domenica 7 ottobre 2012

ISABELLA - mio secondo romanzo


CAPITOLO IV



MESSIEURS LES VERRIERS, A L’OUVREAU!


Isabella! Isabella! Chiama don Paolino! Correte!

Caterina entrò ansimante nella cucina della vecchia canonica; era sporca, arruffata e puzzava di stalla.

- Che c’è, che vuoi? – don Paolino indugiava, seduto a lato del focolare, l’“Imitazione di Cristo” tra le mani, intanto che Isabella sciacquava i piatti della cena.

- Oh! C’è il diavolo nella stalla! Bisogna che voi, zio, veniate con l’acqua benedetta!

- Il diavolo? Ma che dici!

Il vecchio parroco si alzò a fatica, scocciato dalla visita, importuna a quell’ora; lasciò cadere il libro sul tavolo e si accinse ad calzare gli scarponi.

- Va bene, andiamo a vedere, e vieni anche tu, Isabella: non è bene che resti sola in casa…con il signor Francesco!

Isabella arrossì: proprio non riusciva a bloccare quel segno che palesava così vivamente le sue emozioni.

- Ma zio, lui dorme! Comunque vengo, vengo. - poi, rivolta alla sorella: - Insomma, vuoi spiegarci cos’è successo?

- Beh, il maiale sta male!

Don Paolino scoppiò a ridere, mentre si infagottava nel tabarro e s’infilava un largo basco sui folti riccioli bianchi.

- Come… sta male? – rise sarcastico - Tanto tuo padre deve ammazzarlo! Dai, andiamo. Cosa c’entra poi il diavolo con un maiale che sta male, mah!

Uscirono nella neve. Il prete marciava velocemente, e allungava i passi, almeno per quel che gli consentivano le sue corte gambe, bofonchiando tra sé e sé:

- Per un maiale, mi chiamano! Oh Signore! Tanti studi, il seminario, la teologia, i filosofi e poi…per un maiale, mi chiamano! Oh… “miserere mei, Deus secundum magnam misericordiam tuam…”

L’aspersorio, agitato stizzosamente nella mano destra, rifletteva barlumi della luna illividita.


Il maiale era là, steso nella neve; all'intorno, tutta la popolazione della borgata a fare domande e a dare suggerimenti.

- Tommaso! Che ha mangiato oggi il tuo porcello?

- Fate bollire dei semi di lino e fateglieli bere!

- No! Meglio una bottiglia di camomilla! Armida, tu l’avevi raccolta vicino al pollaio, ne hai in casa, vero?

- Ci vuole una benedizione! E accendete una candela a Sant’Antonio!

- Perché non gli dai un fiasco di vino, eh Tommaso?

- Ma quale candela! Ecco, vedete? Si riprende! Si sta alzando!

In effetti, il roseo animale stava cercando di rimettersi in piedi, ma slittava sulla neve pesta e ghiacciata. Tommaso lo sollevò per i magri prosciutti, ghermendo il codino a truciolo.

La bestiola emise un grugnito acuto, parve misurare le proprie forze poi sgambettò vacillando verso la porta della stalla.

Don Paolino non si capacitava; si rivolse al nipote:

- Si può sapere cosa capita qui? Perché mi hai mandato a chiamare?

- Venite, zio – replicò Tommaso, ch’era più sporco, puzzolente e tremante del maiale – venite e giudicherete.

La stalla era una stanza stretta e bassa, con il posto per quattro vacche, la tromba per il fieno, che veniva rovesciato dal fienile sovrapposto, e un angolo per il maiale. Le pecore e le capre stavano nella capanna lì a fianco. Dalle travi, come vezzose cortine, penzolavano vetuste ragnatele rigonfie di polvere. Una delle vacche doveva aver appena partorito, visto che il cordone ombelicale, ancora saldato alla placenta, le ciondolava da dietro, imbrattato di sangue.

Sul fieno, in effetti, Caterina stava tergendo, con un sacco di juta, un bel vitellino dal pelo rossiccio. In alto, sulla porta, una nicchia accoglieva l’immagine di Sant’Antonio abate attorniato dalle sue bestie.

- Che cos’è questo?

Il prete indicò un catino pieno di cenere e braci posato su un panchetto.

Tommaso si avvicinò e si scaldò le mani.

