venerdì 8 dicembre 2023

IL VOLO DI MELUSINA - UN RACCONTO TRATTO DAL LIBRO

 

RACCONTO TRATTO DAL LIBRO

Il libro è disponibile su tutte le librerie online anche in formato ebook: 

https://www.amazon.it/volo-Melusina-Normanna-Albertini/dp/8832870606

La tempesta della notte le aveva buttate tutte a terra, tanto che, ora, intorno agli alberi, si stendeva un tappeto di susine, una molle frittata sulla quale pranzavano sinistri calabroni e un nugolo di moscerini del vino.

«Che peccato, che disastro, Renzo mio, e adesso? Dovrò bollire marmellata per una settimana».

Eugenia avanzava china, con il cesto di vimini quasi colmo, prestando attenzione a schivare gli insetti e, al contempo, cercando di non calpestare i frutti gialli, già ammaccati e rovinati dalle intemperie.

Il marito la osservava dal pollaio, dove era indaffarato a rimettere in piedi la recinzione; lavorava nervosamente, considerando che avrebbe dovuto ripulire pure la piscina, del tutto scomparsa sotto una montagna di foglie e rami. Bel disastro, questi cambiamenti climatici.

Renzo, nei suoi ottandadue anni di vita, non aveva mai visto un vento tanto potente da sollevare i tavolini di ferro sotto al porticato, raffiche con chicchi ghiacciati delle dimensioni di una pesca lanciati come proiettili. Non era molto credente, tuttavia, un pensiero all’Apocalisse e ai suoi terribili cavalieri gli era scappato. Anche Luna, la sua cagnolona dal pelo color crema fiorentina, pareva confusa, seduta in alto, su un muretto, fra i tralci sbrindellati di un vecchio glicine.

Della loro casa, Eugenia e Renzo, da anni pensionati, avevano fatto un bed and breakfast, conservando l’architettura del vecchio edificio colonico toscano. Avevano mantenuto anche i pavimenti di graniglia, le piccole piastrelle di ceramica a fiori, i bagni con grande vasca e la scala centrale, che portava ai piani superiori, dotata di ringhiera in svolazzante ferro battuto.

Tutt’intorno, orti, un frutteto, un giardino e la vigna, poi alberi di ulivo a spezzare, con bagliori d’argento, il verde dei gelsi, dei ciliegi, dei pruni e dei meli.

«Si è alzata, la nostra ospite, o dorme ancora?», domandò Renzo togliendo il cesto di prugne dalle mani della moglie.

«Johanna? La professoressa Rolff? Le avevo preparato la colazione, ma ancora non s’è vista. Forse, con il temporale, sarà rimasta sveglia, vorrà recuperare».

«E la nipote? Ancora a letto pure lei?»

«Ah, quella… Karin van… van… Comperen, vero? Quella dorme sempre fino a mezzogiorno. I giovani scambiano il giorno per la notte, è una moda, ormai».

«Bene, allora faccio in tempo ad affettare un po’ di salame e aprire una formetta di pecorino. Da buone olandesi, apprezzano il cibo italiano, e pure il vino! Ti porto in casa il cesto, così non sforzi la schiena, Eugenia mia».

Era sempre stato così, il suo Renzo: attento e premuroso fin da quando si erano incontrati, cinquant’anni prima.

Bionda, esile, la pelle chiara e gli occhi azzurri, Eugenia non aveva certo l’aspetto di una brasiliana e nessuno le credeva quando raccontava di aver avuto una nonna india. Invece, babbo e mamma si erano conosciuti proprio in Brasile, in una piccola cittadina dello Stato di Santa Caterina, dove era poi nata Eugenia. Successivamente, c’era stata la scelta di ritornare in Italia, al paese degli antenati, in Garfagnana.

Un po’ come tutti i brasiliani, Eugenia era il risultato di un miscuglio prodigioso di etnie, colori, culture. Era italiana, india, irlandese e portava dentro la sapienza antica di tutte le sue antenate.

Nei rituali “Rodas di cura”, che praticava di nascosto a chi si affidava a lei, usava il “rapè”, una miscela polverizzata, composta di tabacco e da una mistura di altre erbe capaci di aprire il cuore, radicare a terra e scaricare le energie negative.

Raccontava che la nonna india, Isadora, era stata colpita da un fulmine da bambina, mentre si trovava vicino al fiume. Non era morta e, quando si era svegliata, forte del dono ricevuto attraverso la scarica elettrica, aveva iniziato a guarire la gente. Anche dopo che si era sposata con un italiano, incontrato nella fazenda dove lavorava, Isadora riceveva saltuariamente le visite di uno sciamano che usciva dalla foresta e veniva a trovarla. Allora, parlavano per ore e si scambiavano le loro conoscenze sui diversi rituali di guarigione utilizzati.

«E il signor Giancarlo s’è visto?» Domandò ancora Renzo. «Aveva detto ieri che sarebbe andato dalle parti del ponte, giù al mulino, in cerca di misteriose scritte, antichi graffiti sulle pietre e di una chiesa scomparsa, ma con la bufera di questa notte forse avrà rimandato…»

Eugenia smise di ramazzare le foglie sotto gli alberi, appoggiò la scopa a un tronco e indicò la piscina:«Strano… guarda là, sul bordo, sotto quei rami: c’è qualcosa che sembra proprio lo zaino dell’archelogo, lo zaino rosso del signor Giancarlo. Mi sbaglio?»

«L’avrà dimenticato ieri sera…», rispose Renzo, continuando a intrecciare il fil di ferro sul recinto squarciato.

