La stufa a legna (Le cose che ci sono in casa, 19)
Di Giulio Mozzi
di Normanna Albertini
Oh tu, Stufa ospitale, bollore
avvolgente di vampa, oh riparo qual roccia
a cui far ritorno, come militi dalle trincee
agli ospedali da campo, percossi, sfregiati,
soldati, volti esangui di livido ghiaccio
in contesa percossi: oh tu che gradisci
ciocchi riarsi di quercia e robinia
di faggio crocchiante, fiamma e danza
di ubriaco sbilenco per strade notturne,
e di essi ti nutri finché fuori è nevischio
farinoso, o è diluvio, o vento infiacchente
o cupezza brumosa disfacente le ossa
rabbuiando l’anima che vagheggia la luce, colore
di corolle e boccioli; oh fiato vitale di fuoco
tu che m’aspetti, e calda m’accogli, intendimi!
Tu, nel cui ventre, nell’utero celato
di cotta terra incrinata, le fiamme cospicue
produci e custodisci e rendi al cielo:
rendi il fumo bianco del faggio
della robinia e della quercia – più ferrigno
del castagno – al vento e al bosco, e a me il calore
come coltre premurosa che mi cinge
mi soccorre e mi rinfranca, tu doni senza costo,
senza sosta, tu, Stufa matrona della mia cucina.
Vorrei tanto, come nella fanciullezza,
la tinozza d’acqua calda accanto a te e dentro
immergermi – anche il capo – e risorgere
avvoltolarmi in quei teli candidi
intiepiditi sui tuoi fianchi in cerchio
oh calda Stufa! Che nulla può l’inverno.
Edgar Lee Masters meets Alessandro Manzoni / Gertrude
Di Giulio Mozzi
di Normanna Albertini
Prima ancora di sapere ch’ero femmina,
prima ancora di vedermi
e darmi un nome, mio padre
mi decretò scarto;
ch’io non intaccassi mai
il patrimonio di famiglia.
Che una femmina non vale quella cifra.
Fui badessa da subito, e per ninnoli
tetre monache di pezza.
Due righe a un paggio innamorato
e fu esilio tra le mura odiose.
Despota mi feci, per le educande,
feroce. E peccai; il piacere presi
da un uomo, senza freno.
Se solo mio padre
m’avesse stretta a lui,
avrei più tardi compreso l’inganno.
Non avrei parlato, no.
Avrei taciuto.
Avrei cacciato quell’uomo dal convento.
A lui, che tanto aveva osato,
risposi invece, io, la sventurata.
Lodi del corpo maschile / Le cosce
Di Alessandra Celano
di Normanna Albertini
Quando ben vigorosi
vedo lustri cavalli
salir sgroppando i colli
e i muscoli nervosi
guizzar lor sottopelle,
ecco il cuor che s’agita,
e grida su alle stelle
che bramo le tue belle
cosce d’ambra solida.
Oh, come vivo in pena,
oh, quei massi ruvidi,
baluardi sempr’impavidi
di bruciante rena!
In pena, mio diletto:
da te son separata
e sogno il tuo stretto
ghermirmi abbandonata
Oh, la mia bocca quanto
vorrei su te sciupare
su quelle cosce dare
baci e baci tanto!
Vive, aspre, piccanti,
viziose, sensuali braci,
d’energia roventi,
di tormento audaci,
mirabili e potenti.
Oh, mio diletto amico,
luce mia tra gli astri,
il mio sguardo impudico
lambisce quei pilastri
laddove tu cammini:
la carne tua s’inarca
sotto i calzoni fini
come vela di barca
o vispi topolini.
Muraglie del giardino
mio, che a te sol compete,
più dolci del buon vino
mi colgon come rete.
M’afferra lor fragranza
di maschia bramosia
che cura con costanza
di te la voglia mia
e il male dell’assenza.
Oh, carni che più amo,
all’alba da me venite!
Amate cosce d’uomo
colonne ben tornite
spingete nel giardino
intrepido il fioretto.
Io fremo e voi aspetto
qui a pigiar l’archetto
che dà piacer divino.
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