- Non sapevo quando la Bianchina avrebbe partorito, poteva andare avanti tutta la notte e io avevo freddo! Volevo scaldarmi.

In quel momento il maialino, che prima sembrava essersi ripreso, cominciò di nuovo a vacillare e stramazzò a terra.

- Ossignore!!! Ricomincia!

Tommaso si precipitò sul presunto indemoniato e si apprestò a trascinarlo di nuovo nella neve.

- Datemi una mano! E’ magro, ma è pesante, lo schifoso! E’ la terza volta che lo porto fuori!

Ormai, tra la stalla e il cortile, si era delineato un solco di paglia, fieno e letame, largo come la pancia del maiale, immediatamente solidificato e inglobato, in parte, dalla neve che continuava a cadere. I bambini, intorno, sfruttando la luce scialba dei lumi a petrolio, scagliavano palle gelate, rincorrendosi fra la gente. Ripigliarono i commenti più insensati:

- T’hanno fatto il malocchio, Tommaso! Chiama la Pagana e fattelo togliere!

- Ma no! E’ che lì dentro c’è troppo caldo. I maiali non si devono tenere insieme alle vacche!

- L’avrà punto uno scorpione, anche se ormai non ce n’è svegli e poi non sono più velenosi: non è ottobre!

- Te l’ho detto: dagli del vino, vedrai che si rimette in piedi!

Don Paolino, intanto, aveva afferrato il recipiente con le braci e ne aveva capovolto il contenuto sulla neve, provocando un po’ di fumo e un lieve sfrigolio.

- Appena si rialza, portalo nella stalla – ingiunse seccato a Tommaso – e non ti venisse più in mente di usare le braci per scaldarti!

- Che dite, zio? Che c’entrano le braci? Solo il maiale s’è sentito male, io e le vacche no!

- Ti è andata bene che il vitello l’hai portato nella tromba, dove c’è più aria, altrimenti lo facevi asfissiare appena nato!

- Ma, zio: una benedizione alla stalla la date, vero? Già che siete qua…

Questi erano i suoi parrocchiani, il suo gregge; poveri, incolti, rassegnati alla miseria. Rivoluzionari, massoni, carbonari, socialisti provenivano, invece, da ceti elevati, dalla nobiltà e dalla borghesia della pianura e delle città.

Tra i nove condannati a morte nel processo di Rubiera, di cui egli serbava memoria per l’esecuzione a cui aveva assistito e per il tanto parlare che se n’era fatto in casa, non c’era un poveraccio. C’erano il sacerdote Giuseppe Andreoli di San Posidonio, poco più che trentenne, dotto e amato educatore, i signori abbienti Giovanni Sidoli, Sante e Francesco Conti di Montecchio, il dottor Carlo Franceschini di Burano, il dottor Prospero Pirondi di Reggio, il dottor Pietro Umiltà di Montecchio, il conte Giovanni Grillenzoni Fallappio di Reggio, e il segretario comunale di Montecchio, Pietro Bosi.

Il popolo aveva altro di cui occuparsi e, esclusi certi anarchici esagitati come il padre di Libero, l’unico cruccio era riempire la pancia e giungere in vita al giorno dopo.

Cosa predicare a questa gente? In fondo, i pastori, se potevano, rubavano l’erba nei campi altrui e non credevano affatto di commettere un’infrazione. I bambini, a scuola, non li si mandava, perché dovevano guadagnarsi il pane. Le ragazze, anzitutto, restavano analfabete, e lavoravano come muli, a volte mandate a servizio presso le famiglie più abbienti, nei paesi vicini, anche a soli nove o dieci anni, o nelle città, lontano; persino in Francia.

Con gravissimi pericoli per la loro integrità fisica e morale.

L’Italia era unita, finalmente, ma così giovane e povera, ignorante e affamata, come avrebbe potuto sperare in una possibilità di progresso umano e sociale?

Il generale Fiorenzo Bava Beccaris, responsabile dell’eccidio di Milano, era stato insignito, il 6 giugno, della gran croce dell’Ordine militare di Savoia, per il servizio reso “alle istituzioni e alla civiltà” da re Umberto in persona. La repressione nei confronti della Chiesa, in maggio, era stata terribile: ben settanta comitati diocesani erano stati sciolti, così come quasi tremila comitati parrocchiali e associazioni legate all’Opera dei congressi, un’organizzazione d’ispirazione cattolica.