«Oh, speriamo che si sia messo in tasca l’amuleto che gli avevo preparato quando è partito. Andare alla ricerca di qualcosa distrutto dal diavolo, come la chiesetta della leggenda, può essere pericoloso».

«Che gli avevi confezionato, cara la mia streghetta?» Rise Renzo. «A proposito di pacchetti, portami dei sacchi della spazzatura, ma di quelli grandi e robusti, eh! Così li riempio di foglie, poi vado all’isola ecologica a vuotarli».

Eugenia annuì, ripensò alla bustina cucita contenente bacche di ginepro, aghi di pino, aloe e sale che aveva consegnato al professore, ripetè mentalmente la formula di guarigione “In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, io ti libero dalla testa ai piedi da chi vuole farti del male, occhio, contr'occhio, mettiglielo all'occhio. Schiatta il diavolo e crepa l'occhio”, poi sparì in casa.

All'improvviso, dal muretto, Luna cominciò ad abbaiare in direzione della piscina.

«Calma, bimba, calma…», la apostrofò Renzo, «la tempesta è finita e tu… guarda… guarda come sei sporca! Ti sei rotolata nelle foglie, vero?»

La cagnolona color caramello mugolò, scese dal muro e si avvicinò al padrone. Poi si sedette, fissando la piscina e fiutando l’aria. Intanto, un bel sole infuocato era comparso tra le nubi e tutto, da ogni parte, aveva recuperato i colori dell’estate.

Eugenia rispuntò allora sulla porta, con i sacchi dell’immondizia in mano e, proprio in quel momento, Luna filò di corsa verso la vasca e cominciò a ringhiare, girandosi verso il padrone.

Poi si tuffò. Riemerse trascinando qualcosa afferrato con le zanne. Renzo si avvicinò, lei mollò la presa e si tirò su dall’acqua.

Il cadavere affiorò tra le foglie: galleggiava a testa in giù, a braccia aperte come uno spaventapasseri.

«Dio mio…», mormorò Renzo, «un morto… un morto!»


La prima volta che era entrato in quella caverna, il professor Giancarlo Guidotti era caduto in ginocchio di fronte a ciò che gli si era parato davanti. Non credeva ai propri occhi.

Di menir, pietre modellate a losanga, pietre altare, incavi di coppelle, incisioni raffiguranti oggetti, animali, esseri umani, nella sua attività di archeologo ne aveva incontrate a migliaia. Aveva trovato anche piccole statuette dalla testa di luna, altre di donne stilizzate, con grandi seni e glutei; aveva percorso canyon scavati dai torrenti, con pareti a strapiombo sulle quali erano scolpite enormi vulve; si era infilato in caverne dove, di nuovo, aveva rinvenuto quel simbolo: la vulva, ben intagliata nella roccia e abbastanza grande da permettere ad un uomo (o una donna?) di sedercisi dentro. Mai, però, si era trovato davanti a qualcosa di tanto grande, eccezionale, evocativo e misterioso.

A quella grotta era arrivato per caso, cercando una chiesetta dedicata a Santa Maria Maddalena. Si era infilato nel bosco seguendo le indicazioni di un vecchio pastore e i sentieri aperti dagli animali selvatici nella vegetazione intricata, da decenni abbandonata a se stessa.

Mentre con la roncola cercava di tagliare un groviglio di vitalbe e rovi per farsi strada, vide, più avanti, una signora piegata a raccogliere qualcosa. Sembrava anziana, con i lunghi capelli grigi raccolti in una treccia. Forse una del posto? Andar per funghi, da soli, in quei luoghi, era comunque abbastanza imprudente. «Signora, signora!» La chiamò.

Lei alzò il capo, sorrise, poi si raddrizzò e lo salutò con la mano. Il professore si rese conto, dai lineamenti e dal colore della pelle, che la donna non era italiana, dunque pensò che potesse trattarsi di una badante. Provò a chiederle: «Il ruscello… l’acqua… acqua, sì… sa dov’è?» Lei sorrise di nuovo e gli indicò una sorta di percorso tortuoso alla sua sinistra.

Seguendo quel cenno, Giancarlo Guidotti era poi finito nel greto di un ruscello semiasciutto e lo aveva percorso in direzione della sorgente, scalando le cascatelle che incontrava, sempre attento ai minimi segni di graffiti umani che avrebbe potuto rinvenire sulle rocce.

Proprio alla pieve di San Paolo, in Lunigiana, giorni prima, si era imbattuto in qualcosa che, a prima vista, poteva sembrare soltanto un ammasso di pietre. Invece no.

Era stata Karin a intuirlo.

«Fermati, fermati! Guarda… aiutami a togliere questi rami… ecco, così. Vedi? La vedi?»

«Una losanga, ed è perfetta, enorme e perfetta!»

«Siamo vicini, Giancky, siamo vicini al suo tempio. Tutto ciò è meraviglioso», esclamò Karin, mentre si affannava a fotografare la pietra da ogni lato. Era davvero una enorme losanga con un punto al centro, una coppella, immagine della Dea Madre Gravida; era lì, distesa a terra in un intrico di rovi, vitalbe e pruni selvatici.

«La dea era adorata da queste parti e, guarda caso, qui a due passi c’è una pieve millenaria», disse Giancarlo, «forse le idee di tua zia Johanna su un collegamento tra le pievi matildiche, cioè tra Matilde di Canossa e l’antico culto della dea non è così assurda».

