giovedì 18 ottobre 2012

MIO INTERVENTO AL SEMINARIO DI APERTURA DELLE SCUOLE DI ITALIANO DELLA DIOCESI DI MILANO - 20 ottobre 2012

http://www.chiesadimilano.it/chisiamo/struttura-persone/2.1293/ufficio-per-la-pastorale-dei-migranti/news-per-home/parlare-con-cura-luogo-di-apprendimento-e-spazio-di-socialit%C3%A0-1.65134


sabato 20 ottobre 2012

Parlare... con cura. Luogo di apprendimento e spazio di socialità

Il Seminario di apertura delle scuole di italiano per stranieri in parrocchia avrà luogo sabato 20 ottobre a partire dalle ore 14.30 a Milano presso la Fondazione Lazzati (Largo Corsia dei Servi, 4)
 
Dopo undici anni di "Tra le righe: la scuola di italiano per stranieri in parrocchia" ripartiamo dallo slogan degli inizi. Per fare il punto della situazione, per verificare la validità di una filosofia, per vedere se "siamo ancora sul pezzo".
Qual'è il senso del nostro essere volontari oggi? E l'esserlo da cristiani o, comunque, in un luogo cristianamente connotato?
Si prega di segnalare la propria presenza al Servizio per la Pastorale dei Migranti tel. 02.8556.455/456 - fax 02.8556.406, migranti@diocesi.milano.it



Abstract del mio intervento

Una lingua diversa in terra straniera


di Normanna Albertini


Insegnare l’italiano come seconda lingua puntando sulla funzione relazionale della lingua stessa e non sull’acquisizione delle regole grammaticali è cosa differente dall’insegnamento della lingua straniera.

Infatti, per gli immigrati, sia adulti e sia bambini, l’italiano non è la “prima” lingua - quella materna - ma nemmeno si tratta della lingua straniera veicolata dai libri di testo a scuola. È una lingua in cui essi sono immersi e che, in parte, viene acquisita spontaneamente.

È importante dunque, per i docenti di ogni ordine scolastico, prenderne atto e, al di là dell’organizzazione didattica e curricolare, capire che la figura tradizionale dell’insegnante e la strutturazione altrettanto abituale delle classi, non sono più adeguate alle necessità di questa nostra nuova società multilingue e cosmopolita.


È abbastanza rapida - nell’ordine di due o tre mesi per i più svelti, di sette o otto mesi per gli altri - l’acquisizione di una competenza linguistica sufficiente per afferrare i messaggi e per attuare un minimo di comunicazione.

L’apprendimento della nuova lingua ai fini dello studio è invece molto più complesso e “lento” e quella dei 12/13 anni è la soglia dell’ “età critica

La motivazione è fondamentale, perché il modo di porsi dell’immigrato nei confronti della nuova lingua (e le fasi del suo perfezionamento) derivano anche dal valore e dal significato che egli le attribuisce; la lingua può essere vista come strumento per la sopravvivenza, come mezzo di integrazione sociale e di miglioramento economico, oppure come unica possibilità di interagire e socializzare con gli autoctoni.

È dunque indispensabile per gli insegnanti stendere un curricolo di riferimento, ricordando, però, che tale programmazione deve rimanere sottintesa, flessibile: una base più che un percorso.

Bisogna essere capaci di accantonare quel che, in itinere, si capisce essere non attuabile, sostituire, aggiornare. In realtà un curricolo di riferimento serve, ma va tenuto implicito: si tratta di cercare di individuare, allievo per allievo, quali elementi vengono via via acquisiti: acquisizione che non avviene (sol)tanto nelle ore di scuola, sulla base di una programmazione, ma soprattutto nella vita quotidiana.

È attraverso la prova di ingresso che si stabilisce in quale livello collocare l’apprendente e quale percorso formativo programmare. Un aspetto più tecnico, ma da non sottovalutare, riguarda la scrittura in cui una persona è stata alfabetizzata: l’alfabeto latino, altre scritture alfabetiche o scritture logografiche. Per persone debolmente alfabetizzate in lingua madre, questo può avere un’influenza importante nella lettura e scrittura in lingua italiana.

Lingua e cultura sono in stretta connessione.

