martedì 25 settembre 2012

SHEMAL (mio primo romanzo) - Incipit


Cap. 1

SAMAELE




A Tuat le tempeste di sabbia da sempre si manifestavano così, abbattendosi violente, senza alcun segno premonitore, almeno per gli europei che osavano inoltrarsi nel Sahara sino a quelle latitudini.

Improvviso il vento spalancava le porte dell’inferno, spezzandone le catene e scaraventando sulla terra gli spiriti prigionieri, i quali, ubriachi di libertà, vagavano furiosi per il deserto, scavando e modificando il profilo delle dune. La sabbia finissima s'insinuava, graffiante, sotto le vesti; entrava nel naso, negli occhi, nella bocca, lanciata dal vento con tanta forza da farla penetrare a fondo nei pori della pelle. Rapidamente scendeva il buio, una notte fitta, una cortina invalicabile, una prigione senza uscita. Oscurità profonda, nella quale era impossibile orientarsi e dalla quale, a tempesta conclusa, emergeva un paesaggio completamente trasformato, nuovo, irriconoscibile.

Il vento incalzante modellava e rimodellava il deserto, eliminando segni e punti di riferimento stabili, costringendo l’uomo a volgere gli occhi al cielo alla ricerca di un appiglio sicuro al quale aggrapparsi per potersi orientare.

Forse per questo, per primi, alzarono lo sguardo alle stelle gli uomini delle dune, nomadi dai tempi dei tempi, imparando a riconoscerle, a disegnarne il cammino, indicandole, ad una ad una, con il giusto nome.

E nella volta celeste, oltre alle stelle che mostravano loro la strada, finirono per incontrare l’Altissimo, il misterioso Dio unico. Il Dio dalle cui braccia usciva il turbine e soffiava il vento che reggeva le montagne, le quali circondavano il mare da cui s'innalzavano le colonne che sostenevano la terra. Il Dio dei popoli pellegrini di tutti i deserti.

Il Dio che, nel silenzio e nella solitudine di quei luoghi, un giorno si chinò misericordioso verso la sua creatura prediletta e le si rivelò.

A Tuat, in quel 1447, Antonio Malfante ed altri esploratori della Repubblica di Genova, incapparono, invece, nella loro prima tempesta di sabbia. E credettero di essere piombati nel principio dell’Apocalisse.

Avevano attraversato il Sahara alla ricerca delle misteriose miniere d’oro, dalle quali il prezioso metallo giungeva sui mercati del Mediterraneo. Ma non avevano incontrato che deserto: sabbia, sabbia e rocce infuocate a perdita d’occhio. Niente miniere. Niente oro che potesse soddisfare la fame aurifera dell’Europa. Una fame ormai implacabile.

I mercanti orientali vendevano a quelli europei un enorme quantitativo di merci definendo i prezzi a loro piacimento ed esigendo il pagamento in oro. Il denaro perdeva progressivamente di valore e la situazione economica dell’Europa appariva disastrosa, sull’orlo del collasso. Così erano partiti, i genovesi, verso quei luoghi sconosciuti dai quali provenivano le mercanzie tanto ricercate: le spezie, le sete, i profumi e, soprattutto, l’oro, il prezioso metallo degli dei. Erano partiti con il progetto di trovare un modo per attraversare l’Africa, ancora totalmente inesplorata di là dalla fascia desertica.


Sino a quel momento gli unici tentativi per cercare l’agognato passaggio verso est erano stati fatti via mare, nel 1291 dai genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi, i quali non avevano fatto più ritorno, e nel 1455 dal veneziano Alvise di Ca’del Mosto e da Antoniotto Usodimare, anch’egli di Genova, che raggiunsero le Isole di Capo Verde.

La carovana di Antonio Malfante era partita da Tunisi in direzione di Tàngeri; poi gli esploratori erano discesi a Safi e, infine, dopo settimane di cammino, avevano avvistato le palme delle oasi di Tuat. Qui li aveva sorpresi la tempesta ed ora Antonio Malfante se ne stava rannicchiato, al riparo del cammello inginocchiato a terra, cercando di respirare piano per non ingoiare la sabbia. E si sentiva soffocare, si sentiva morire.