Certo: se in quel momento l’avessero ascoltato i suoi colleghi archeologi “puri”, gli avrebbero dato del venditore di fumo, lo sapeva bene. Tuttavia, nonostante le sue tesi apparissero troppo fantasiose per chi si atteneva con fermezza ai soli esiti scientifici, Giancarlo era convinto che la losanga, cioè il rombo schiacciato, fosse la raffigurazione dell’organo sessuale femminile: l’origine della vita, l’origine del mondo.

«Non lo so, Karin, forse già questo era un altare, un tempio. Se riuscissimo a pulire e mettere in piedi le altre pietre, scommetti che troveremmo altre losanghe? E quello? Quello non sembra un menhir?»

Ne avevano trovate diverse di quelle pietre a losanga, le avevano fotografate, avevano preso appunti, poi erano rientrati entusiasti al bed and breakfast “Da nonna Eugenia”, in Garfagnana, dove li aspettava Johanna, come sempre concentrata in qualche rito dedicato alla dea, seduta a terra, al centro di un labirinto a forma di cuore tracciato su un tappeto.

«Non è un labirinto», aveva spiegato lei, «vedete: rappresenta l’acqua, i cerchi concentrici dell’acqua e la punta all’ingiù che dà forma a un cuore è il simbolo del pube femminile. È la stessa della “M”!»

Giancarlo aveva chiacchierato a lungo con lei e aveva poi deciso di partire da solo, il giorno dopo, alla ricerca di una misteriosa chiesetta sui monti, di cui tutti parlavano, ma che sembrava sparita, forse distrutta dal diavolo. Ormai sapeva che, di solito, dietro, sotto e intorno a quelle che sarebbero poi diventate sedi di culto cristiane, c’erano state località consacrate a qualche divinità più antica, il più delle volte femminile.

Stava, dunque, risalendo il ruscello, inerpicandosi sulle rocce, quando, tastando un masso, gli sembrò di percepire una forma.

Lontano, udì degli spari, eppure, la stagione venatoria non era ancora iniziata. Forse si trattava di caccia di selezione? O di un bracconiere?

«Spero che non mi scambino per un cinghiale…», brontolò tra sé. Cercò nella tasca dei pantaloni il sacchettino che, la mattina, Eugenia gli aveva consegnato e lo strinse forte.

Non era la prima volta che una rosa di pallini o un pallettone lo sfiorava e non ci teneva proprio ad essere abbattuto al posto di un animale selvatico. Magari, la magia di Eugenia contro i malefici funzionava! Si fermò, cercò di capire la distanza e la direzione degli spari, poi ripulì la pietra cui si era assicurato.

Un brivido gli attraversò la schiena, e non per la paura degli spari; fu l’immagine in rilievo di una sirena bicaudata emersa dal muschio e dal terriccio, grande quanto il palmo della sua mano, con tanto di seni ben eretti che lo sbalordì.

Tutt’intorno, i segni incisi di piccoli labirinti, zig zag, losanghe, e poi quel simbolo particolare, la “M”, con la punta mediana breve e all’ingiù: i simboli dell’acqua che scorre, della vulva, della donna che dà la vita. “M”, il pube femminile, “M” la mamma, la madre, la madonna…

«Eccoti, piccola, ti ho trovata!» Sussurrò, mentre lisciava la scultura sbalzata con le due code che parevano quelle dei serpenti - più che dei pesci – tenute spalancate dalle mani a mostrare l’origine della vita.

«Eccoti, mia bella Melusina… sei davvero bellissima».

In realtà, la creatura era mostruosa e appena abbozzata, tuttavia era la conferma dell’intuizione che lo aveva condotto in quel bosco. Altri spari, sempre più lontani; alzò allora il capo verso la cima degli alberi, seguendo il tramestio di alcuni uccelli che s’erano alzati in volo e, di nuovo, rabbrividì: «Non è possibile…», esclamò, vacillando e rischiando di cadere dalla piccola cascata, «che ci fanno così tanti e tutti insieme?»

In alto, sopra la sua testa, almeno una decina di lunghe serpi verdi scivolavano tranquille sui tronchi e sui rami, allacciandosi e sciogliendosi, ondeggiando come in una danza. Poi, quasi dando ascolto a un comando, si addentrarono nella macchia, tutte in fila, nella stessa direzione.

Gli vennero in mente le chiacchiere del pastore che gli aveva segnalato il percorso:

«Attento, professore, stia molto attento in quei boschi, perché lì dentro c’è il “motro botaio”, brutto, grande, con la testa grossa».

«Cosa? Di che parla?»

«È un serpente grosso che fischia, e quando fischia tutti i bisci nei dintorni corrono da lui. Tutti quanti, anche mille. Dicono che l’hanno visto verso quel fiume… quello dove nasce il Serchio. Ha una corona da re in testa, dicono che ci sia un diamante al centro. Dicono che incanta, che fa vedere delle illusioni. Dicono che è un illusionista».

«Per caso ha pure le ali? Vola?» Rise Giancarlo.

«Bravo! E come fa a saperlo? Forse è un serpente, forse è un diavolo. C’è anche a Castiglione, laggiù dal mulino, vicino al ponte. Che poi, quello è proprio un ponte del diavolo, no?»

Il pastore se n’era andato con un ghigno divertito stampato in faccia, bofonchiando tra sé che i mugnai erano sempre stati tutti furfanti e per questo vivevano in combutta con Lucifero.

Intanto, lì nel ruscello, Giancarlo ebbe la netta sensazione che quei saettoni – serpenti innocui, per fortuna – volessero indicargli una strada. E li seguì.

La grotta gli si parò davanti all’improvviso, subito dopo una frana recente, come si intuiva dal colore intenso delle rocce e del terriccio. Dietro al cumulo di materiale inerte si ergeva, infatti, un costone roccioso, nascosto dalla vegetazione, dove si apriva una cavità.

