Capit. 2
LA PESTE ERETICA

Nel buio della prigione
Elvira ha gli occhi chiusi. La cella è un pozzo umido e maleodorante, lontano
dalla luce e dal vento di quei primi giorni d’aprile; un tunnel per l’inferno.
Elvira ha gli occhi chiusi, i polsi e le caviglie stretti nei ferri, piagati e
sanguinanti. Il terrore che la pervade le paralizza i pensieri, scindendo la
mente dal corpo, squartandole l’anima e riducendola a brandelli. Elvira non si
percepisce: non ha più carne, spirito, cervello, non riesce ad aprire gli
occhi, a muovere le braccia, le gambe, a parlare, gridare, piangere.
L’hanno rivestita? L’avranno
rivestita? In ginocchio aveva implorato i suoi torturatori di spiegarle cosa
volevano che confessasse. Quieti, paterni, come si conviene a chi opera in nome
di Dio per la salvezza delle anime, si erano limitati a suggerirle di
dichiarare la verità, perché
conosceva bene il suo peccato, Elvira
del Campo, o se lo conosceva! N'erano certi, i due domenicani, e sapevano che
non avrebbe tardato a rivelarlo in tutta la sua sozzura. Bastavano pochi giorni
di garrotta e strappado.
In fondo, la vita è così
insolente e scandalosa che va per forza
rieducata; il Signore Dio non può essere lasciato solo a combattere contro il
peccato di questa sua creazione così imperfetta, va aiutato e consigliato,
perché, a volte, sembra quasi non rendersi conto di quante brutture gli siano
sfuggite di mano il sesto giorno.
Non l’hanno rivestita; sente
appena il calore di un rivolo di sangue che, dal collo, le cola giù, sul seno.
Sente il freddo del muro sulla schiena. L’umiliazione della propria nudità
violata è talmente dolorosa che la scuote dal torpore e le consente di
riprendere, almeno parzialmente, il controllo del proprio corpo.
Le zaraguelles, i panni delle vergogne, almeno quelle gliele hanno
messe. Anche a Cristo coprono le parti intime con un cencio bianco, quando lo
raffigurano negli affreschi e nei quadri. Possibile che i boia romani si
dessero la briga di usare tanto pudore con i condannati a morte simili a Gesù,
sobillatori del popolo, contestatori, pericolosi per la stabilità dell’Impero?
Elvira è sorpresa e quasi
divertita da questa sua riflessione così fuori luogo. Dovrebbe pensare alla
stanza della tortura che l’aspetta, concentrarsi sulla confessione del suo peccato che proprio non sa, di quella verità che gli inquisitori pretendono
da lei e che la libererebbe dall’anticamera dell’inferno in cui è confinata
ormai da mesi.
Gesù è stato rivestito con
le zaraguelles dai suoi aguzzini o
dalla Chiesa? Quella Chiesa che era nata e si era sviluppata rigogliosa in seno
all’Impero, alimentandosi del sangue dei propri martiri, prima minando le
fondamenta di Roma, poi, gradualmente, fagocitandola e diventandone il
baluardo? Che cosa volevano nascondere? L’essere Dio e uomo a tutti gli
effetti, capace di generare, di continuare la vita, o la mutilazione della
circoncisione, che avrebbe ricordato al mondo le sue origini ebraiche?
Che cosa buffa – pensa
Elvira – presentarsi nuda davanti a due santi uomini di Dio, sporca e
maleodorante, con uno straccetto sudicio che appena le copre il pube, quando
nella chiesa, lì a lato delle prigioni, alle donne è proibito entrare con le
braccia scoperte. Si chiede se dovrà confessare come peccato anche il suo
essere nuda.
Se questi uomini di Dio la
stanno così ferocemente lacerando nel corpo e nell’anima, se sono così
spaventosi e crudeli, come sarà Dio? L’hanno strappata al suo sposo, l’hanno
sepolta viva in quella tomba, dalla quale è uscita soltanto per subire la
tortura e nella quale ha dato alla luce il suo bambino. Gliel’hanno portato via
e il seno, gonfio di latte, l’ha trafitta per giorni di un dolore acuto.
