L’ultima scoperta di Umberto Gianferrari, frutto di mesi di appostamenti. Un rapace raro, che si nutre di serpi e che, dall’Africa sub sahariana, arriva in Italia per nidificare
Umberto Gianferrari in appostamento |
il Blog di Normanna Albertini - Insegnante e scrittrice. "Ogni persona brilla con luce propria fra le altre. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente neanche il vento e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l'aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si può guardarli senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende." (Eduardo Galeano)
L’ultima scoperta di Umberto Gianferrari, frutto di mesi di appostamenti. Un rapace raro, che si nutre di serpi e che, dall’Africa sub sahariana, arriva in Italia per nidificare
Umberto Gianferrari in appostamento |
Coppia di Ibis sacro |
Umberto Gianferrari sistema una fototrappola |
"Latte di monte" alla Camera della Maddalena, foto di Roberto Ronchetti |
Quadro del Correggio con la Maddalena e la Pietra di Bismantova sullo sfondo |
Bosco della Péntoma |
Via medievale per la Camera della Maddalena |
Culto delle rocce |
Pietro Gambarelli a sinistra |
Grotta di Lagoforno, vicino all'oratorio di Santa Maria Maddalena di Saccaggio |
Natività con pigne e ghiande |
La narrativa sulle origini dell’albero di Natale fa riferimento alla cultura celtica. Si tratterebbe di una pianta sempreverde che i druidi - gli antichi sacerdoti dei celti - onoravano in varie cerimonie. Un pino o un abete? O forse una quercia che non perde le foglie, come il leccio? Capita poi di imbattersi nell’immagine di un rilievo del IV secolo a.C. raffigurante la Natività, conservato nel museo di Atene e proveniente da Naxos. Il Bambinello in fasce dorme nella mangiatoia e, ai lati, ha due alberi, oltre all’asino e al bue. Gli alberi sono un pino e una quercia: si vedono le pigne sulla pianta a sinistra e le ghiande su quella a destra. Quasi certamente si tratta di un pino domestico e di una roverella, specie utilizzate dall’uomo per trarne cibo ben prima del Neolitico, quando finalmente iniziò la domesticazione e coltivazione delle piante. La farina più antica ad oggi conosciuta risale infatti a trentaduemila anni fa, più di ventimila anni prima dell’avvio dell’agricoltura nel vicino oriente. Gli amidi sono stati rinvenuti su un pestello trovato nella grotta Paglicci, a Rignano Garganico, Foggia. Insieme alle avene selvatiche, è provata, sul pestello stesso, la trasformazione in farina delle ghiande. Quindi, il Bambinello di Naxos sembra collocato in un “Giardino dell’Eden” di alberi selvatici che producevano semi commestibili: ghiande e pinoli, i più antichi alimenti amidacei del Mediterraneo. Ma come era possibile trasformare le ghiande, amare per l’eccesso di tannino, in una farina commestibile?
Monte Sassoso (Ceriola): coppelle e il ricercatore Roberto Ronchetti con il cane dello studioso Rino Barbieri |
Le coppelle nelle rocce: antichi mortai?
Il processo era lungo, laborioso e potrebbe aver lasciato dei segni anche in alcune zone del nostro territorio. Parliamo, almeno per una parte, delle famose coppelle scavate su rocce - non del tutto rovinate dagli agenti atmosferici - come quelle di Ceriola/monte Sassoso e del monte Lulseto. Perché le coppelle? Come abbiamo già scritto in altri articoli, questi incavi nella pietra avranno avuto diverse funzioni - utilitaristiche e rituali - ma una è sicuramente la macinazione di semi per l’alimentazione. Foto e filmati dei primi del novecento, in California, ci mostrano le donne native mentre producono farina di ghiande, togliendoci ogni dubbio riguardo ai metodi di lavorazione. Vero che, sia a Ceriola, sia al Lulseto, in mezzo alle querce sono presenti dei castagneti, fonte di un amido più adatto all’alimentazione umana (perché senza tannini). Tuttavia, la coltivazione del castagno pare sia successiva e si debba ai Romani, pur essendo la pianta già presente allo stato selvatico anche nella preistoria. Sull’indigenato del castagno in Italia si è molto discusso. Alcune ricerche attestano, in base alle analisi di pollini fossili della pianura costiera apuana, la presenza del castagno già diecimila anni fa. Quindi, il castagno avrebbe resistito alle ondate di freddo glaciale susseguitesi nel tempo; pertanto, l’ipotesi che l’ultima glaciazione lo avrebbe fatto scomparire, per poi vederlo ritornare dall’Asia Minore, portato dall’uomo, è stata abbandonata. In ogni caso, nei periodi particolarmente rigidi, la quercia resisteva e dava frutti, il castagno no.