L’ingresso era intagliato a forma di losanga. I serpenti, nel frattempo, si erano dileguati.

Giancarlo si guardò intorno e poi entrò.

Ciò che vide lo lasciò senza fiato.

Piegò le ginocchia e restò così, come in estasi, mentre i rumori del bosco sembravano amplificarsi da ogni parte, fino a diventare una musica, un canto mistico, qualcosa di solenne, sovrumano, qualcosa che era celestiale e infernale allo stesso tempo.


Johanna Rolff era venuta in Italia per la prima volta a sedici anni, accompagnata dal padre. Aveva percorso la penisola in lungo e in largo e aveva visitato tutte le città d’arte; in particolare, aveva dedicato molto tempo a quelle toscane. Affascinata, catturata da tanta bellezza, dalle forme morbide del paesaggio e dalle architetture dei centri abitati, in armonia con i colli, gli ulivi, i cipressi, aveva deciso che, una volta adulta e libera di muoversi, sarebbe tornata.

Fedele a quel proposito giovanile, giunta alla pensione e abbandonato l’insegnamento di storia dell’arte all’università, Johanna lasciò Amsterdam e tornò in Italia, nella sua amata Toscana.

Fu a Pitigliano che s’imbatté, per la prima volta, in uno strano simbolo. Un flash back la riportò a quel suo viaggio con il padre, ricordò il giardino rinascimentale di Bomarzo e la riconobbe: quella sulla pietra era lei, la sirena a due code. In realtà, non sembrava una creatura per metà donna e per metà pesce; le due code somigliavano più alle estremità di due serpenti.

Eppure, era proprio leì, così come era lei in un’antica pieve, vicino a Pienza. E ancora a Sovana, su due tombe etrusche, e persino sul duomo. Che voleva da un’anziana professoressa olandese, quella strana creatura? Perché Johanna se la ritrovava ovunque tra i piedi? E, soprattutto, chi era?

«Zia, portami con te, la prossima volta», le aveva detto Karin, la nipote archeologa, al suo ritorno in Olanda, «vorrei davvero indagare più a fondo il mistero della dea sirena, vorrei capire che collegamento c’è con la leggenda della Melusina. La conosci, vero, quella storia?»

«Quella cantata dai trovatori medioevali? Con un principe e una fata? Ne avevo letto, sì…»

«Proprio quella, zia, dove una bellissima fata perse la testa per un uomo, Raymondin. I due giovani si sposarono, però Melusina pose una condizione: ogni sette giorni voleva restare sola. Pensa, zia: una femmina che chiedeva di restare sola e libera…»

«In effetti, fa riflettere. Poi, come andò? Non ricordo bene».

«Andò che ci si mise di mezzo quel ficcanaso del fratello di Raymondin che, un sabato, notando l’assenza di Melusina, spinse il principe a seguire la moglie. E sai? Semplicemente, scoprì che lei si lavava! La vide fare il bagno, sola, in uno stagno!»

«L’acqua… c’è sempre l’acqua di mezzo».

«Certamente: l’acqua e i serpenti. Infatti, ciò che sconvolse Raymondin fu vedere una coda di serpente che spuntava dall’acqua».

«E lui che fece? La uccise?»

«No, restarono insieme, però, poi, il figlio maggiore incendiò un monastero, uccidendo tutti i monaci, allora Raymondin accusò la moglie di aver corrotto il ragazzo con il suo spirito demoniaco e lei se ne andò per sempre. Raymondin decise perciò di farsi monaco per scontare il male fatto alla moglie».

«Una storia davvero piena di simboli riguardanti anche la condizione femminile e i rapporti uomo donna. Poi ci sono i riferimenti ai rapporti tra la Chiesa e le antiche religioni pagane… Grazie per avermela ricordata. E sì: verrai con me in Italia, mia cara».

Johanna Rolff si era dunque rimessa in viaggio con la nipote, dopo aver prenotato nel solito bed and breakfast a Castiglione di Garfagnana. I due padroni erano anziani, ma gentili e affidabili e lei, nonna Eugenia, piccola, minuta, con grandi occhi azzurri, aveva conoscenze che andavano dalla cura con le erbe a riti di guarigione quasi magici. La professoressa non si azzardava ancora a chiederle dove avesse appreso tutti quei segreti da sciamano ma, prima o poi, l’avrebbe fatto, non poteva lasciarsi sfuggire una simile occasione.

Intanto, con Karin, si era recata a visitare la pieve di san Vito e Modesto, a Corsignano, Pienza.

Sul portale, i soliti, stupefacenti bassorilievi. Da un lato c’erano due sirene – una delle quali bicaudata e l’altra provvista, forse, di uno strumento musicale – e dall’altro due figure femminili, mentre sui lati c’erano due serpenti.

Johanna aveva pian piano scoperto che la narrazione del serpente tornava di continuo nei racconti del folklore garfagnino. Proprio nonna Eugenia le aveva raccontato la storia del “Marchiò di Petrognano”, un importante avvocato dell’Ottocento il cui cadavere, alla morte, era misteriosamente sparito.

«Probabilmente, Marchiò aveva l’anima dentro al corpo di due serpenti», aveva riferito la donna, «due grossi bisci nutriti ogni giorno da un contadino. Poi, però, una mattina lui si sentì male e mandò un altro al suo posto. Il poveretto, invece, si spaventò e li ammazzò. Be’, guarda caso, anche Marchiò morì. Lo misero in una cassa, ma il cadavere sparì. Era stato il diavolo! Allora, riempirono la cassa di sassi e di spini e la sotterrarono così!»