Elvira tenta di piegare le
ginocchia intorpidite, irrigidite dall’immobilità forzata e dall’orrore delle
sevizie; le sfugge un gemito e il suono della sua voce, in quell’antro nero e saturo
del fetore degli escrementi, del sangue e dell’umidità putrida dei muri, le
giunge sconosciuto e la spaventa, come se provenisse da un’altra persona. Poi
realizza che la voce è la sua e che lei, Elvira del Campo, è viva, è ancora
viva. Com’è insolente e tenace, la vita, com’è resistente!
Aprire gli occhi, nel buio,
serve a ben poco, ma l’aiuterebbe a sentirsi di nuovo padrona del proprio
corpo. Le palpebre sono pesanti e incollate. Aprirle non è solo una questione
di volontà: le pare di non avere potere su di esse, come nei sogni, negli
incubi, dove l’uomo nero t’insegue e tu non riesci a gridare, a muoverti, a
guardarlo in faccia.
L’uomo nero che, dal sogno,
si era materializzato improvvisamente nella sua vita di giovane sposa, incinta,
felice, in quel 1486 a Toledo, in Spagna, si chiamava Tomás de Torquemada.
§§§
Il profilo aguzzo con la
fronte appiattita, il naso dritto e lungo, secco, il mento prominente ed
appuntito, le labbra sottili e gli occhi piccoli, grigi, penetranti, il cranio
quasi completamente calvo, ricordavano l’aspetto di una serpe. Tomás de
Torquemada si muoveva con l’agilità composta di una serpe, e la sua voce, senza
variazioni di tono, era quella piatta e decisa di chi è convinto di essere il
custode unico della verità.
Nato a Valladolid nel 1420,
nipote del teologo dichiarato “difensore della fede” da papa Eugenio IV al
Concilio di Basilea, Tomás aveva presto subito il fascino di Domenico da Calaruega
e aveva preso i voti, entrando nell’ordine dei fratres praedicatores. San Domenico aveva duramente perseguitato
gli Albigesi, in Provenza, e Tomás voleva seguirne l’esempio, combattendo e
distruggendo ogni eresia e tutti gli eretici.
Ma la sua fu soprattutto una
guerra personale e spietata contro gli ebrei, che considerava un vero flagello
dell’umanità, dimenticando, come tutti i ferventi cristiani avversi ai giudei,
che il falegname di Nazaret, crocefisso a Gerusalemme, era anch’egli un ebreo
circonciso. E rimuovendo, volutamente, le origini ebraiche della propria nonna
materna.
Dalle finestre aperte del
suo palazzo di Segovia, già capitale dei Saraceni e più volte residenza della
corte dei re castigliani, entrava il profumo sfacciato della terra bagnata,
dell’erba falciata di fresco, dei fiori di ciliegio e l’odore forte dello
sterco di cavallo proveniente dalle scuderie. Tomás trovava tutto ciò
estremamente sconcio e la primavera lo irritava, con tutta quella smania che
s’impossessava di piante e animali e uomini e donne, spingendoli ad incontrarsi,
toccarsi, abbracciarsi, accoppiarsi.
Veramente a Dio era sfuggito
qualche errore, all’atto della creazione, e bisognava porvi rimedio. Ricordava
quando, ordinato prete, era entrato a Corte ed era diventato il confessore di
re Ferdinando, della regina Isabella e del Cardinale Primate di Spagna.
I peccati mortali di cui era
infarcito il matrimonio dei reali, come, sicuramente, tutti i matrimoni, lo
inquietavano e lo turbavano fino a togliergli il sonno. Poteva Dio continuare a
perdonarli?
Isabella non somigliava per niente alla figura
ideale della donna remissiva e sottomessa del libro dei Proverbi o delle
Lettere di San Paolo. Aveva persino avuto l’ardire, il 13 dicembre del 1474, di
uscire da sola, cavalcando un cavallo bianco, per essere incoronata regina di
Castiglia nella piazza principale di Segovia. Quando poi Ferdinando era
rientrato dall’Aragona, dove si era recato per sedare una rivolta, alla sua
sfuriata di re e marito umiliato dal gesto della sposa, Isabella aveva risposto
ricordandogli la convenzione che egli aveva firmato prima del matrimonio, da
lei stessa redatta. Con quella egli aveva accettato che i suoi diritti in Castiglia
fossero limitati alla condizione di principe consorte, senza dubbio sperando
che il sesso più debole avrebbe ceduto al suo potere di maschio.
Aveva invece scoperto che la
moglie non era debole per nulla, che era saggia in molte cose, perciò, da allora,
i due sovrani agivano sempre dopo reciproca consultazione emanando ordini di
comune intesa.