E per fortuna non erano passate le proposte del capo del governo Di Rudinì, che voleva sancire il divieto di sciopero e di associazione per i dipendenti pubblici, limitare la libertà di stampa e di insegnamento, militarizzare i ferrovieri e i lavoratori delle poste, aggravare le disposizioni sul domicilio coatto; per fortuna il governo era caduto.

Con tutto ciò, a Casa degli Osti, vivere sotto un re o sotto un duca non faceva differenza.

Quel duca che, dopo aver destinato al patibolo don Giuseppe Andreoli, per accattivarsi di nuovo la simpatia del popolo, aveva finanziato l’edificazione della piccola chiesa di Frassinedolo, villaggio posto in una ridente conca vicina.

Viste dai miseri paeselli, dove allarmava di più lo svenimento di un maiale che una persona morente, erano quasi comiche le dichiarazioni di Francesco IV d’Este al congresso indetto a Verona nel 1822 dalla Santa Alleanza sulle idee di unità d’Italia post napoleoniche in parte realizzate:

" ... I principali difetti adunque possono ridursi ai seguenti: La mancanza di religione e l'avvilimento nel quale si è voluto gettarla, come la guerra costante che si è fatta ai suoi principii, alle sue pratiche e ai suoi ministri. La diminuzione del Clero e l'avvilimento nel quale si è voluto gettarlo, come la sua indipendenza dal Capo della Chiesa, che si è voluto introdurvi. L'annientamento della Nobiltà, privandola di tutte le sue prerogative, volendola impoverire, avvilire ed eguagliare alle classi inferiori…”

Continuando in questo tono, aveva enumerato, il duca, ben dodici difetti, poi era passato alle cause delle rivoluzioni:

L'ozio, che è molto amato in Italia e che bisogna vincerlo e combatterlo, giacché trascina tutti i vizii ed è una grande sorgente di rivoluzioni. Il grande amalgamamento continuo con tanti forastieri che sono incessantemente in moto per tutta Italia, e che portano dappertutto la corruzione dei costumi, e guastano lo spirito nazionale e i buoni principii. La soverchia lungaggine nell'amministrazione della giustizia, vuoi nei processi civili, vuoi nei criminali.

La instabilità delle imposte, che è talvolta più sensibile e dispiace più della gravezza delle medesime.

Certe imposte vessatorie nel modo di percezione, o che non sono ben proporzionate e divise; come ancora, allorché per uno squilibrio delle finanze si è obbligati a sopraccaricare il popolo di tasse.

Le leggi che inceppano il libero commercio delle derrate, principalmente quelle di prima necessità, dei commestibili, ecc.; giacché la mancanza o la penuria dei medesimi suscitano egualmente lagnanze e mormorazioni, come la loro troppa grande abbondanza che ne avvilisce il prezzo e avvezza troppo la plebe a una felicità, che, non potendo durare, la rende infelice, allorché finisce; invece che il libero commercio di quelle derrate la tiene sempre in certo equilibrio".

Ma a Casa degli Osti, vivere sotto un re o sotto il duca non faceva differenza. Non ricordavano tutto quel benessere che, secondo Francesco IV, con l’unità d’Italia era andato perduto.

Lì era sempre stata una scommessa vivere.

Proprio qualche giorno prima, don Paolino, accompagnato da Isabella, si era recato a casa di Giannona, per portare il viatico alla vecchia madre morente.

Lo stato in cui aveva trovato la donna l’aveva stomacato e turbato; e dire che alla miseria, ormai, era avvezzo!

La camera era un basso sottotetto, con la neve che penetrava dalle fessure tra le assi e le tegole.

Seduto in un angolo, intabarrato in una giacca di fustagno, gli occhi concentrati sulla nonna, il povero Libero si cullava canterellando una nenia incomprensibile.

L’infelice era là, come dimenticata, sprofondata nel giaciglio più sudicio e bizzarro che si potesse immaginare: un vecchio letto dalle testiere di ferro cui erano fissati, con robusti canapi, dei lunghi randelli a mo’ di sponde. L’odore, nonostante il gelo, era insopportabile.

Quando il prete si sedette per avvicinarsi a lei e provare a confessarla, si rese conto che da sotto il letto pendevano lunghi, giallicci ghiaccioli. E che, sul pavimento di gesso, gli escrementi avevano formato una lucida pozza gelata.