Al bed and breakfast, Johanna e Karin avevano incontrato un archeologo, il professor Giancarlo Guidotti, anch’egli alla ricerca di iscrizioni e figure incise sulle rocce ricollegabili alle antiche religioni.

«I segni che ci arrivano dalla preistoria hanno una valenza mondiale», aveva spiegato il professore, «è come se tutti i popoli del pianeta fossero, da sempre, in collegamento».

«In effetti, la sirena bicaudata è presente in tutte le civiltà del pianeta», disse Johanna.

«Certamente! E vi ricordate il “fiore della vita”? Ecco: lo potete ritrovare nel terzo millennio avanti Cristo in Egitto, o in un portale del diciassettesimo secolo a Camporaghena, in Lunigiana. Così è per lo “zig-zag”: è in Africa, in India, nelle tribù degli indiani d’America come nelle civiltà andine».

«Concordo. Anche la cultura semitica, come gli Etruschi, considerava il serpente come sacro. Divinità della vegetazione, guardia dei santuari e dei confini, simbolo della vita. L’acheologia degli accademici, però, direbbe che sono coincidenze, o sbaglio?» Domandò Karin.

«Già, e sai una cosa? Fra le bestemmie più usuali sulla bocca dei toscani, c’era proprio “dio serp.....”. Vuoi la verità? La verità è che relegare a meri simboli geometrici o coincidenze tutti i segni, tutte le leggende, significa non averli compresi e nemmeno essersi sforzati di farlo».

Con il professor Guidotti, Johanna Rolff e Karin Van Comperen erano in seguito salite nel Frignano, sull’Appennino modenese, dove una infinità di “sassiscritti” avevano dato loro conferma di quanto gli stessi segni e simboli comparissero sulle pietre in ogni zona del mondo, dalle montagne italiane, alle Ande, ai deserti africani o australiani.

E il serpente, o meglio: la dea serpente, la dea sirena, era fra quelli.

Ma fu a Roma che Johanna ebbe una vera e propria rivelazione a riguardo.

Mentre camminava nella basilica di San Pietro, s’imbatté nella tomba della contessa Matilde di Canossa, opera di Lorenzo Bernini. In alto, sul monumento funebre, un po’ defilato, ecco il bassorilievo di una piccola sirena bicaudata. Da allora, la professoressa aveva girato l’Italia inseguendo i misteri che legavano Matilde (e il popolo dei Longobardi) alla sirena, alla dea madre, al culto delle fonti, delle caverne, delle serpi e delle fate.


Era partito al mattino, alla ricerca della chiesetta perduta, e ora era quasi sera.

Fuori dalla grotta s’era alzato un vento furioso che strapazzava il bosco. Giancarlo sperò che si quietasse, invece le folate si intensificarono, trasformandosi in violenti vortici d’aria che si sfidavano, guerreggiavano, avvinghiandosi, respingendosi, sollevandosi verso la cima degli alberi, in un caos che risucchiava foglie, polvere e rami spezzati, per poi buttarli a terra con un boato.

Provò ad uscire, ma il vento sembrò convogliare tutte le sue forze su di lui, travolgendolo con tale potenza da obbligarlo a una danza assurda per mantenere l’equilibrio e non ruzzolare a terra.

Guardò in alto e il cielo gli parve interamente grigio, formato da una sola, sconfinata nuvola che offuscava il sole. Ora, il vento mugghiava tra le cime degli alberi e la temperatura si era di colpo abbassata, come se qualcuno avesse spalancato le porte del regno dei morti.

L’aria pungente colpiva a frustate nette, risolute, e l’unica scelta possibile era restarsene al riparo nell’antro, aspettando che tutto si placasse.

Infine, il vento cessò di colpo e un tuono echeggiò da lontano, poi un altro, e un altro ancora, in un susseguirsi di scoppi più forti e ripetuti. Si fece buio, i lampi e i fulmini accompagnarono i tuoni, mentre un rovescio di grandine con chicchi grossi come pesche si scagliò sulla boscaglia.

Allora, un fiotto di acqua fangosa precipitò dal costone di roccia sopra di lui verso la frana, formando una cascata e trascinando con sé rami e alberi sradicati, tanto da ostruire, in parte, l’uscita della caverna.

Giancarlo, ringraziò di essere al riparo e ancora tastò il pacchettino che Eugenia gli aveva regalato: sì, quell’amuleto lo stava davvero proteggendo. In mezzo al frastuono della tempesta, gli parve di distinguere un tramestìo più vicino: forse un animale stava tendando di spostare tralci e fronde per poter entrare. Si guardò alle spalle e pensò di ritirarsi più a fondo nel cunicolo, nascondendosi, perché non aveva voglia di trovarsi faccia a faccia con un cinghiale impaurito, né con un lupo.

Diede un’ultima occhiata al manufatto che gli troneggiava davanti – la sua meravigliosa scoperta - si assicurò di aver salvato le foto che aveva appena scattato con il cellulare e arretrò di qualche passo, accucciandosi dietro le rocce.

Dio com’era bella! Su un enorme trono di pietra, intagliata e scolpita nello stesso blocco, una sirena bicaudata era seduta con una conchiglia nella mano destra e un recipiente per l’acqua nella mano sinistra.

Al posto delle gambe, due code di serpente avvoltolate fino a terra. Il volto, bellissimo e ben definito, aveva un’espressione oscura, ambigua, e gli occhi, nel balenìo dei lampi, parevano lanciare sguardi inquietanti. Sulle spalle, qualcosa che sembrava l’attaccatura di due ali, tuttavia, nel buio, Giancarlo non era riuscito a controllare.