Non era il prototipo
cristiano di moglie silenziosa e dipendente, Isabella, era una splendida donna
intelligente e viva, intraprendente e generosa anche in amore; tanto sicura di
sé da riuscire ad allontanare da corte la bellissima Beatriz de Bodabilla,
della quale Ferdinando sembrava essersi follemente innamorato, senza incorrere
nelle ire del consorte.
Aveva il suo da fare Tomás a
spiegare al re e alla regina quali erano i giorni in cui era permessa l’unione
dei corpi e in quali risultava sacrilega, consigliando loro come si dovesse compiere
l’atto onde evitare di cadere in peccato mortale.
Per quanto peccatori
incalliti non facevano in ogni modo uso della pratica anticoncezionale del
coito interrotto, un’infrazione talmente grave che, nei penitenziali
dell’epoca, era punita con rigore molto superiore all’aborto.
Di fronte a tanta ignominia
si riteneva fortunato, Tomás, ad essere sfuggito al male del matrimonio, che lo
avrebbe sicuramente condotto all’inferno. Aveva abbracciato la vita religiosa e
la castità, in un cammino faticoso di rinuncia e di dolore, che era però tanto
dolce agli occhi di Dio.
Anche Caterina da Siena, in
una delle sue visioni dell’inferno, aveva descritto un gruppo di coloro “che hanno peccato nello stato coniugale”.
Aveva anche spiegato che tale peccato viene così gravemente punito perché i
coniugi non ne sono tanto convinti, non ne sentono il rimorso e lo commettono
regolarmente e più spesso di tutti gli altri.
Poteva avere sbagliato, il
Signore, nella sua opera di Creatore? Era stato Dio a rendere l’uomo così
incapace di continenza, così dipendente dai desideri e dai sensi? No, non era
possibile. Torquemada respinse la considerazione blasfema che, sottile e
infida, si era introdotta nella sua
mente.
“Signore, perdonami, la tua Creazione è
perfetta, come perfetto sei tu, mio Creatore!”
Cadde in ginocchio tremante, le mani premute
con forza sugli occhi:
“Mi sto perdendo, Signore, mi sto perdendo!-
piangeva Tomás, lo sgomentatava la fragilità della propria resistenza - L’immoralità che mi assedia rischia di allontanarmi
dalla verità! Che vado a pensare?”
Si rialzò, si fece il segno
della croce e mormorò:
“La serpe dell’Eden, l’avversario… come ho potuto
dimenticarlo? La serpe ha distrutto la compiutezza del Creato!”
Sì, l’avversario
aveva macchiato la bellezza dell’opera divina. Tomás lo sapeva da sempre, come
sapeva che bisognava porvi rimedio, purificare, mondare il mondo. Ma si doveva agire
escludendo azioni cruente, possibilmente senza versare sangue, seguendo alla
lettera le indicazioni delle sacre scritture.
Bisognava purificare la Creazione imperfetta
con il fuoco dei roghi.
¨¨¨
– Mio signore, notizie da
Toledo…
Uno dei duecentocinquanta
servi che attendevano ai bisogni di Tomás de Torquemada, nel lussuoso palazzo
di Segovia, ne interruppe il fluire dei pensieri:
– Il sei aprile si aprirà,
al Tribunale della Santa Inquisizione, il procedimento ufficiale contro un
gruppo di persone accusate di abitudini giudaiche. I padri Inquisitori
gradirebbero la vostra presenza..
Aveva parlato tutto d’un
fiato, Jago, tenendosi distante dal suo signore, come una piccola preda da una
serpe. Ancora dopo tanti anni, quell’uomo gli incuteva un tale timore che non
riusciva a rivolgersi a lui senza sentirsi tremare anche l’anima.
Tomás alzò lentamente lo
sguardo vitreo sul servo, poi gli voltò le spalle e, a passi calmi e distesi,
si diresse verso la finestra aperta.
“No sepas lo que pasa / ni lo que ocurre…”
Le parole di una ninna nanna
spagnola gli risuonavano ossessive nella mente.
– Avete detto il sei aprile?
