lunedì 20 febbraio 2012

QUANDO LA LINGUA ERA IL DIALETTO - Noi, che dicevamo “vieni otro”.




Non so quando fu la prima volta che ascoltai la nuova lingua.

Credo in chiesa, dove il prete, Donvalerio (pronunciato tutto attaccato, visto che solo verso i sei anni compresi che si trattava di “don” seguito da “Valerio”), celebrava la messa in latino ma predicava in italiano. La nuova lingua, appunto.

Avevo imparato a memoria tutte le risposte  dopo quell’ “Introibo ad altare Dei…”, partendo da “ad Deum qui laetificat juventutem meam” e via con tutto il dialogo.

In italiano c’era solo la predica e Donvalerio predicava davvero come mangiava (e come mangiava!), con semplicità e affetto; lo capivamo tutti.

Lo capivo anch’io, che l’italiano non lo sapevo.

Oppure, la nuova lingua l’avevo ascoltata alla radio, quando mio nonno, dopo pranzo, si sedeva accanto all’apparecchio di legno e metallo dorato (ottone?) appoggiato in alto su una mensola (nuova divinità del focolare), estraeva il pacchetto di moro e le cartine, si arrotolava la seconda delle tre o quattro sigarette che fumava durante il giorno; infine, dopo il cinguettio di un uccellino radiofonico, ascoltava il “Bollettino”.

Lo chiamavano in quel modo probabilmente dal tempo di guerra: “Bollettino”, oppure “Comunicato”, ma era semplicemente un giornale radio.

E guai a parlare, noi bambini, durante il “Bollettino”!

La nuova lingua l’avevo ascoltata ancora da un girovago che era capitato in paese con un mucchio di cartoline e altre cianfrusaglie; si era messo a cantare in un cortile che “niuiorch è sempre in america” e mio nonno, per un bel po’, parlando di lui, lo chiamò così: “Niuiorchsemprinamerica”.

Poi l’avevo ascoltato, l’italiano, da un venditore ambulante di stoffe che, sceso dal furgone nell’aia vicino all’oratorio, davanti a noi bambini seduti in terra a giocare, mi aveva tirato le treccine e mi aveva detto:

«Bella bambina, vai a chiamare la tua mamma e le dici che c’è L., se ha bisogno?»

Ci capii poco, scesi verso casa ripetendomi quelle parole ad alta voce, ma quando dischiusi l’uscio non riuscii a spiegare alla mamma né perché ero lì, né che cosa il tipo mi avesse detto e me ne scappai subito fuori. A quei tempi, i ceffoni erano sempre pronti per i bambini; c’era da prenderli da tutti, mica solo dalle mamme, (e non era una questione di violenza, ma di allenamento alla sopravvivenza in una realtà piena di pericoli) perciò si stava sempre sul chi vive.

Comunque, quella volta le schivai.


Viacava (Felina), mamma e nonni di Danila Cilloni
Il prete, i venditori ambulanti, qualche emigrato nelle città che tornava per le vacanze erano gli unici canali attraverso cui la nuova lingua arrivava a noi bambini dei piccoli paesi di campagna.

Insieme alla radio che, in quel periodo, ogni famiglia aveva provveduto ad inserire tra i pochi arredi delle cucine.

Era stato tutto uno squarciare di pareti (far dei buchi nei muri a sasso delle case vecchie implicava provocare voragini…) per infilarci delle mensole su cui poggiare la radio, anzi: l’ “aradio”, sostantivo maschile che iniziava per vocale.

Così, l’”aradio” andava a fare compagnia all’asse attaccata sopra al lavandino a cui erano appesi i secchi dell’acqua potabile, alla stufa dal piano con i cerchi di ghisa (la cucina economica smaltata di bianco, con quella scritta illeggibile in tedesco che era la marca), alla panca di legno.

L’ “aradio” si accendeva solo per il “Bollettino” e guai ad accenderla se era morto qualcuno in quei giorni!

Insomma: quando la maestra attaccò alla parete i cartelloni delle vocali, cominciando da quello dell’ape, e mi stampigliò un bell’asino, un’oca, un elefante, un grappolo d’uva  e un imbuto con dei timbri di gomma e l’inchiostro blu sul quadernino (a quadretti), io qualcosa della nuova lingua sapevo già. Ma non era la mia lingua.

Non era la nostra lingua. Eravamo cresciuti con altre pronunce, ritmi, timbri, come la “u” dal suono dolce e stretto, che poi avremmo ritrovato in francese, o quel suono intermedio tra “e” e “o” , molto chiuso ed inesistente in italiano.

Eravamo cresciuti con parole e modi di dire, frasi idiomatiche che non avevano un corrispondente in italiano e per noi fu davvero difficile doverci poi esprimere e raccontare in quella nuova lingua.

Come tradurre “garotle” o “garutlada”? E mettersi “in cul busun?” Come tradurre “a l’aibasìn”?

Così, ai primi tentativi, si tendeva semplicemente ad italianizzare le parole dialettali, o le frasi, magari aggiungendoci in fondo una vocale.

Esemplare l’imperativo “Vieni qua”, che in dialetto suona “Ven utre” e che i bambini “meno bravi” traducevano “vieni otro”.