Si sentiva anche solo. Non una voce, non un rumore. Soltanto il sibilo terrificante del vento che spazzava le dune. Una solitudine completa, cosmica; un vuoto infinito ed eterno che si spalancava, come una bocca affamata, sopra, sotto ed intorno a lui. Poi, fulminea, così com’era cominciata, la tempesta si acquietò.

Antonio udì allora un suono fluttuante, struggente, acuto, completamente sconosciuto: era forse quella la voce del Dio dei deserti? Un tremito lo percorse da capo a piedi. Fissò la sua attenzione su ciò che aveva percepito, sempre rannicchiato a terra, la testa in mezzo alle ginocchia, completamente avvolto nel velo beduino e in parte sepolto dalla sabbia.

No, non si trattava di una voce; sembrava più un rumore, ma restava qualcosa di strano, di nuovo. Provò a concentrarsi per qualche minuto, mentre una sottile paura gli montava dentro. Poi capì: era soltanto l’eco assordante del silenzio.

Un silenzio immenso, che aveva sostituito il sibilo stremante del vento. Terrorizzato, di scatto si alzò in piedi, liberandosi dalla sabbia che lo ricopriva e aprì gli occhi, urlando con quanto fiato aveva in gola.

Calma, signore, – lo apostrofò una voce divertita – il peggio è passato! La tempesta è finita. Ora possiamo raggiungere l’oasi e ristorarci.

A parlare era stata una delle guide beduine che componevano la carovana. Antonio rientrò in sé e si guardò intorno: la sabbia era di nuovo immobile; il cielo sereno e infuocato, i cammelli già in piedi col loro carico di bagagli intatto e tutti gli uomini pronti a ripartire.

Ma, proprio sul punto di avviarsi, egli si premurò di verificare il contenuto di una bisaccia, prima di fissarla alla gobba del cammello. S’inginocchiò a terra, la aprì e ne estrasse un lingotto d’oro. Un raggio di sole, riflesso dal lucido metallo, gli colpì le pupille, ferendole e accecandolo per qualche secondo. Istintivamente chiuse gli occhi, ma quel lampo di luce sembrava ormai impresso dentro di lui, indelebile e ostinato, illuminandogli il cervello di sotto alle palpebre serrate.

Intanto, sulla sabbia, qualcosa si muoveva, strisciando, nella sua direzione. Una serpe, una piccola vipera dorata si avvicinava, lenta e sinuosa, alla sacca aperta. La raggiunse e si dileguò al suo interno, confondendo le proprie lucenti scaglie con il giallo brillante dei lingotti.

Antonio riaprì gli occhi, ripose il pezzo di metallo nella bisaccia, la legò saldamente agli altri bagagli e ordinò alla carovana di riprendere il cammino.

Cercherete le miniere da cui proviene quell’oro fino in capo al mondo, signore? – gli chiese la guida beduina.

Voi sapete dove si trovano?

No, ma so a chi appartengono…

E a chi, di grazia, se potete dirmelo?

L’oro appartiene a colui che è il veleno di Dio, a Shemal, il più grande principe del cielo, Samaele, colui che aveva fatto le tenebre, la madre notte, prima che Dio creasse il suo universo nella luce. E il principe delle tenebre segue sempre la sua unica possibilità di luce: l’oro; la luce sepolta nelle profondità della terra insieme con lui, quando fu gettato fuori dell'Eden dall’arcangelo Michele.

Ah! E questa sorta di angelo caduto seguirà il mio oro sino a Genova, secondo voi?

Non il vostro oro, ma il suo. Egli lo seguirà sino a Genova, lo seguirà in ogni luogo, perché egli regna e regnerà sulla terra per mezzo suo. Ridete? Ditemi: che cos’è che tiene in piedi gli imperi, i regni, i principati europei, le repubbliche marinare? Su cosa credete siano fondati? Perché sono tanto assetati d’oro?