Ha sete; una sete implacabile. Il petto incendiato dal calore del forno. “Messieurs les verriers, à l'ouvreau!” Non ne può più di quel grido: ogni volta gli esplode nel cervello come una schioppettata. Non ne può più: è stremato; la sete è crudele, lo spasimo, al costato, lancinante. Eppure non ha via di scampo: deve cogliere il vetro bollente e porgerlo all’ouvrier; non può ascoltare il dolore, la sete, la stanchezza. E non può tossire, per non far scivolare la bolla incandescente. Perché si era lasciato convincere a partire? Perché aveva seguito l’Antoniaccio? Non era meglio la sua vita di pastore laggiù, a Casa degli Osti?
- Mamma, - bisbiglia, mentre la vista si confonde – mamma! Vieni a prendermi!
L’urlo del souffleur, che attende inquieto la materia da lavorare, di nuovo gli scoppia nella testa. Dov’è la mamma? Perché non viene a liberarlo? Eppure sente la sua voce.
- Bambini, vi racconto una fola.
- Sì, mamma, quella della capra ben abbeverata e ben satolla!
- Certo, la capra Margolla! Ascoltate! C'era una volta un uomo che aveva tre figlioli, i quali non avevano voglia di lavorare. Allora egli disse:" Ah figlioli miei! Voi non avete voglia di lavorare perciò io domani vado alla fiera, e vi comprerò una capra". Il giorno dopo andò alla fiera, e comprò una bella capra. A casa ordinò al più grande: " Vedi, domani dovrai pascolare questa capra: se tu non la riporti satolla, la sera quando torni, ti taglio la testa.
E se non è satolla, la capra me lo dirà " - " Sì, padre, stai tranquillo ".
Il ragazzo al mattino si alzò, prese la capra e andò nel bosco. La fece mangiare fino a scoppiare, poi le chiese: "Capra Margolla, sei bene abbeverata e ben satolla? " e la capra rispose: "Son bene abbeverata e ben satolla, benedico il padron che mi ha guardato!"
Era ormai notte e il ragazzo, prima di partire, ridomandò alla capra: " Capra Margolla,
Sei bene abbeverata e ben satolla?" "Son bene abbeverata e ben satolla, benedico il padron che mi ha guardato!" Il giovane, contento, riportò la capra nella stalla, e poi lo riferì al padre, che gli chiese " L'hai satollata bene? " Rispose di sì. " Ora vado giù a sentire dalla capra ". Ma la brutta capra, al padrone che le chiedeva: " Capra Margolla, sei bene abbeverata e ben satolla? " rispose: " Son male abbeverata e mal satolla, maledico il padron che mi ha guardato! "
L’uomo prese il figlio maggiore e l’ammazzò.
No! Non doveva! Quella capra bugiarda! Bugiarda come l’Antoniaccio Cecchi. Giovannino raccoglie con la canne l’ennesima bolla di vetro fuso e la porge all’ouvrier, ma il polso trema, gli occhi si velano per il riverbero delle lingue di fuoco, il calore e la debolezza; le gambe non lo reggono più.
- Mamma…
La canne gli cade dalle mani ed egli si affloscia sul pavimento.
Lo ridestano con una secchiata d’acqua e gli impongono, sbraitando, di rimettersi al lavoro, che quello non è posto per fannulloni!
Ma lui non è un perdigiorno. La capra è bugiarda, bugiarda! Racconta che non l’ha nutrita, che è un pastore malvagio. E adesso, papà Tommaso se la prenderà con lui? L’ammazzerà?
Si aggrappa al souffleur e piange:
- Mio buon padre…
