchio di pelo e
sangue avviluppato dai rovi.
È morto, vedi? Era un cinghiale
giovane, inesperto. Non respira più. La tagliola gli ha rotto l’osso del collo.
Il lupo osservò la bestia, poi
l’uomo; scrutò intorno annusando l’aria e, inaspettatamente, divenne irrequieto; negli occhi bambini si
accese un galoppare smanioso di luci.
Dal cielo stillava, intanto,
pioviggine invisibile di nevischio.
Una foschia rada, cotonosa, sostenuta dal vento, si
abbarbicava alle cime degli alberi, rotolava nelle radure e, come stormo di colombi
confusi, turbinava sull’erba secca.
D’improvviso, il lupo puntò in direzione dei castagni e
sparì, a passi morbidi, quasi in volo.
L’eremita sorrise, lo salutò con la
mano e si girò verso la preda.
Ti ho preso. Lo sapevo che la siepe non
ti avrebbe fermato. Dopo il tasso, ora è toccato a te. E la tua carne mi
basterà per un bel po’. E i miei cavoli, fino al prossimo ladro, saranno salvi.
Cavò un lungo coltello dalla cintura e ne infilzò la lama
tra il capo e il tronco della bestia; poi sollevò l’enorme tagliola, la bloccò
e ne estrasse la preda.
Non mi resta che portarti alla mia capanna, scuoiarti e ridurti
a fettine da far seccare. Accenderò un bel fuoco di ginepri e appenderò lì innanzi
la carne. L’aria, il gelo e il fumo del focolare basteranno, visto che sono
senza sale. Sei anche bello grasso, il che non guasta.
Si coprì il capo col cappuccio e s’incamminò, trascinando
l’animale in direzione di quella che sembrava una costruzione in pietra, giù,
oltre il castagneto.
Ogni tanto si fermava, scacciava le cornacchie che
becchettavano i grumi di sangue sulla bestia, controllava il tronco delle
piante, ne esaminava le scortecciature e le abrasioni - forse dovute ai palchi
dei cervi e alle zanne dei cinghiali - e scuoteva il capo.
Alla marchesa non piacerebbe vedere questo scempio,
bisbigliò. Devo suggerirle, quando tornerà, di permettere ai villani di cacciare
in queste zone, perché i lupi non riescono a contenere la crescita della
selvaggina e i castagni ne soffrono. Però aveva ragione quando insisteva perché
si piantasse questo castagneto… quanti poveri stiamo già sfamando!
In terra, tra le foglie, alcuni ricci sfuggiti alla raccolta,
o caduti in ritardo dagli alberi, custodivano ancora poche, piccole castagne.
L’uomo ne raccolse alcune, le spellò a dentate e prese a
rosicchiarle. Erano acquose, croccanti, di sapore acidulo, vagamente alcolico.
Sono già in amore,
mormorò tra sé; quelle che scamperanno al gelo e agli animali germoglieranno e
tante nuove piante ingrandiranno il castagneto. Poi dovrò innestarle… Ah! Chi
avrebbe pensato, quando ho cominciato, che questa terra rossa, appiccicaticcia,
dura sotto il sole, avrebbe dato così tanti buoni frutti?
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