A ripensarci, si consideravano errori quelli che, in realtà, erano gli accomodamenti di chi, cresciuto con un’altra lingua, era costretto a pensare e scrivere in una nuova.

E in casa, la lingua degli affetti, la lingua del quotidiano, rimaneva comunque il dialetto.

Davvero mi sarei vergognata a rivolgermi in italiano ai miei genitori o ai miei nonni.

Intanto, anche in chiesa, con il Concilio Vaticano Secondo, si era passati all’uso dell’italiano e Dovalerio (tutto attaccato) ci aveva fatto imparare le risposte da dargli, appunto, in italiano.

Ma il rosario nell’oratorio, nel mese di maggio, con mia nonna Eva che guidava, rimaneva ostinatamente in latino e pure ogni sera, salendo le scale per andare a dormire, mia nonna Eva sgranava il suo rosario di Ave e Pater e Gloria in latino.

“Le casette stupefatte/ sono bianche come il latte./ Tutto è bianco, monti e valle/ è un diluvio di farfalle…” credo che sia stata la prima poesia che ho imparato a memoria, ma quella che più mi fece soffrire fu la poesia di Natale:

“Tutti vanno alla capanna/per veder che cosa c’è/ c’è un bambin che fa la nanna/ tra le braccia della mamma./ Oh se avessi un vestitino/ da donare a quel bambino!/ Un vestito non ce l’ho/ un bacino gli darò!/.

Mi misero in piedi su una sedia, in mezzo alla chiesa. Mi pareva immensa, allora, la chiesa, e mi parevano altissime le persone intorno: le donne col fazzoletto legato sotto la gola, gli uomini con il cappello in mano.

Mi aveva rassicurato la voce bella e calda di mio nonno Carlo che accompagnava sempre i canti, compreso “Tu scendi dalle stelle”, laggiù, in fondo, vicino alla porta dove stavano gli uomini, ma quando mi trovai su quella sedia, anch’io col mio fazzoletto in testa legato sotto la gola, non riuscii a staccare gli occhi dalla punta dei miei scarponcini.

Dissi la poesia tutta d’un fiato con le lacrime che premevano, chiedendomi perché ai bambini si dovessero imporre simili durezze.

A leggere, ad ottobre, avevo imparato subito; nonostante il dialetto, era stato facile: mettere insieme consonanti e vocali mi era sembrato un esercizio sempliciotto. O forse la maestra Alda era stata bravissima. E dopo  che la mia compagna di banco, Adele, aveva esordito, rispondendo alla maestra, con un bell’ “A come… A come… bega!”, perché così si dice in dialetto, Alda, invece di arrabbiarsi, era scoppiata a ridere.

Qualche settimana e avevo subito scoperto che l’esercizio del leggere ti apriva altri mondi e, in una realtà senza televisione, quella era l’unica vera possibilità d’avventura!

Divorai letteralmente il libro di lettura e la nuova lingua, finalmente, cominciò a diventare anche quella dei miei pensieri e dei miei sogni.

Fu la Befana del ’63 a portarmi un dono incredibile. Aprii il pacchetto e trovai un libro.

Un libro intero, un romanzo tutto per me. Seppi solo anni dopo che ad avere quel meraviglioso pensiero era stata la mia bisnonna materna, Giuseppina; non era mai andata a scuola, lei, e aveva imparato a leggere e scrivere da sola. Comprarmi un libro era stato, lo capisco ora, un gesto di grande amore e intelligente speranza. Sguardo sul mio futuro.

La storia del burattino Pinocchio, con tutte le difficoltà di quell’italiano ancora troppo toscano, entrò nel bagaglio delle mie conoscenze ma, prima di tutto, nelle mie emozioni, nella mia immaginazione e nel mio cuore.

Poi la maestra Alda cominciò a portarmi da casa tutti i libri che volevo: “Tom Sawyer” e “Huckleberry Finn” di Mark Twain, “Alice nel Paese delle Meraviglie”, i romanzi di Jules Verne, “Piccole donne” di Louisa May Alcott , “Peter Pan” di James Matthew Barrie, “Il piccolo Lord” e “Il giardino segreto” di Frances Hodgson Burnett , “Cuore” di Edmondo De Amicis (quanti pianti!), “Kim” e “Il libro della giungla” di Rudyard Kipling , “Zanna Bianca” e “Il Richiamo della Foresta” di Jack London, “Senza famiglia” di Hector Malot … ma anche “Le avventure di Oliver Twist” e “David Copperfield” di Charles Dickens.

Credo di aver letto una media di tre o quattro libri a settimana per tutto il corso delle mie scuole elementari. A quel punto, la nuova lingua era anche quella dei sentimenti, era anche quella della scrittura.

Così, un giorno, in terza elementare, durante un dettato in classe, mentre la maestra Alda ripeteva per i più lenti, io presi un foglietto dal quadernino di brutta e mi misi a scrivere una poesia.

La maestra mi sgridò e mi chiese di portarle il foglio. Glielo consegnai, imbarazzatissima.

Lei lesse, mi guardò, non disse niente.

Poi prese dal cassetto della cattedra della carta da lettera e, durante l’intervallo, la vidi che scriveva tenendo il mio foglietto a fianco.

La mia poesia venne pubblicata, a Pasqua, su “Famiglia Cristiana”.

La nuova lingua, adesso, era mia.



 






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