giovedì 5 settembre 2013

BUTTARE VIA LE BAMBINE

dipinto di Lucia Della Scala



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 Quando ti succede, non ci credi. Ti trovi immersa in un mondo lontano, in un altro tempo, e ti rendi conto di quanto il tuo pensiero occidentale sia poca cosa, unilaterale, stretto, troppo stretto per comprendere la molteplicità del dolore e delle ingiustizie delll’umanità. Lavoro con gli stranieri adulti ormai da una decina d’anni; a loro cerco di insegnare la lingua italiana, che è poi il primo passo per comprendersi; che è il primo passo, per loro, verso l’uscita da quella situazione di balbettio infantile molto umiliante dovuto all’impossibilità di parlare. Perché quando non si conosce la lingua del luogo in cui si vive, si ritorna bambini, infanti (senza voce, senza parola), incapaci di esprimere quel che si ha dentro, inermi, e la mortificazione è infinita. Sono soprattutto le donne nordafricane e indiane a vivere tale situazione, perché spesso non possono uscire di casa da sole, vuoi per motivi strettamente religiosi e culturali, vuoi per la paura del nuovo contesto, vuoi per la mancanza di mezzi di trasporto e della patente di guida. Così, a scuola, ultimamente (e per fortuna) molte arrivano accompagante dai mariti. È proprio da una coppia di indiani sikh che mi è giunta, quest’anno, una richiesta di informazioni che mi ha lasciato senza fiato.
E su cui ho riflettuto a lungo. Sono indiani di religione sikh quelli che abitano il nord Italia ed è grazie a loro che le stalle sono ancora aperte e funzionanti; è grazie a loro che avviene la produzione del parmigiano reggiano. Lavoratori indefessi, poco attaccabrighe, gli indiani sikh provengono dal Punjab, uno Stato dell’India del Nord. Hanno un tempio a Novellara, nella bella, ordinata pianura reggiana, dove, una volta all’anno, festeggiano il vaisakhi (o baisakhi): la festa del raccolto. Mi ci ha portato uno dei miei allievi, qualche anno fa, ed è stato davvero entusiasmante. Quel giorno a Novellara, in piena pianura Padana, sembra di trovarsi in India. La moltitudine, coloratissima, è infinita. I turbanti turchesi, arancioni, bianchi e viola degli uomini fanno da contrappunto agli abiti sgargianti e agli ornamenti dorati delle donne e delle giovani ragazze. Tutti bellissimi, anche i nonni dalla lunga barba bianca e dagli acuti occhi sereni, con la veste sikh e il pugnale alla cintura. Il caos è mirabolante, ma la gentilezza nei modi e negli sguardi fa sentire a proprio agio, pure se ci si è dovuti togliere le scarpe, girare a piedi scalzi e mettere il velo sul capo. Scappa da tutte le parti, il velo, malgrado ciò le indiane lo portano con un’eleganza invidiabile, camminando a testa alta, con incedere nobile e pulito.
Nel giorno di “Baisakhi”, i Sikh dell’Emilia e delle regioni vicine arrivano qui al “gurdwara”, il tempio, per ascoltare le lodi a Dio e ricordare la fondazione della Kalsa (confraternita religiosa che riunisce i Sikh praticanti, che hanno ricevuto il “battesimo” e indossano alcuni simboli religiosi, come la barba e i capelli lunghi raccolti sotto il turbante) e consumare un pasto offerto a tutti gratuitamente. Una sorta di comunione eucaristica. Viene letto un brano del Siri Guru Granth Sahib, il libro sacro in cui sono stati raccolte le esperienze di santi Sikh, Musulmani, Sufi ed Hindu. Guru Gobid Singh lo consacrò come “Guru Vivente”, cui qualsiasi cercatore di verità si potesse recare per avere indicazioni per la propria vita. Il libro è una fonte spirituale al tempo stesso molto elevata ed accessibile: seguendo semplici indicazioni (capo coperto, piedi scalzi e, se si tocca personalmente il Guru, ovviamente mani pulite) è possibile consultarlo per ricevere un’ispirazione. La lettura è preceduta da numerosi canti e seguita dalla distribuzione della Guru Prasad e del Langar, pasto comunitario, appunto. Colpisce l’assenza di fretta, la calma e l’amabilità con cui le migliaia di persone presenti si muovono, si fermano a parlare, si siedono per ascoltare le parole del libro sacro trasmesse all’esterno del tempio dall’altoparlante; colpisce la bellezza dei volti, l’eleganza degli abiti, l’ordine nell’assoluto e mescolato viandare. È un caos ordinato e pacifico, rumoroso, ma riguardoso delle persone: nessuno che ti sbatta contro, nessuno che ti spinga, nessuno che ti rivolga sgarbatamente la parola. Viene voglia di pregare dinanzi al simbolo sikh che, come una lunga antenna piantata a fianco del tempio e rivestita di un drappo arancione, ricorda il campanile e la croce delle nostre chiese. Ed è così che me lo ha spiegato allora il mio