Che cos’era mai per me l’aia di Predolo? Praticamente quel
che è la carta moschicida per le mosche: attrazione incontrollabile.
Ciondolavano in ogni cucina le lunghe strisce avvolte a
spirale, spalmate di qualcosa che sembrava miele, e divenivano l’inferno per
centinaia di piccole sudice creature, impedendo loro, così, di passare
impunemente dal rüd della stalla al
pane sulla tavola.
Erano, le strisce, grande segno di igiene e civiltà.
Mi sentivo un po’ come quelle mosche sacrificate in nome
della pulizia e dell’evoluzione, quando, di nascosto a mamma e nonna Eva, mi
dileguavo salendo tra le case, in paese, infilando poi la carraia per la Bocca.
Passato uno stagno che, con un elementare acquedotto, riforniva alcune stalle
di Soraggio (quelle dei mezzadri dei Casoli) sapevo di essere al sicuro.
A quel punto, all’ombra dei pini che dalla Battuta si
allargavano fino ai campi, non potevano certo riacchiapparmi.
Andavo su di corsa fino all’incrocio della Bocca e, ogni
volta, incappavo – accidenti - nell’Angiolina, perpetuamente vestita di nero
(tanto che mio nonno Carlo l’aveva ribattezzata “Calesnuna” e lei si era
mortalmente offesa) e perpetuamente in vena di lamenti.
Aveva poi, la donna, quella parlata bizzarra, con le “e” che
diventavano “a”; certo perché non era di lì! Veniva da lontano, da Leguigno (veramente,
in linea d’aria un tiro di schioppo…), e io mi feci allora un’idea tutta
particolare dei leguignesi: lamentosi, tristi e insistenti.
Già che Gombio e Leguigno non erano mai andati d’accordo e
si erano pure fatti la guerra per un crocefisso, dandosele di santa ragione
durante una processione…
Ma pure quelli di Zuccognago parlavano in modo strampalato
(un po’ anche Roncroffio, ma lì c’era il casello, ci lavoravano il nostro latte
ed era un posto importante), mica come a Soraggio o a Villaberza: “è pan”,
invece che “al pan”, e poi quei suoni duri, spezzati. Che gente.
Il paese di Predolo |
Succedeva di inciampare nei sassi e stramazzare sulla ghiaia
che s’infilava nelle ginocchia magre.
Mi rialzavo subito, mi ripulivo, semmai usando l’acqua della
fossa lì in alto (si chiamava “furnasèta”, chissà: una vecchia fornace per la
calce?), tuttavia l’importante era non strappare i vestiti, che allora sì che
erano guai seri. La pelle ricresceva. La stoffa no.
E per farmi confezionare una gonna o un abito (con l’orlo
alto due spanne e dieci “pinces” in vita, perché ti doveva durare due o tre
anni, allargando e allungando tutto il possibile) bisognava comprare la stoffa
da Atos, che veniva col furgoncino, e poi andare fino al Feriolo dalla Lucia, che
ti prendeva le misure, e poi dovevi tornarci a provare, e poi ancora, finché
era pronto.
Comunque, se mi facevo male, estraevo il sempiterno
fazzoletto da naso dalla tasca, lo legavo stretto sulla ferita, poi giù…
Nell’aia di Predolo. In paradiso. A casa.
Non so se il motivo di tanto mio attaccamento fosse dovuto
al fatto che le finestre al secondo piano di una delle abitazioni che davano su
quell’aia erano quelle della stanza dov’ero nata.
Perché io ero nata in casa: quella di mia madre, non all’ospedale.
Oppure, non so se erano le coccole delle mie due nonne (ne
avevo ben due da parte di madre: nonna e bisnonna!). Il loro occuparsi di me - sopportando
le mie marachelle e difendendomi sempre - ai miei occhi le rendeva
irresistibili e prodigiose. Più che umane. L’essenza della bontà.
La mia bisnonna Jusfina aveva imparato a leggere e scrivere
da sola, non era mai andata a scuola, eppure era donna forte, intelligente,
tenace e solida; e capace di battute benevolmente ironiche, affilate come punta
di freccia. Vigorosa come un uomo, morbida e accogliente come una culla.