Soraggio di Gombio |
RACCONTO TRATTO DAL LIBRO
Il libro è disponibile su tutte le librerie online anche in formato ebook:
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La tempesta della notte le aveva buttate tutte a terra, tanto che, ora, intorno agli alberi, si stendeva un tappeto di susine, una molle frittata sulla quale pranzavano sinistri calabroni e un nugolo di moscerini del vino.
«Che peccato, che disastro, Renzo mio, e adesso? Dovrò bollire marmellata per una settimana».
Eugenia avanzava china, con il cesto di vimini quasi colmo, prestando attenzione a schivare gli insetti e, al contempo, cercando di non calpestare i frutti gialli, già ammaccati e rovinati dalle intemperie.
Il marito la osservava dal pollaio, dove era indaffarato a rimettere in piedi la recinzione; lavorava nervosamente, considerando che avrebbe dovuto ripulire pure la piscina, del tutto scomparsa sotto una montagna di foglie e rami. Bel disastro, questi cambiamenti climatici.
Renzo, nei suoi ottandadue anni di vita, non aveva mai visto un vento tanto potente da sollevare i tavolini di ferro sotto al porticato, raffiche con chicchi ghiacciati delle dimensioni di una pesca lanciati come proiettili. Non era molto credente, tuttavia, un pensiero all’Apocalisse e ai suoi terribili cavalieri gli era scappato. Anche Luna, la sua cagnolona dal pelo color crema fiorentina, pareva confusa, seduta in alto, su un muretto, fra i tralci sbrindellati di un vecchio glicine.
Della loro casa, Eugenia e Renzo, da anni pensionati, avevano fatto un bed and breakfast, conservando l’architettura del vecchio edificio colonico toscano. Avevano mantenuto anche i pavimenti di graniglia, le piccole piastrelle di ceramica a fiori, i bagni con grande vasca e la scala centrale, che portava ai piani superiori, dotata di ringhiera in svolazzante ferro battuto.
Tutt’intorno, orti, un frutteto, un giardino e la vigna, poi alberi di ulivo a spezzare, con bagliori d’argento, il verde dei gelsi, dei ciliegi, dei pruni e dei meli.
«Si è alzata, la nostra ospite, o dorme ancora?», domandò Renzo togliendo il cesto di prugne dalle mani della moglie.
«Johanna? La professoressa Rolff? Le avevo preparato la colazione, ma ancora non s’è vista. Forse, con il temporale, sarà rimasta sveglia, vorrà recuperare».
«E la nipote? Ancora a letto pure lei?»
«Ah, quella… Karin van… van… Comperen, vero? Quella dorme sempre fino a mezzogiorno. I giovani scambiano il giorno per la notte, è una moda, ormai».
«Bene, allora faccio in tempo ad affettare un po’ di salame e aprire una formetta di pecorino. Da buone olandesi, apprezzano il cibo italiano, e pure il vino! Ti porto in casa il cesto, così non sforzi la schiena, Eugenia mia».
Era sempre stato così, il suo Renzo: attento e premuroso fin da quando si erano incontrati, cinquant’anni prima.
Bionda, esile, la pelle chiara e gli occhi azzurri, Eugenia non aveva certo l’aspetto di una brasiliana e nessuno le credeva quando raccontava di aver avuto una nonna india. Invece, babbo e mamma si erano conosciuti proprio in Brasile, in una piccola cittadina dello Stato di Santa Caterina, dove era poi nata Eugenia. Successivamente, c’era stata la scelta di ritornare in Italia, al paese degli antenati, in Garfagnana.
Un po’ come tutti i brasiliani, Eugenia era il risultato di un miscuglio prodigioso di etnie, colori, culture. Era italiana, india, irlandese e portava dentro la sapienza antica di tutte le sue antenate.
Nei rituali “Rodas di cura”, che praticava di nascosto a chi si affidava a lei, usava il “rapè”, una miscela polverizzata, composta di tabacco e da una mistura di altre erbe capaci di aprire il cuore, radicare a terra e scaricare le energie negative.
Raccontava che la nonna india, Isadora, era stata colpita da un fulmine da bambina, mentre si trovava vicino al fiume. Non era morta e, quando si era svegliata, forte del dono ricevuto attraverso la scarica elettrica, aveva iniziato a guarire la gente. Anche dopo che si era sposata con un italiano, incontrato nella fazenda dove lavorava, Isadora riceveva saltuariamente le visite di uno sciamano che usciva dalla foresta e veniva a trovarla. Allora, parlavano per ore e si scambiavano le loro conoscenze sui diversi rituali di guarigione utilizzati.
Gino Fontana |
Il poeta dipinge, con affetto, ironia e tenerezza, una realtà umile, scomoda: quella dei monti, dei piccoli borghi (Civago e dintorni), della più varia umanità. A quarant’anni dalla scomparsa, un omaggio al cantore del crinale
Ralfo Monti |
Civago in una vecchia foto |