Fissava i campi gialli di
tarassaco e, in lontananza, l’imponente acquedotto romano che portava l’acqua
del Riofrìo in città dalla vicina sierra de Guadarrama; le mani dietro la
schiena, immobile. Una serpe pronta all’attacco. L’imperativo finale della
ninna nanna era: ignora ciò che passa e
ciò che accade. Significa che l’uomo è condannato comunque a vivere, in
qualsiasi tempo e luogo e non può lasciarsi contaminare dagli eventi, tenendo
fede al dovere esistenziale di resistere.
– Quella è la data, mio
signore, e la vostra presenza è richiesta soprattutto per presenziare
all’interrogatorio di una giovane ebrea che ancora, nonostante le torture, non
ha confessato.
Ah! I giudei! Altro
terribile errore di Dio… Tomás respirò piano l’aria impregnata di pollini e di
odori.
– Vai pure, ho capito.
Gli ebrei, la peste
dell’umanità, la gramigna nel campo di grano. Più li si estirpava, più si
moltiplicavano. Era inconcepibile la loro presenza sul suolo sacro di Spagna;
possibile che re Ferdinando non si decidesse ancora a firmare il decreto di
bando contro tale pestilenza? Eppure glielo aveva suggerito, in confessione, e
più volte.
Tomás chiuse la finestra e
si diresse all’inginocchiatoio, posto in un angolo della stanza. Aveva bisogno
di pregare e di invocare l’aiuto del Signore, perché il compito che gli era
stato assegnato, come massimo difensore della Chiesa, era arduo e delicato.
Mondare il mondo, purificare
la creazione dagli eretici, dai malnati, dagli imperfetti, da chi peccava
contro natura, dalle streghe, dai maghi, dai lussuriosi, dagli scienziati e
dagli esploratori che non si attenevano a quanto detto nella
Scrittura, dagli ebrei.
Pregava, Tomás, il viso
sorretto tra le mani, il corpo piegato sull’inginocchiatoio, davanti al grande
crocefisso di legno dipinto appeso alla parete.
Si trattava di un Cristo
vagamente effeminato, con i fianchi morbidi, il ventre dolcemente arrotondato,
le spalle e il torace privi di muscoli. Non era il corpo di un carpentiere di
trent’anni. Probabilmente, il modello che aveva posato per lo scultore era un
giovanissimo adolescente.
A Tomás questo Gesù così
poco virile piaceva; senza barba avrebbe potuto essere tranquillamente Maria crocefissa…
Ah! Le donne! Quanta imperfezione!
E Gesù era nato da donna.
Gli errori di Dio erano veramente infiniti: per fortuna i teologi si erano impegnati
a spiegare che, in fondo, Gesù non era venuto al mondo come tutti gli altri
bambini. La purezza della madre non poteva essere violata; un Dio non può
contaminarsi con l’impurità del sesso e deve avere per madre una donna intatta.
Perfetta come è perfetto Lui.
Maria aveva dovuto soffrire,
sotto la croce, per la morte del Figlio Uomo, ma non aveva potuto soffrire e
gioire per la sua nascita, come è dato a tutte le donne.
E gli ebrei, che non
credevano al suo parto verginale e raccontavano un mucchio di favole sulla
Vergine Santissima, erano stati duramente puniti con la distruzione dei libri
talmudici, nel 1242 a Parigi. Il re di Francia aveva poi nominato una
commissione d’inchiesta per indagare su quell’episodio, alla quale aveva preso
parte anche Alberto Magno, che aveva contribuito in seguito a convalidare, con
la sua firma, la sentenza di allora, dando il via ad altri roghi di Talmud. Il teologo aveva poi esortato i cristiani a non discutere con i giudei il
concepimento e il parto atipico di Maria, e a passare a fil di spada chi avesse
osato diffamare la madre di Dio, soprattutto se ebrei.
In fondo, Maria, per come la
vedeva Alberto Magno, non era una vera donna.
Era rimasta, per tutta la
vita, una bambina, come piace a Dio.
Come piace alla Chiesa.
E scriveva, il grande
teologo, “La donna è meno consona alla
moralità dell’uomo. Quando una donna ha un rapporto con un uomo, è molto
probabile che desideri giacere al tempo stesso con un altro uomo. L’uomo si
deve guardare da ogni donna, come da un serpente velenoso e da un demonio
cornuto. La donna, per essere precisi, non è più intelligente dell’uomo ma più
scaltra. L’intelligenza tende al bene, la furbizia al male. La sua sensibilità
spinge la donna verso ogni male, mentre la ragione muove l’uomo verso ogni bene”. No, Maria non corrispondeva a questo
ritratto di donna e non aveva niente in comune con tutte le altre donne del mondo
e della storia.