Antonio Malfante, banchiere e ricco commerciante ben in confidenza con l’oro e con il denaro, era troppo razionale per prestare attenzione alle favole del beduino, perciò non rispose e chiuse la conversazione, scacciando il fastidioso senso d'inquietudine che si stava impadronendo di lui.

Avrebbe continuato la sua ricerca e sarebbe poi rientrato a Genova, era la sua speranza, con buone notizie per la Repubblica e per l’Europa intera.

Sì, c’era bisogno d'oro, tanto bisogno, e ci si doveva affrettare per trovarne nuove fonti. A scacciare e tenere lontani Samaele e tutti i demoni, in Europa, ci pensava, già da secoli, la Santa Inquisizione. Rasserenato, Antonio volse lo sguardo verso le oasi di Tuat, verdi smeraldi incastonati nell’oro della sabbia, già pregustando un bagno ristoratore nelle acque che là scorrevano, limpide e trasparenti, ai piedi delle palme.

Intanto nella sacca, in mezzo ai lingotti, una piccola serpe dorata riposava tranquilla, arrotolata a spirale, come una galassia di stelle nel cielo, preparandosi a sbarcare, con il suo oro, nel porto di Genova.







Dio mio, Martìn, dove avete trovato tutto quell’oro?

Cristobál Colón è senza parole, sinceramente sorpreso, mentre pare uno dei Re Magi, il capitano Pinzòn, davanti al suo ammiraglio, in quel giorno dell’Epifania del 1493. Dal momento in cui avevano messo piede in quelle terre sconosciute, per la prima volta si ritrovavano tra le mani un tesoro tanto grande e l’emozione è inevitabile.

Martìn Alonso Pinzòn sembra imbarazzato e cerca persino di giustificarsi:

Me lo sono procurato commerciando con i nativi… Mi scuso per il mio comportamento, ammiraglio: non era mia intenzione ingannarli, ma quei selvaggi sono così ingenui che non sanno dare valore a ciò che è veramente prezioso… Preferiscono le cianfrusaglie che abbiamo portato dalla Spagna!

Ah! Pinzòn! Attento a non lasciarvi prendere dal demone dell’avidità! Abbiamo già avuto abbastanza problemi nel viaggio d’andata e abbiamo bisogno dell’aiuto del Signore per il ritorno! Non mettiamoci contro di lui! Ed ora chiamatemi Juan del Campo: voglio comunicargli la bella notizia.

Il nome dell’isola presso la quale erano ancorate le caravelle, in quel 6 gennaio 1493, secondo Guacanagarì, capo degli indigeni, era Haiti, ma Colón l’aveva subito ribattezzata Isla Hispaniola, in onore della Spagna. Poteva trattarsi della famosa Cipangu?

La cultura del luogo sembrava più avanzata, rispetto a quella delle isole vicine, gli abitanti più laboriosi e civilizzati, ma non si era ancora riusciti a trovare niente che potesse confermare i racconti di Marco Polo sulle favolose terre del Gran Khan.

Finalmente Colón prova un certo sollievo: tutto quell’oro lascia ben sperare nella possibilità di trovarne le miniere, da qualche parte. Il rischio di rientrare in Spagna vergognosamente a mani vuote è allontanato:

Juan, amico mio, venite… guardate: è il tesoro che mostreremo ad Isabella, ed è solo il primo, piccolo assaggio delle immense ricchezze sepolte in queste terre!

Juan del Campo si era imbarcato, con l’amico Cristobál Colón, il 3 agosto 1492 nel porto fluviale di Palos de la Frontera, sul Rio Tinto. Veniva da Toledo e non era un marinaio. Non lo aveva spinto la voglia d’avventura, né il desiderio di ricchezze e nemmeno lo aveva mosso lo spirito cristiano dell’evangelizzazione di nuovi popoli.