studente Varinder: “Quello è il nostro simbolo, è come la vostra croce”. Alta, fino al cielo, per portare a Dio le preghiere di tutti i suoi figli. “Speriamo solo che non si fermino lì” – ha concluso Varinder indicandone la sommità. Ho sempre avuto grande simpatia per i miei studenti indiani: sono aperti, affabili, con un senso dell’umorismo incredibile, capaci di forte autoironia, molto diligenti e rispettosi. Con alcuni, ragazzi e ragazze soprattutto, ho stabilito anche bei legami d’amicizia. Così ho imparato, dalle loro confidenze e racconti, quel che dai libri non si impara. Il matrimonio combinato, per esempio, che noi vediamo come una forte ingiustizia nei confronti delle ragazze, è visto dalla maggior parte di esse come un segno d’amore, interesse e protezione da parte dei genitori. “Se i miei genitori mi amano, - mi ha detto Malkeet prima di sposare l’uomo che le avevano scelto,- faranno sicuramente in modo di trovarmi l’uomo giusto, no?”. E spendono tanto, le famiglie indiane, per sposare le figlie: ci vogliono dai ventimila euro in su, perché è la moglie che “paga” il marito, al contrario di quel che succede nei paesi africani, dove è il marito a “pagare” la moglie. Ecco che, allora, fare figlie femmine è un debito, amenochè non le si compensi con altrettanti figli maschi che, una volta giunti al matrimonio, riporteranno a casa un bel po’ di soldini grazie alla “dote” delle mogli. Certo, le ragazze indiane qui vanno a scuola, studiano, hanno un minimo di libertà (molto controllata), ma non possono scegliere di vivere come le ragazze occidentali e, addirittura, un indiano mi ha confessato che si sarebbe trasferito in Calabria, a San Luca, perché laggiù, rispetto all’Emilia, le consuetudini riguardo alle donne e ai giovani sono più simili alle loro. “I vostri matrimoni non durano, - dicono, - e se una ragazza o un ragazzo indiano si sposasse con qualcuno di voi, poi il matrimonio non durerebbe.” Le giovani spose indiane non paiono infelici e i mariti mi dicono, ridendo, che non fanno niente, che dormono, guardano la televisione e, quando vanno insieme a fare la spesa, tocca ai maschi trasportare le borse, perché alle donne fa sempre male qualcosa: “Non ha forza, mia moglie, - mi dice Narinder,- non porta neanche tre litri di latte. Invece, le donne italiane sono forti anche da vecchie! La moglie del mio titolare (il padrone della stalla n.d.r.) solleva anche sacchi da mezzo quintale e ha sessant’anni!” Rifletto che stare tutto il giorno confinate in un appartamento non fa bene alla salute fisica e, soprattutto, psicologica… Ma qualche moglie che lavora comincia a vedersi: le bollette si accumulano e i mariti capiscono che vivere qui richiede anche il contributo lavorativo delle mogli. Così c’è Jasvir che lavora (di notte) in una fabbrica di biscotti, ha la patente e il marito la lascia uscire da sola in auto senza problemi; di più: l’aiuta con i lavori di casa e la gestione dei figli, cosa difficile anche per un italiano! Credevo di aver ben compreso la cultura dei sikh, di aver letto e ascoltato abbastanza. La loro religione è molto vicina al cristianesimo per molti versi; non hanno il sistema terrificante delle caste e non sono chiusi nei confronti delle altre religioni. In teoria, poi, le donne dovrebbero avere assoluta parità con gli uomini, tanto che assumono il cognome “Kaur” (leonessa) come gli uomini assumono il cognome “Singh” (leone) per ricordare che sono leonesse della fede e possono guidare la preghiera come un uomo. In teoria, perché in pratica la cultura che sta sotto è quella atavica che sta sotto tutti i patriarcati, il nostro occidentale compreso. La donna è inferiore; la donna va custodita, controllata; la donna conta meno di un uomo; la donna conta anche niente. E può essere fatta fuori con assoluta naturalezza prima che venga al mondo solo, appunto, perché è donna. Ecco che, una mattina di maggio, arriva a scuola una simpatica coppia di indiani appena rientrati da un viaggio nella città natale. Non li vedevo da un mese. La coppia ha due bellissime bambine con grandi treccione che frequentano la scuola primaria con ottimo profitto. Chiedo di parlarmi del viaggio, chiedo delle figlie; mi raccontano dell’India e mi dicono che le bambine stanno bene. Poi, alla fine della lezione, quando tutti gli altri studenti se n’erano andati, si avvicinano a me e mi chiedono informazioni per fare un’ecografia. Li indirizzo all’ospedale e al medico di base, ma loro insistono che vogliono farla a pagamento. Chiedo cos’è successo, se sono malati e lui mi risponde: “No, vedi, lei è incinta, io ho già due femmine e non posso permettermene