Il suo abbraccio confortava e risanava.
A ripensarci ora, non trovo spiegazione al suo rialzarsi con
tanta semplicità dai dispiaceri immensi della sua vita preservando quiete,
dignità e capacità decisionale. Mai un lamento. Tanto camminare.
Zappa, vanga, falce, pennato. L’ho vista fare di tutto.
Braccia scoperte fino ai gomiti perché si lavora solo con le
maniche rimboccate. E solo i signori e i fannulloni le portavano abbottonate ai
polsi.
Aveva attraversato in solitudine i suoi anni pesanti, dopo
essere diventata una delle tante vedove della grande guerra; tre figlie piccole
da tirar su; un vecchio padre cieco che andava a chiedere l’elemosina.
Perché, ai suoi tempi, non c’erano le pensioni. Lo diceva
sempre, nonna Jusfina, che Mussolini era stato un gran delinquente, ma che una
cosa buona l’aveva fatta: aveva dato le pensioni.
Lei: una delle prime pensioni di guerra.
Arrivavo a Predolo e approdavo in paese rasentando la stalla
e il fienile di mio nonno; una costruzione nuova, in bella pietra azzurra della
Battuta, costruita col lavoro di mia nonna andata per serva a Milano. Passavo
tra una pianta di fico e la baracca della legna, una casettina di assi in cui
immaginavo di poter andare ad abitare, un giorno, tanto era carina.
E poi l’aia. Il mio paese dei balocchi.
Perché l’aia di Predolo significava molte cose. Intanto
altri bambini con cui giocare, poi, per esempio, i cacciatori.
Volete mettere vederli partire per una battuta di caccia
alla volpe, mio nonno, i suoi cognati e i loro amici, tutti bardati, con i loro
fucili e cartucciere, poi vederli tornare con tante volpi, alcune rosso grigio,
altre rosso fulvo, e poi osservarli mentre le appendono ai cavalletti lì
nell’aia?
Era avventura. Anche se mia nonna la vidi piangere quando
mio nonno comprò un cane da caccia che pagò quanto una mucca, e loro erano
poverissimi.
Povera donna: se non ci fosse stata lei…
I fucili erano la prima cosa che si notava quando si entrava
nella cucina di mia nonna: erano due, appesi alla parete di fronte alla porta
d’ingresso, sopra la panca di legno proprio di fianco al grande camino sotto
cui era posizionata la stufa di ghisa.
Che cosa se ne facesse mio nonno di due fucili non l’ho mai
capito. Ma l’avevano tirato su così: il padre, ex pastore di Valbona di
Collagna, che a Predolo aveva comprato terra e case, dicono che avesse quella
passione, (oltre a quella per il gentil sesso, che è meglio non indagare) e che
dedicasse più tempo alla caccia che al lavoro, delegato a serve e garzoni, con
risultati rovinosi sull’economia delle famiglie dei figli.
La caccia era occasione per incontri tra cacciatori, sempre
vivacissimi, scaldati dal vin brulé e da lunghe discussioni e partite a carte
lì in cucina. E noi bambini sotto il tavolo ad ascoltare, giocare e ridere come
matti.
Noi bambini: io e mio zio Giuseppe, che aveva quattro mesi
in meno di me e che io usavo come cavia per tutte le mie “strolgherie”. Perché
mio padre lo diceva che “strolgavo” troppo, e aveva ragione.
Giuseppe era (ed è tutt’ora) buono come il pane, così gli
facevo fare di tutto; una volta lo convinsi che se si metteva il grembiule di
mia nonna al collo a mo’ di mantello e si buttava dalla biforcazione dei rami
di un albero avrebbe preso il volo. Lui lo fece e stramazzò al suolo, per
fortuna senza danni. Forse io avevo cominciato a leggere Nembo Kid, (che poi
divenne Superman).
Perché fu nell’aia di Predolo che scoprii i fumetti.
C’erano miei parenti che abitavano a Reggio e a Milano e
tornavano lì per le ferie, portando, appunto, i giornali e i fumetti.