– Mio signore, – di nuovo il
servo interruppe i pensieri di Tomás – quell’uomo, quel Cristobál Colón… vorrebbe
essere ricevuto… insiste per parlare con voi…
– Colón? Il navigatore? Che
vuole ancora quel miscredente?
– Volete parlargli, signore?
– Mandalo via, Jago, non ho
tempo da perdere con le sue fantasie demoniache. Se insiste, prima o poi finirà
davanti al Tribunale per rispondere di eresia!
– Riferirò, mio signore, ma
dubito che desisterà: è di una tale perseveranza!
– Va’, Jago, e caccialo…
Quel Cristobál Colón
cominciava davvero ad inquietarlo. Una persona tanto bizzarra, fanatica, che si
ostinava a sostenere che si potevano raggiungere Cipangu e il Kathai, dove
crescevano le desiderate spezie, continuando a navigare verso Ovest.
Stava cercando di ottenere
dai sovrani di Spagna i finanziamenti per il viaggio, dal momento che l’accesso
via mare all’oriente era controllato dai Portoghesi, mentre il percorso via
terra era soggetto ai forti tributi dei Paesi arabi, così che la Spagna ne
risultava parecchio svantaggiata.
Già Enrico il Navigatore,
defunto sovrano del Portogallo, al quale era ora succeduto Giovanni II, aveva
tentato di trovare una soluzione al problema. A Sagres, sulla costa atlantica, aveva
organizzato una specie d’accademia navale, con tanto di cartografi, marinai e
geografi chiamati a studiare la possibilità di andare oltre il Capo Bojador,
nell’Africa occidentale, per raggiungere l’India favolosa. Il grande re aveva
poi allestito numerose flotte, che, via via, si erano spinte sempre più a sud,
lungo le coste dell’Africa, fino a Capo Não.
Ma i sogni d'Enrico erano
stati purtroppo bruscamente interrotti dalla sua morte, nel 1460, lasciando
senza risposta l’interrogativo riguardo alla possibilità di circumnavigare il
continente africano.
Così, il progetto di
Cristobál Colón, se fosse stato plausibile e realizzabile, sarebbe piovuto come
manna dal cielo, portando sollievo alla situazione economica, non proprio
florida, delle monarchie europee. Ma era una follia.
A tratti, una vera eresia.
Colón aveva vissuto a Palos,
nel convento de la Rábida, la Casa Madre dei Padri spagnoli che partivano come
missionari per le Terre d’Africa e per le isole atlantiche.
Da loro aveva ricevuto
preziose informazioni riguardo all’oceano
ignoto e all’esistenza di una grande terra situata sull’opposto orizzonte
dell’Atlantico.
Conosceva, inoltre, la
geografia mitica degli antichi greci, i racconti di Erodoto, di Solone, i
dialoghi di Platone con Timeo e Critia che parlavano di una terra sconosciuta a
Occidente. Sosteneva Platone:
“Al di là di quello stretto di mare che voi chiamate Colonne d’Ercole,
si trovava allora un’isola, più grande dell’Asia e della Libia messe insieme, e
da essa si poteva passare ad altre isole e da queste isole alla terra ferma di
fronte che delimita il mare vero e proprio…”
Che ignorante Cristobál
Colón! Non sapeva che Aristotele, il più grande scienziato dell’antichità,
autorità indiscussa per i monaci che copiavano i manoscritti classici, aveva duramente
condannato le idee utopiche di Platone?
Inoltre, il dialogo di
Critia riportava la datazione di una guerra che si sarebbe svolta tra le genti
al di qua e al di là delle Colonne d’Ercole, nel 9600 avanti Cristo. Secondo il
libro di Genesi la creazione del mondo avvenne, invece, nel 5508 avanti Cristo.
Platone si era inventato tutto.
Non si potevano porre
obiezioni alla parola di Dio.
E quel fiorentino,
Toscanelli, amico e confidente di Colón, con la sua idea della terra rotonda
come un’arancia… Di questo passo, dove saremmo arrivati, Signore?
Dio! Quanto era gravoso il
compito di purificare il creato immondo! Quanto era importante la sua sacra missione;
il compito toccava a lui, Tomás de Torquemada, l’inquisitore.
Nessun commento:
Posta un commento