un’altra. Allora, facciamo l’ecografia e, se è femmina, tiriamo via la bambina e la buttiamo via.” Quando ti succede, non ci credi. Ho avuto i brividi, eppure, la naturalezza con cui egli mi aveva detto quella frase lo rendeva innocente, perché inconsapevole. Sì, ho anche pensato a quanti bambini, per altri motivi, noi “buttiamo via” nel nostro mondo “civile”, ma qui venivi fatto fuori solo perché donna. Terribile. Mi si è chiuso lo stomaco. Il 18 febbraio 2013, il governo centrale dell'India ha identificato 100 medici che saranno condannati per aver condotto aborti selettivi di feti femminili in tutto il Paese. Lo ha riferito l'agenzia di informazioni missionarie AsiaNews, raccontando che l'indagine era partita dal Ministero per la Salute, che attraverso l'Associazione medica nazionale aveva individuato i trasgressori del Pre-conception & Pre-Natal Diagnostic Techniques Act 1994, legge che rende illegale l'uso di particolari esami per determinare il sesso del feto. In base al decreto, gli indagati rischiano ora dai 6 mesi ai 5 anni di carcere, oltre a una multa e la sospensione (o cancellazione) della licenza. Pascoal Carvalho, medico membro della Pontificia accademia per la vita, ha detto ad AsiaNews di considerare ''positiva'' la mossa del ministero per la Salute, perche' ''usare forti deterrenti puo' aiutare a prevenire simili forme di discriminazione e a punire i colpevoli''. Secondo i dati di uno studio pubblicato nel 2012, almeno 3 milioni di bambine nel 2011 sono rimaste vittime di aborti selettivi. TRE MILIONI DI BAMBINE. "La forte influenza patriarcale - nota il medico di Mumbai - trova il suo consenso nella religione, nella cultura e nella tradizione dell'India. Essa rafforza questa radicata discriminazione nei confronti delle bambine. Il feticidio femminile significa abortire solo perché si aspetta una femmina. E nonostante nel Paese la determinazione del sesso sia illegale, tale pratica è in crescita". Secondo il dr. Carvalho, il fenomeno degli aborti selettivi e degli infanticidi femminili "dipendono in gran parte da una 'cultura della morte' diffusa nella società indiana". Oltre alle conseguenze sul breve periodo - come la scomparsa di 3 milioni di bambine - tali pratiche avranno ripercussioni a lungo termine. "I demografi - spiega il medico - avvertono che tra 20 anni non ci saranno abbastanza spose, ed è inoltre previsto un generale calo della fertilità. Alla luce di questo, governo, società civile e famiglia devono lavorare a stretto contatto per fermare questo malessere sociale". In Haryana, uno Stato proprio sotto il Punjab, il Dipartimento per la salute ha annunciato che tutte le donne incinte che devono eseguire ultrasuoni, dovranno presentare una fotocopia del loro documento d'identità. Sarà responsabilità dei radiologi richiedere tale fotocopia. Quando succede, non ci credi. Ho pensato a quanto il passato sia qui, in realtà, a quanto ancora sia presente nelle nostre culture con errori – peccati? – tanto spaventosi. Ho pensato alle “etere” del mondo greco antico:bambine “esposte, cioè abbandonate in strada alla nascita, raccolte da chi poi le avrebbe allevate come prostitute . “ETERE. - Col nome di etère (ἑταῖραι "compagne"), chiamavano i Greci le cortigiane. Nel mondo greco, essendo il matrimonio sentito piuttosto come un dovere, l'uomo non prendeva moglie se non dopo aver saggiato, un po' più un po' meno, la vita libertina. I rapporti che i giovanotti avevano, anche pubblicamente, con le donne di facili costumi non sembravano scandalosi. Di solito l'etera ha un'educazione superiore a quella delle ragazze di buona famiglia, ed ha, oltre all'eleganza del vestire e dell'ornarsi, negata alle madri di famiglia, oltre alla libertà di uscire in pubblico e frequentare con disinvoltura il mondo maschile, anche un garbo di modi che può accompagnarsi a finezze di sentimento. Per i Greci, infatti, l'etera è di regola la donna destinata sin dall'infanzia a essere strumento di piacere. A ciò contribuiva il fatto che le femmine esposte dai genitori venivano di solito raccolte da speculatori che le allevavano per farne delle cortigiane. Anche l'etera risponde a una necessità sociale, in quanto la vita in pubblico dei Greci è senza donne: a un banchetto di uomini una donna seria si sarebbe ben guardata dal fare anche un'apparizione fugace; perciò quando gli uomini banchettavano, facevano intervenire le etere.” Quando succede, non ci credi; ma l’umanità è questa: innocente, tutto sommato, perché, come disse il Galileo dalla croce, non sa quello che fa.
Il Notiziario "In Dialogo"

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