La statua aveva la stessa collocazione della Madonna in trono di tante opere d’arte, ma anche di Iside e di altre dee pagane. La cosa più incredibile erano le collane di ossa e altri materiali che qualcuno le aveva posto al collo: da più di mille anni, probabilmente, erano rimaste lì, forse per la chiusura accidentale della grotta da parte di una frana.

E, appesa a una delle collane, luccicava una sorta di grossa mandorla di pietra, probabilmente di pirite. Sì, era fatta con un minerale che inglobava cristalli e corpuscoli brillanti, pareva d’oro.

Il professore sapeva bene che quella forma particolare, la mandorla, come la losanga, era il simbolo della vulva, centro della vita.

Ancora un rumore di foglie e rami spezzati, poi una figura si stagliò sul varco, nel bagliore dei lampi. Era un uomo. E aveva un fucile in spalla.

Il cacciatore, deposta l’arma contro una parete, si tolse il cappuccio del giaccone e si ripulì dalle foglie e dal fango. Poi la vide:«Ma cos’è? Porco… ma… ma… cos’è?»

Si accostò alla sirena, ne sfiorò le estremità con le dita, si soffermò sul volto, sui capelli, sui seni.

Giancarlo, intanto, nascosto nel cunicolo, lo fissava e si chiedeva se uscire allo scoperto o rimanere in attesa. Aveva appoggiato una mano a terra e si era accorto che un rivolo d’acqua calda fuoriusciva nella cavità. C’era pure qualcosa che lo innervosiva, un odore forse di zolfo, di uova marce, un gas irritante. «Speriamo che non si sia rotta qualche conduttura del metano», pensò, «anche se non credo che le tubazioni passino da queste parti».

Il cacciatore continuava ad accarezzare la statua, poi notò la mandorla appesa a una delle collane.

«Oro? Sarà oro? Vacca d’un cane, se è oro, grossa com’è, ci compro un altro fucile!»

Fece per staccare la mandorla, ma il laccio non cedette. Allora, tentò di togliere l’intera collana passandola sopra al capo della sirena, ma si aggrovigliò con le altre collane e cominciò a bestemmiare. Chinato su quello che riteneva un gioiello, inciampò in qualcosa e si accorse che, proprio di fianco alla statua, c’era uno zaino: «Be’? E questo cosa ci fa qui?»

Giancarlo tremò, ma non si mosse, sperando che l’uomo non lo aprisse e che, soprattutto, non si rendesse conto della sua presenza.

Nel buio, il cacciatore tentò di esaminare l’interno della grotta, usando la torcia del cellulare, ma non vide niente, a parte un rigagnolo di acqua da cui si alzavano aliti di vapore.

«C’è qualcuno?» Gridò, poi, non ottenendo risposta: «L’avrà dimenticato Giuliano, il pastore. Questi posti li conosce solo lui…», e riprese a trafficare e a bestemmiare intorno alla statua.

La luce rossa del tramonto, adesso che la tempesta si era acquietata, penetrò nell’antro, riversandosi sulla mandorla e provocando ancor più l’incauto ladro. L’uomo estrasse un coltello e, infuriato, provò a tagliare tutte le collane.

Giancarlo, nel suo buco, non fiatava, anzi, faticava proprio a respirare per quel forte odore di gas, mentre sentiva la testa farsi via via più leggera. Distingueva anche una sorta di respiro lugubre, un sibilo di cui non capiva l’origine, e vide che, a poco a poco, il rivolo d’acqua calda si era fatto più copioso.

Ora, bagnava le code della sirena. E le code si mossero.

Non volle crederci, guardò meglio: davvero, si muovevano e, intanto, anche le braccia sembravano oscillare.

«Mostro maledetto!», gridò il cacciatore, che si era sicuramente ferito. «Torno con una mazza e ti faccio a pezzi!» Afferrò lo zaino e iniziò, con quello, a percuotere la statua.

Fu un attimo e, dalle spalle della dea, due ali spuntarono aprendosi, nere e lugubri, poi si udì un grido, come di un’aquila o di un falco, e le code della sirena si avvolsero intorno al corpo del cacciatore, comprimendolo in una morsa letale.

Giancarlo chiuse gli occhi, trattenne il fiato e strinse con tutte le sue forze il pacchetto di nonna Eugenia:«Mio Dio… mio Dio… aiutami!»

Quando, un attimo dopo, li riaprì, vide che la creatura - la dea, la Melusina – si stava alzando in volo oltre l’ingresso della caverna con il malcapitato ladro - che aveva ancora nelle mani il suo zaino - imprigionato tra le spire.

Il grido di un’aquila risuonò nell’aria.

Melusina si librò su in alto, nei cieli dorati del tramonto garfagnino.

L’avevano tirato su dalla piscina e avevano recintato tutta la scena con il nastro bianco e rosso, in attesa della scientifica che avrebbe fatto i rilevamenti. Poi, i volontari dell’ambulanza e i vigili del fuoco se n’erano andati, lasciando i carabinieri a parlare con Eugenia, Renzo e il pastore Giuliano, accorso in fretta e furia quando aveva avvertito il suono inquietante delle sirene.

Johanna e Karin, sedute a uno dei tavoli sotto il porticato, li osservavano, chiaramente sconvolte, intanto che Luna, confusa, correva all’impazzata mugolando.

Il maresciallo l’accarezzò per calmarla, mentre cercava una matita nel taschino: «Dunque, signor Suffredini, i suoi ospiti sono questi?»