A Predolo incontrai Tex Willer. Fu amore a prima vista e
sognai e desiderai per anni di poter andare a cavallo per immense praterie,
difendendo gli indiani buoni dai bianchi cattivi e fermandomi a pasteggiare con
un’enorme bistecca al sangue e un mucchio di patatine fritte in un saloon.
Un giorno ebbi persino l’idea di accerchiare il paese con
tanti fuochi come facevano gli indiani.
Mandai Giuseppe a rubare i fiammiferi nella scatoletta
metallica (che era del dado Liebig) sul camino, ma credo che la mia bisnonna
sia arrivata in tempo a fermare il disastro.
Un’altra volta, mentre eravamo tutti a rastrellare e caricare il fieno in un campo, chiesi a mia
nonna di poter andare a casa con Giuseppe.
Mi era sovvenuta una strana strolgheria che, purtroppo,
portai a termine.
Avevo visto spesso seppellire le pelli di coniglio nel
letamaio e, chissà, mi ero immaginata che i conigli si allevassero per poi
ammazzarli e seppellirli. Mica avevo collegato le bestiole nelle gabbie con
l’arrosto che cuoceva sulla stufa!
Ordinai a Giuseppe di tirare fuori i coniglietti e, uno ad
uno, con un bastone, come avevamo visto fare, li ammazzammo e li buttammo nel
letamaio.
Poi tornammo nel campo. Credevo di avere fatto un gran
piacere alle mie nonne. Non ricordo le conseguenze del fattaccio, ma sono
sicura di non averle prese: le mie nonne non hanno mai alzato le mani su di
noi.
L’aia di Predolo voleva dire anche, come lo chiamava mia
nonna, “al sgnur Trovati”. Perché lei, vissuta per tanti anni in città e
abituata a servire, chiamava tutti coloro che percepiva più in alto di sé con
l’appellativo “Signor” o “Signora”.
Il signor Graziano Trovati lavorava all’Inter e così, ogni
tanto, portava a Predolo dei pezzi grossi non solo del calcio, ma dello sport
intero. Credo ci sia stato anche Mazzola.
In casa sua, per esempio, campeggiava una bella fotografia
di Fausto Coppi con tanto di dedica e autografo. Era tutto un mondo che, grazie
a lui, entrava nelle nostre vite bambine.
E Cristina, sua figlia, di pochi anni più piccola di me,
divenne l’estiva compagna di giochi mia e di Giuseppe. Quella con cui
rincorrevamo le lucciole per riempirne scatole – povere bestiole – o i cervi
volanti, le “bescorgne”, allora numerosissime.
Pur essendo cittadina, tutta compita nei suoi abitini
perfettini, con calzettine bianche e ciappini colorati nei capelli (io avevo le
mie treccione legate con elastico da mutande), Cristina non era per niente
snob, anzi: giocava con noi come un maschiaccio autoctono.
La sua casa e quella di mia nonna erano divise da una
parete; le porte erano sempre aperte, con la chiave inserita, all’esterno,
anche di notte, per cui si viveva davvero come in un presepe, entrando
liberamente, fermandosi a chiacchierare o a prendere un tè o un caffè nelle
reciproche case.
Quando io scappavo e finivo a Predolo, le prime volte mia
madre veniva a cercarmi, poi aveva capito che era inutile, tanto era lì che
andavo; così non mi cercava nemmeno più e io potevo fermarmi a dormire dalle
mie nonne in tutta tranquillità.
Da notare che non c’era il telefono ed era quindi
impossibile per i miei controllare che davvero fossi lì… Oltre a darmi della
“strolga”, mio padre cominciò a dire che ero una zingara. Aveva mica tutti i
torti, poveretto, ma non poteva che rassegnarsi.
Nell’aia di Predolo, complice “al sgnur Trovati”, si giocava
a pallone. Mio zio Giuseppe si metteva in porta (difatti divenne davvero
portiere), mio cugino Ciro e mio cugino Sante giocavano a scartarsi e pure io e
Cristina intervenivamo in ruoli non ben definiti, perché, sinceramente, non ero
adatta a quello sport e prendevo solo dei gran calci nelle gambe.