Di nuovo lo bagnano gettandogli in faccia un altro secchio d’acqua. Sembra riaversi; anche la vista è ora più chiara. Oh! Maledetto Antoniaccio! Bugiardo! Bugiardo! Tutte quelle promesse di tanto denaro, un lavoro leggero, cibo in abbondanza e un letto pulito per la notte!
Che orrore, che inferno è anzi quello!
Riprende a pescare il vetro dal forno, ma il dolore al petto è sempre più violento e la vista gli si oscura di nuovo. Deve resistere, fino a sera, quando rientrerà nella sudicia baracca e si butterà, vestito dei cenci sudati, sul tavolaccio che gli fa da letto, avvolgendosi nell’unica coperta rosa dai topi e invasa dai pidocchi.
Con lui tanti piccoli italiani, alcuni di soli nove anni, spediti laggiù dalle famiglie a far fortuna. A volte venduti a mediatori farabutti, come l’Antoniaccio. Quanti ne aveva visto morire in quei pochi mesi? Si facevano bluastri, gli occhi gonfi, lo sguardo perso nel vuoto; sempre più magri, vacillanti. Ad alcuni veniva la schiuma alla bocca, vomitavano in continuazione; altri spandevano direttamente nei calzoni i loro bisogni e nessuno li cambiava, nessuno li puliva. L’odore nella baracca era insopportabile.
No, lui deve resistere, e tornare a casa!
- Mamma, - sussurra frastornato – appena sono in grado scappo.
Gli pare di sentirla, la mamma, che dolcemente riprende a raccontare la sua fola:
-…Allora l’uomo andò dal figlio di mezzo: " Quel che ho fatto a lui, domani sera lo farò a te se tu non satolli la capra ". Il poveretto, pieno di paura, la mattina s'alzò, prese la capra e la portò nel bosco. E di nuovo: " Capra Margolla, sei bene abbeverata e ben satolla? " e la capra birbona rispose:
- " Son bene abbeverata e ben satolla, benedico il padron che mi ha guardato! " Ma alla sera:"Capra Margolla, sei bene abbeverata e ben satolla? " - ribatté la bugiarda:" Non sono né abbeverata né satolla, maledico il padron che mi ha guardato! "
- Mamma, appena posso scappo…qui mi ammazzano come nella fola!
Continua a tirare su quelle bolle di fuoco dall’inferno e prova a concentrarsi sulla favola per non perdere i sensi. Com’è che andava a finire? Ah sì! Il padre prese quel figliolo e l'ammazzò, ma l’altro, il piccino, s'impaurì: - "Domani sera ci sono io... "- La mattina si alzò, prese la sua capra, come avevano fatto i fratelli, per andare al bosco. Là giunto, disse: " Tu hai fatto morire i miei fratelli, ma oggi devi morire te!" Prese una fune e legò la capra per il collo. L’annodò a una quercia, tagliò un arbusto con il pennato e… giù botte! Intanto chiedeva:" Capra Margolla, sei bene abbeverata e ben satolla? "
Ride, Giovannino, mentre continua a passare la canne all’ouvrier: s’immagina l’Antoniaccio legato all’albero con una grossa fune, e lui che gli stacca la pelle sferzandolo con un bel ramo spinoso. Non ricorda la fine della favola, si affatica, vuole riportarla alla mente, ma i pensieri sono confusi, la vista sempre più vacillante.
Mamma, vedrai che torno! Io sono avveduto come il figlio piccino della fola! I figli piccolini, in fondo, sono i più furbi, non me lo dicevi sempre anche tu?
Uno dei sorveglianti porta alcune bottiglie piene d’acqua e le dispone a portata di mano dei giovanissimi operai, canticchiando con aria beffarda:
Ainsi font, font, font,
Les petites marionettes,
Ainsi font, font, font,
Trois petits tours et puis s’en vont…”