Renzo annuì, ma intervenne Eugenia:«No, no, ne manca uno… Renzo, sai che ho guardato in camera sua e il signor Giancarlo Guidotti non c’è? Non ha dormito nel letto, dunque non è proprio rientrato».

«Si tratta del professor Guidotti? Proprio di quel famoso archeologo?» Domandò il maresciallo.

«Certo, proprio lui…», rispose Eugenia, «vede: quello è il suo zaino e, pensi, giusto ieri mi aveva raccontato del suo progetto. Voleva cercare i resti di una chiesa scomparsa, quella su, nei boschi… quella portata via dal diavolo, dicono. Allora, gli avevo preparato uno dei miei amuleti perché, sa, maresciallo, quando si va a rimestare nelle attività del maligno è meglio proteggersi!»

«Vero, vero», intervenne Giuliano, «anche a me aveva chiesto informazioni e io gli avevo indicato un sentiero, uno di quelli usati dai cacciatori… Infatti, maresciallo, ci metto la mano sul fuoco che quel tipo morto ammazzato è un cacciatore: è malconcio, ma mi sembra proprio di averlo riconosciuto!»

«Ah, non si preoccupi, la vittima aveva i documenti, dunque non ci sono difficoltà», disse l’ufficiale, «piuttosto: era di sicuro un cacciatore di frodo, visto che la stagione è ancora chiusa. E poi, dov’è finito il fucile?»

«Bel problema! Ma, il bracconiere, non potrebbe essere stato attaccato da un animale selvatico impallinato?» Domandò Giuliano.

«Direi di no… le ferite sembrano dovute a corde, è morto strozzato, soffocato, una roba mai vista, sinceramente. Inoltre, non ci sono sue tracce fuori dalla piscina, come se fosse stato trasportato qui dal vento. Piuttosto: perché lo zaino del professore è qua? Mi raccomando: non toccatelo!»

Le due donne, sotto al porticato, allo sguardo del maresciallo annuirono, versandosi il caffè bollente che Eugenia aveva appena preparato.

Johanna era molto angosciata e cominciava a temere per la vita dell’amico; addentrarsi nella boscaglia, incappare in una spaventosa tempesta e passare la notte chissà dove, sui monti, senza nemmeno lo zaino con le scorte era davvero pericoloso: «Karin, tu hai idea di dove sia Giancarlo?»

«Non lo so, zia. So che aveva parlato con quel pastore… lui gli aveva indicato un ruscello con dei “sassiscritti”… Però, non sarebbe mai partito senza il suo bagaglio!»

Il maresciallo, con Luna a fianco, si diresse verso le due donne:«Mi raccomando, signore, non lasciate Castiglione prima che sia conclusa questa prima parte delle indagini. Potremmo aver bisogno di voi, anche se a vostro carico non c’è niente. E ora vi lascio, sta arrivando la scientifica e io devo rientrare al comando». Fu allora che Luna si accostò allo zaino del professore, lo annusò a lungo, cominciò a fiutare tutto intorno e poi partì di corsa, abbaiando furiosamente.

«Luna!Luna! Dove vai, vieni qua!» Gridarono all’unisono Eugenia e Renzo, ma la cagnolona era già sparita in direzione del ponte, giù, vicino al mulino.

Ricomparve dopo diverse ore, sul far della sera, quando la polizia scientifica, terminato il suo compito, se n’era già andata. Non era sola. Con lei c’era il professore.

«Giancarlo! Mio Dio, Giancarlo!» Gridò Karin, correndogli incontro e buttandogli le braccia al collo:«Che hai fatto? Che ti è successo? Ma sei ferito… chi ti ha medicato la mano?»


Era passata ormai una settimana dalla notte della tempesta e dal ritrovamento del cadavere nella piscina dei Suffredini. I tre ospiti del bed and breakfast erano stati interrogati dai carabinieri, ma non era emerso nulla che potesse far pensare a un loro coinvolgimento nell’omicidio.

«Caduto in una trappola dei bracconieri», disse Renzo, commentando le notizie del telegiornale regionale, «ma voi ci credete? Strozzato dalle corde di un laccio e poi portato fin qui dagli altri bracconieri che erano con lui? E perché, poi?»

Stavano facendo colazione tutti insieme, Johanna, Karin, Giancarlo e il padrone di casa, mentre Eugenia era andata a ritirare i panni stesi la sera prima, così da poterli stirare ancora un po’ umidi.

«Davvero non ricordi niente?» Domandò Johanna al professore. «Non ricordi nemmeno dov’eri quando hai perso conoscenza?»

«Niente, vuoto assoluto», rispose lui, «mi sono svegliato nei pressi del ruscello, mi sono messo in piedi e ho capito di non avere più lo zaino con me. L’unica cosa che ricordo è l’immagine di una sirena bicaudata trovata su una pietra mentre risalivo il corso d’acqua e poi uno strano sapore amaro in bocca. E un odore, come di gas. Forse, sarò caduto e avrò battuto la testa, anche se non ho ematomi. Senz’altro, il cacciatore avrà trovato il mio borsone e l’avrà portato con sé».

«La busta magica che le ha dato Eugenia, allora, ha funzionato», disse Renzo, «mia moglie non sbaglia mai con i suoi portafortuna!»

«Dunque, ti avrebbe medicato una donna…», mormorò Karin, «ricordi com’era? E come si chiamava?»