A volte mettevano in porta me, perché ero alta, ma anche lì
ero un disastro.
L’aia di Predolo, durante un’estate, divenne feste continue
a base di carne d’ogni genere allo spiedo: era arrivato il cugino Antonio
dall’Argentina! Era uno dei (dieci?) figli di Rosalba, la sorella più vecchia
di mio nonno, emigrata a Rosario di Santa Fè.
Imparai qualche parola (e parolaccia) in spagnolo e imparai
pure come farcire un pollo, costruire uno spiedo e cuocere la carne all’aperto
sul fuoco.
L’aia di Predolo, in autunno, voleva dire scampanio di
pecore che si fermavano durante la transumanza. Erano quelle dei miei parenti
di Valbona.
Il pastore, cugino di mio nonno, si chiamava Poldo e ricordo
suo figlio, Giulianino, che custodiva le pecore sulla Battuta, dove avevano
fatto i recinti. Si fermavano poco tempo, poi ripartivano per scendere verso
Mantova, dove avrebbero trascorso l’inverno.
Io scorrazzavo per i campi dietro a Giulianino e al suo cane
Treno, un lupo appennino bellissimo, mentre dirigevano le greggi a brucare, nei
campi, l’ultima erba prima dell’inverno.
Nell’aia di Predolo arrivava Lüegg (Luigi) con il mulo e le
due grandi corbe piene di mercanzia, compreso un bel sacchetto di caramelle.
Vedevo le donne comprare lo zucchero e vendergli le uova.
Aveva, anche, dei contenitori di sottili assicelle di legno con coperchio pieni
di… marmellata. La vendeva sfusa, mettendola nella carta gialla, grossa e
resistente.
Poi si motorizzò e comprò un furgoncino e un mio cugino,
anche lui succube dei fumetti di Tex, un giorno s’inventò un assalto alla
diligenza; saltò da un argine sul furgoncino in movimento e gli rubò il
sacchetto delle caramelle.
L’aia di Predolo era anche grandi litigi: “amor di fratelli, amor di coltelli”, diceva
mia nonna, e lì erano tutti fratelli, cognati, cugini, nipoti, per cui si
sprecavano le invidie, le gelosie, le cattiverie. Io, però, non ci facevo caso
e non ricordo di essermi mai sentita traumatizzata.
Avevo la sicurezza dell’abbraccio caldo delle mie nonne e
l’allegria del gioco e della compagnia di mio zio e degli altri bambini.
Bastava a rendermi felice.
Bastavano la mia libertà e la vita di grande socialità a
darmi equilibrio e contentezza.
In un angolo dell’aia di Predolo, anzi, in un’altra aia più
piccola, c’era una casetta di pietra con un’unica porta: era la fucina degli
scalpellini che, sulla Battuta, scavavano, tagliavano e scalpellavano le pietre
da costruzione nella cava.
Lì vidi per la prima volta l’incudine, le braci vive di
carbone che rendevano le punte di ferro rosse e malleabili, il mantice enorme
che soffiava sul fuoco, e sentii quel rumore (musica?) che è il picchiettare
ritmico dei martelli sul ferro. Un mondo meraviglioso che completava quello
della cava, con i suoi vagoncini e le rotaie che portavano le pietre.
E più in là della cava avevo paura ad andare, perché c’era
quella croce dove, dicevano, avevano ammazzato i partigiani…
Raramente torno oggi nell’aia di Predolo: la casa dove sono
nata è stata venduta da anni, i miei nonni e le mie nonne non ci sono più;
anche qualche cugino, purtroppo, non c’è più e mio zio vive in pianura con la
sua famiglia.
Mi prende il magone, a pensarci, e vorrei tanto poter
tornare per un attimo in quella cucina, dove dalla madia vicino alla panca (e
ai fucili) veniva l’odore del pane, sedermi sul largo davanzale della bassa
finestra aperta sull’aia e guardare la mia bisnonna cucinare sui fornelletti
smaltati del gas.
E fuori sentire la voce briosa di Cristina, la figlia dello
“sgnur Trovati” che chiamava mia nonna con la stessa naturalezza e affetto con
cui chiamava la sua.
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