Marionette, non sono altro che marionette, i bambini lavoratori, la loro vita in mano a chi li muove, lontani dalle famiglie, dalla patria; rassegnati. Annientati.
Figli di un’Italia che, mamma giovanissima, povera e inesperta, vende i propri figli con l’illusione di salvarli dalla fame.
Uno dei porteurs prende a canticchiare la filastrocca, forse per farsi coraggio, forse perché non c’è più tanto con la testa. Gli lanciano un attrezzo di ferro in cui è inserita la bottiglia appena creata; deve catturarlo al volo.
Ainsi font, font, font,
Les petites marionettes…” 
Oh, la canzoncina della vecchia nonna! La canzoncina delle marionette! Giovannino rivede Isabella che l’adorava, e si divertiva un mondo a suggerirla ai bambini più piccoli, d’estate, nei cortili abbandonati del riposo pomeridiano.
Il porteur è gracile, biondino, di bassa statura; avrà sì e no una decina d’anni. Canta, la voce mollemente assonnata, e accompagna il motivo dondolando ritmicamente.
All’improvviso si coglie, nel rumore generale, il crepitio secco del vetro sbriciolato sul pavimento, e il biondino gli va dietro, rovinando a terra svenuto.
Anche per lui il rimedio è una secchiata d’acqua, e poi invettive a non finire, finché si rialza e ricomincia la fatica.
La notte, nella baracca, Giovannino non riesce a riposarsi. Lo molesta, innanzitutto, la fame, perché la minestra di cavolo bollito e il misero tozzo di pane della cena non sono serviti a placarla.
A casa avrebbe divorato un’enorme scodella di latte con la polenta, o con il pane di castagne, o con quello di frumento, se i campi erano stati prodighi. Oppure, avrebbe pescato col mestolo dal recipiente in cui Caterina stava trasformando manciate di cagliata – spremendola e poi comprimendola nelle forme di terracotta, iniziando a mutarla in piccole, saporitissime caciotte - vi avrebbe immerso belle fette di pane e l’avrebbe consumata in un baleno.
Gli pare di avvertirne il gusto acidulo e la morbidezza sulla lingua, nel palato, e gli viene da deglutire. La fame, la spossatezza, la nostalgia di casa e l’immensa malinconia lo opprimono e gli tolgono ogni speranza. Ha paura: di non tornare, di morire.
Ed ha un unico pensiero: scappare.
Il biondino, steso accanto a lui, si lamenta e piange sommessamente da ore. Arriva dalle montagne di Parma ed anch’egli è stato trascinato fin lì da uno dei molti lestofanti eguali all’Antoniaccio.
Giovannino gli si avvicina e lo scuote con riguardo:
- Ehi! Stai male? Se hai fame, ho conservato un pezzo di pane, lo vuoi?
Il bambino si azzittisce, gli afferra la mano e la stringe forte:
- A casa, andiamo a casa… a casa…
- Sì, hai ragione – reagisce Giovanni – alzati: non so come faremo, né dove andremo, ma dobbiamo provare a scappare!
E’ una tiepida notte di maggio a Saint- Romain le Puy, e nella vetreria il fuoco è già acceso e il vetro sta aspettando gli operai che, al grido: “Messieurs les verriers, à l'ouvreau!” inizieranno a coglierlo dal forno e a lavorarlo fino a farne magnifiche bottiglie per lo Champagne.
La conservazione del vino spumante, messa a punto, tra gli altri, da Don Pérignon, nativo di Sainte-Ménéhould, necessitava di bottiglie robuste, in grado di sopportare la pressione del gas.
Molte vetrerie, tra le quali quella dove lavorava Giovannino, si erano specializzate in questa confezione. Altre fabbricavano bottiglie più delicate, di minore capacità, destinate a contenere l’acquavite.
In ogni caso, era il lavoro dei piccoli italiani, era il sacrificio delle loro vite a consentirne la produzione. Come finiva la fola della capra Margolla? Di quella belva comparabile all’Antoniaccio? Strappò la corda che la legava all’albero, la bestiaccia, e cominciò a correre, per poi rifugiarsi in una grotta. Il figlio piccolo dietro a gridarle: “Capra Margolla, sei bene abbeverata e ben satolla?” E la capra rispondeva: “Son male abbeverata e mal satolla, ho una corna torta e una dritta, se tu vieni qua, te la infilo nella trippa”. Il ragazzo andò a chiamare il padre, che arrivò e chiese spiegazioni alla capra.
Gli rispose: “Son male abbeverata e mal satolla, ho una corna torta e una dritta, se tu vieni qua, anche a te la infilo nella trippa”. Il padre capì e scoppiò in lacrime: “Oh i miei figli! Li ho ammazzati tutti e due per via di questa capraccia! Vieni bambino mio, almeno ho salvato te! "Tornò a casa con il suo piccino e gli disse: “Fai ciò che vuoi, non ti farò lavorare”.
Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia.
Scappare, di corsa, a casa, dal papà che non lo farà più lavorare.
Giovannino non pensa ad altro.
E’ una tiepida notte di maggio a Saint- Romain le Puy; sulla strada che digrada dal colle su cui è disteso il centro abitato, accompagnati dall’indifferenza compiaciuta della luna, il cucciolo pecoraio che ha paura delle serpi e il piccolo porteur corrono a perdifiato verso l’alba.





Nessun commento:

Posta un commento