Il professore osservò l’abrasione ormai cicatrizzata sulla mano, probabilmente dovuta a una pietra tagliente:«Ora ce l’ho bene in mente, sì: era anziana, con una lunga treccia bianca e… mio Dio! Io, quella l’avevo già vista! Sì: mi aveva indicato il sentiero per il ruscello. Una donna straniera, con lineamenti orientali… no, non proprio orientali, sembrava… sembrava… »

In quel momento, Eugenia arrivò con la cesta della biancheria. La posò sul tavolo e ne estrasse una sorta di sciarpa bianca di cotone, ricamata di rosso ai bordi.

«La donna che ha incontrato, professore, non credo fosse orientale. Le ha chiesto come si chiamava?»

«Certo, gliel’ho chiesto, ma poi è arrivata Luna… mi sono confuso, lei è sparita e io, ora, non mi ricordo più».

«È questa la pezza che ha usato per fasciarla, vero?»

«Mi pare proprio di sì».

«Vede, professore: io sono brasiliana e Isadora era mia nonna, era india e sapeva guarire come uno sciamano. Vede cosa c’è scritto qui, cosa c’è ricamato? Guardi…»

Sulla sciarpa bianca, in un angolo, rosso come il bordo, si leggeva chiaramente un nome: “Isadora”.


Johanna e Karin avevano deciso di ripartire per Amsterdam e anche Giancarlo Guidotti stava riordinando tutto il materiale raccolto per poi rientrare a casa.

Dopo aver scaricato sul computer le immagini della macchina fotografica, si ricordò di avere diversi scatti anche sul cellulare, soprattutto del viaggio nel Frignano. Collegò gli apparecchi e aspettò.

«Possiamo salutarti?»

Johanna e Karin entrarono nella stanza:«Pensavamo di andarcene nel pomeriggio, ma dicono che il tempo peggiorerà, dunque meglio partire subito».

«Teniamoci comunque in contatto e cerchiamo di scambiarci le informazioni», disse Johanna, «io so che la dea ci sta cercando perché vuole che raccontiamo di lei al mondo».

«Vero», aggiunse Karin, «e a te, Giancarlo, lei si è rivelata per mezzo di Isadora, la nonna di Eugenia. Sei un privilegiato!»

Risero di cuore e si abbracciarono, quand’ecco che Johanna gridò:«Ma è lei, è lei… là, nelle foto!»

Sullo schermo del computer, le anteprime di almeno una decina di istantanee parevano riportare l’immagine di una sirena.

Giancarlo, all’improvviso, ricordò tutto: la grotta, la creatura, il cacciatore.

«Non è possibile, non è possibile…»

Si sedette e ingrandì le foto: seduta su una sorta di trono, con le due code di serpente al posto delle gambe, una magnifica sirena bicaudata lo osservava.

Aveva occhi vivi, e sembrava sorridere.


Ho scritto questo racconto pensando alla "Grotta del Tanaccio", zona Camaiore.

"È chiamato Trono del Papa, ma con la chiesa ha poco a che vedere, sebbene riporti l’incisione di una specie di croce. È la stalagmite scolpita a forma di sedile, che si trova all’interno della grotta del Tanaccio, sulle pendici del monte Gevoli, nelle Apuane, la cui origine è stata collocata verso la fine del neolitico. Uno dei molti luoghi densi di mistero e di magia custodito dalle montagne di marmo, che si trova a circa 800 metri sul livello del mare nel comune di Camaiore.



Il trono non è una creazione naturale dovuta all’erosione degli agenti atmosferici, ma è un vero e proprio manufatto preistorico e questo rende ancora più difficile la spiegazione del suo uso. La colonna di pietra, formata dal depositarsi millenario di gocce calcaree, si è innalzata dal pavimento della grotta del Tanaccio, che è stata sicuramente abitata da uomini primitivi perché resti di ossa risalenti al neolitico sono state rinvenute all’interno della cavità naturale larga circa 14 metri. A che serviva, dunque, il sedile? Nessuna delle diverse ipotesi avanzate dagli studiosi ha un riscontro effettivo di prove che la confermino. Tuttavia, alcune di queste, risultano particolarmente affascinanti. Il trono è rivolto verso l’entrata della grotta e ha una sorta di spalliera sulla quale c’è una incisione a forma di croce e una seduta concava che fa pensare più a un lavandino o a una vasca. Per questo motivo è stato ipotizzato che fosse una sorta di proto-sedia da parto, cioè che venisse usato dalle donne per partorire i neonati con l’aiuto dell’acqua raccolta nella cavità del sedile. Il trono si trova in un punto abbastanza riparato della grotta e questo ha permesso la formulazione di un’altra ipotesi secondo la quale che si tratterebbe, invece, di una specie di nido d’amore e di fecondità: il luogo in cui avvenivano i riti propiziatori che si esprimevano con rapporti sessuali tra i membri della comunità preistorica che abitava la grotta del Tanaccio. La stretta vicinanza tra la grotta del Tanaccio con quella dell’Onda e quella della Vulva, farebbe pensare che le tre cavità naturali fossero abitate dallo stesso gruppo di uomini – tracce risalenti alla preistoria sono state rinvenute in tutte e tre – che le usavano per scopi diversi. La grotta del Tanaccio per i riti della fecondità o per il culto lunare della Grande Madre riservato alle sole donne, quella della Vulva per i riti di passaggio all’età adulta, con i giovanetti che dovevano passarvi una notte esposti all’aggressione delle belve e la grotta dell’Onda dove, invece, avevano dimora".
























1 commento:

  1. Frequentemente compare nella stessa iconografia cattolica ufficiale l’immagine stereotipica della Madonna circondata da un perimetro chiuso a forma di mandorla dalle appuntite estremità ogivali.
    Se i (preti) cristiani sapessero…

    RispondiElimina