È la lingua a determinare un’appartenenza (pensiamo al fatto che i popoli colonizzatori, per prima cosa, impongono la loro lingua, spesso cancellando quella d’origine), a esprimere una differenza, perciò, parlare una lingua “diversa” in terra straniera è già sintomo di “estraneità” e può generare i primi pregiudizi. Il bisogno di imparare la nuova lingua per assicurarsi la sopravvivenza va di pari passo con la sensazione di sradicamento e, contemporaneamente, con la necessità di non abbandonare la propria cultura e la propria lingua nella nuova terra.



Chi arriva da “fuori” ha già un suo bagaglio di conoscenze e tutto un capitale educativo con accezioni proprie; non sa parlare, si trova nella situazione disagevole di un “infante” (privo di parola), ma non lo è. Questo lo porta a rinchiudersi e a non essere disponibile a mettere in discussione la struttura delle proprie conoscenze.

Le maggiori esperienze di vita (pensiamo ai ragazzi che arrivano come clandestini, dopo avere oltrepassato diverse frontiere e avere vissuto di espedienti per mesi o anni) potrebbero ostacolare i nuovi apprendimenti, mentre, al contrario, le maggiori conoscenze e il percorso scolastico precedente (l’esempio tipico è quello di chi proviene dalle scuole dell’Est Europa) possono favorirli. Gli studenti più grandi e con un buon bagaglio culturale domandano sempre una comprensione cosciente delle regole. Spesso succede che arrivino nelle nostre scuole pensando di imparare la lingua con il metodo grammaticale – traduttivo, quando le metodologie più usate si rifanno, nella nostra didattica, al criterio comunicativo-affettivo.

C’è poi tutto il discorso della figura del docente, di quanto questi sia caricato di autorevolezza in molti dei Paesi di provenienza e di quanto, invece, venga percepito come poco autorevole da noi. Chi proviene da altre aree culturali ha della scuola e degli insegnanti un’immagine molto tradizionale che fa a pugni con quella “dialogante” delle nostre scuole.



Insegnare la lingua, non la sua descrizione

Ciò che spesso mette in crisi, e a ragione, gli insegnanti è l’alta varietà dei livelli di competenza: ci si trova con studenti ben scolarizzati e con altri poco o per niente alfabetizzati nelle lingue di origine; questi ultimi necessitano di acquisire anche le tecniche della lettura e della scrittura.

In questo caso i materiali didattici in commercio sono molto scarsi e sta alla buona volontà dell’insegnante costruirseli. I miglioramenti di questi allievi saranno lentissimi.

Ci si sente chiedere di volere imparare “la grammatica”, come se apprendere le nozioni fondamentali di una lingua significasse automaticamente saperla padroneggiare, mentre la conoscenza della grammatica non significa padronanza della lingua.

È come se, avendo un problema alla spina dorsale, andassimo dal medico che, invece di avviarci a qualche corso di ginnastica o fisioterapia, ci desse da studiare i nomi di tutte le ossa della schiena. La grammatica è la “descrizione” della lingua.

Essendo italiani e insegnando agli italiani, pensiamo che la cosa più difficile della lingua sia, ad esempio, la coniugazione dei verbi, in particolare per quanto riguarda il periodo ipotetico.

Invece, quel che a noi sembra semplice, quasi mai lo è per uno straniero.

Quel che per noi è banale, come l’articolo, per uno straniero può diventare un ostacolo insormontabile. Ci sono lingue in cui gli articoli non esistono o non vengono usati (come il russo e l’ucraino), altre in cui ce n’è uno e per di più indeterminativo, come l’albanese, altre ancora, come l’inglese in cui ce ne sono due, uno determinativo e uno indeterminativo, ma il cui uso non corrisponde in italiano.



Conclusioni: perché tra due lingue non vinca il silenzio

Ciò che bisogna evitare, come insegnanti, è di indurre al silenzio gli stranieri (invece di fornire loro delle “opportunità stabilizzanti”) perché incapaci, noi, di comprendere e (ri)conoscere la nostra difficoltà e inadeguatezza.

Un silenzio espresso molto bene dalla scrittrice Julia Kristeva: «Il silenzio non vi è soltanto imposto, è in voi: rifiuto di dire, sonno striato attaccato a un'angoscia che vuole restare muta, proprietà privata della vostra discrezione orgogliosa e mortificata, luce tagliente, ecco cos'è il vostro silenzio. Nulla da dire, niente, nessuno all'orizzonte.» (Kristeva, 1990)

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