A condurlo fino a Palos era stata la disperazione; il vuoto in cui, ormai da tempo, era confinata la sua esistenza. Desiderava lasciarsi alle spalle un’immensa sofferenza che da sei anni lo attanagliava, lo soffocava e non gli permetteva di risollevarsi. Aveva vissuto la traversata atlantica con indifferenza, tutto assorto nel suo dolore, fino a quegli ultimi tremendi giorni in cui l’equipaggio aveva urlato il proprio disprezzo all’ammiraglio Colón:

Dove vuole portarci quel pazzo di un genovese? Navighiamo da più di un mese e non si vedono altro che acqua e cielo…

Juan, in quel difficile frangente, era stato d’aiuto all’ammiraglio; lo aveva rassicurato e consolato. Poi, alle due del mattino del 12 ottobre, il grido di Rodrigo de Triana dalla coffa della Pinta: “Tierra! Tierra!” e il colpo di cannone che annunciava al nuovo mondo l’arrivo dell’uomo bianco e delle sue nuove, terribili armi. A mezzogiorno, Cristobál Colón si era potuto finalmente inginocchiare sulla terra della baia Fernandez e baciarne il suolo, tra lacrime di gioia.

Oro, Colón, finalmente! – Juan soppesa con lo sguardo il tesoro nelle mani di Pinzòn – Adesso potete rientrare in Spagna; la vostra ricerca è terminata.

Rientreremo, Juan, insieme… Non penserete di fermarvi in queste terre? Sono obbligato dalla perdita della Santa Maria a lasciare qui il capitano Diego de Haranta con i suoi uomini: ma voi no, voi dovete ritornare con me!

La Santa Maria si era arenata su un banco corallino proprio alla mezzanotte della vigilia di Natale. Forse a causa della distrazione di un marinaio troppo stanco, forse perché la nave era stata costruita con poca cura ed era stata danneggiata dalla traversata, la chiglia si era irrimediabilmente forata e la nave era affondata lì, nei pressi dell’Isla Espanola.

L’ammiraglio aveva così improvvisamente deciso di istituire un presidio di trentanove uomini che avrebbero atteso, cercando e raccogliendo campioni d’oro, una nuova spedizione dalla Castiglia.

Ed ora Colón attribuiva alla mano di Dio la responsabilità dell’accaduto: il Signore aveva voluto indicargli la via dell’oro costringendolo, con un incidente, a fermarsi su quell’isola.

Ma il vero motivo e il vero artefice del naufragio, Juan li conosceva benissimo e ne era ancora sconvolto. Da allora le parole del profeta Ezechiele, tante volte lette e meditate insieme con la sua sposa, gli risuonavano ossessive nella mente:

Tu eri perfetto nella tua condotta quando fosti creato, finché non si trovò in te malvagità. Con l’abbondanza del tuo commercio ti riempisti di violenza e di peccati; io ti disonorai cacciandoti dal monte di Dio! Ti feci perire, cherubino guardiano, cacciandoti via dalle pietre di fuoco! Il tuo cuore s’inorgoglì per la tua bellezza; perdesti la sapienza a causa del tuo splendore… Con l’abbondanza delle tue colpe, con la malvagità del tuo commercio profanasti i tuoi santuari… Diventasti oggetto di terrore e non sarai mai altro che terrore.

Ed era stato vero terrore quello che, la notte di Natale 1492, si era impadronito del marinaio assegnato al timone della Santa Maria e di Juan del Campo, che con lui si era intrattenuto a conversare.

Era comparso in un guizzo di luce, come materializzandosi dal nulla. Un serpente, forse una vipera del deserto, gialla come la sabbia, si era improvvisamente avvinghiata al timone. Juan del Campo e il marinaio erano indietreggiati per lo spavento, abbandonando la guida della caravella.

La testa eretta, gli occhi gelidi, le fauci spalancate e la lingua biforcuta ben in vista, la bestia li osservava in atteggiamento di sfida. I due avevano cercato di scacciarla, colpendola ripetutamente, ma la serpe si era avventata sibilando contro di loro, invulnerabile e ben determinata a non mollare il timone.

Poi il disastro: un tonfo sordo, uno scossone violento, le urla dei marinai. La nave si era arenata. La serpe era scomparsa “… eleverò il mio trono là nel supremo settentrione…”, aveva predetto Isaia.

Shemal, il veleno di Dio, era giunto a destinazione.




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