Nel bosco, sorpassata una conca sulla destra - forse una cava di pietre in disuso - è il verde oliva di una pianta insolita ad accogliere i visitatori. In inverno, quando le roverelle sono spoglie, è lei che si fa notare. È come se facesse da guida verso il “santuario” dei petroglifi. Cresce lì, ai bordi del sentiero, spunta dalle fessure sui massi e nello spazio tutt’attorno; ha radici tenaci, fiorellini bianchi e un’aria mediterranea, quasi fossimo su scogli antistanti il mare. Invece siamo in mezzo ai monti, nella valle del Tassaro, non lontano dal torrente Enza nel comune di Vetto. L’acqua dunque c’è, più in basso, e doveva esserci anche lì, perché resta qualcosa che pare un pozzetto, un incavo dove le foglie umide, nonostante non piova da mesi, indicano una sorgente. Sono, questi, i territori dei conti Da Palude, il cui primo feudatario, Guido, morì in Terrasanta nel 1202, durante la terza crociata.
La pianta delle scope
Gróm, óls, ólsa, ûles, ûls, ûlsa sono i nomi dell’erica nel dialetto della montagna reggiana. In altre zone d’Italia viene chiamata urxe, uxe, úrscia, uexie, ulice, ulsi, ma anche, semplicemente, scùa: scopa. Il nome del monte Lulseto, quindi, deriva chiaramente, da ûlsa, la pianta delle scope. E la scopa (di saggina o altro) da sempre è collegata alle superstizioni e a tradizioni arcaiche. Le scopine augurali che si regalano a Natale dovrebbero spazzare via le sfortune, per esempio. Il fatto poi che, spazzando, si tolga la sporcizia, ne aumenta il simbolismo. I druidi usavano scope di erica per purificare gli altari ed è a questo che si deve, forse, il suo significato di portafortuna. È un simbolo legato anche ai riti della fertilità, culti che risalgono al neolitico: se ne ha traccia in nord Europa fino alla cristianizzazione di quelle terre. Un culto simile era praticato a Roma nei Lupercali a opera dei sacerdoti del Faunus Lupercus. Questi, con delle fruste fatte di cinghie di cuoio, ma anche con fastelli di rametti, praticamente scope, propiziavano la fertilità del terreno e delle donne colpendoli quando la natura rinasceva, cioè circa a metà febbraio. L’erica arborea ha la capacità di resistere agli incendi, infatti in molte zone veniva usata per pulire il forno dalle braci prima di cuocere il pane; durante un incendio, se la parte aerea viene bruciata, la parte basale e sotterranea, la "radica" con cui si producono le pipe, resiste e produce nuovi getti. I botanici dicono che quando ci si trova davanti a un ericeto a erica arborea, non c’è bisogno di indagini storiche o analisi specifiche: si può facilmente immaginare che la zona sia stata più volte incendiata (per ricavarne pascolo?) e il suolo gradualmente inacidito.
Il masso inciso
Procedendo sul sentiero, ci si immerge in un micromondo fatto di agglomerati di arenaria scura ricoperti da licheni biancastri, dove i caprioli vagano tranquilli. Sono formazioni sicuramente naturali, eppure ricordano dei semicerchi artificiali. Potrebbero essere ciò che resta del prelievo di pietra da costruzione (ai piedi del monte sorge la chiesa di Crovara e lì c’era il castello dei Da Palude, costruito in pietra), ma somigliano a piccoli cromlech. L’erica ha colonizzato i massi, li delimita e il tutto produce un’impressione di incanto, di meraviglia. Ancora pochi passi e si giunge a una superficie rocciosa in parte a forma di semicerchio, in parte spianata e poi in pendenza, solcata da diverse canalette scavate - quasi parallele - e altre incisioni. Dovrebbe risalire alla tarda età del bronzo. Furono alcuni residenti, nel 2016, a segnalare questo sito al comitato scientifico della sezione reggiana del Club alpino italiano, che poi si occupò di studiarlo e di ripulirlo in modo da renderlo fruibile ai visitatori. Una delle ipotesi fatte dagli esperti è che si tratti, appunto, di un sito rituale. I luoghi di culto rupestri sono comuni nelle aree montuose di tutto il mondo abitate nell’antichità. Forse quei nostri antenati cercavano di capire come funzionava l’universo e da quali forze fosse governato; forse cercavano le informazioni giuste per poter contrastare disastri naturali, epidemie, carestie, fame e freddo.
La roccia come un libro eterno
I luoghi sacri rupestri erano probabilmente i centri che fornivano informazioni sul calendario, sul tempo come durata, sui periodi per l’aratura e la semina, per il pascolo e la transumanza, per capire quale fosse il momento giusto per mettersi in viaggio (via terra o via acqua). Quei nostri antenati misuravano le distanze in base ai passi, alla lunghezza percorsa dall’alba al tramonto; misuravano il tempo in base al movimento delle stelle nel cielo, alla durata di una torcia accesa, al ciclo mestruale delle donne. Non avevano libri, carte geografiche, bussola, previsioni meteorologiche, tanto meno uno smartphone. Avevano solo le pietre. Perché, a differenza di qualsiasi altro materiale, la pietra è (quasi) eterna. Si affidavano allo sciamano (o sciamana?) che con le sue osservazioni serviva la comunità. Ci sono sequenze di fenomeni celesti e climatici che si ripetono in un periodo di diversi decenni. Gli antichi li fermavano sulla roccia: volevano che i simboli usati per marcare quegli eventi restassero osservabili nel tempo, sia per i contemporanei, sia per i loro discendenti. Non si tratta solo dei cicli lunari, ma di una serie di fenomeni celesti e terrestri che tornano al loro punto di partenza dopo decenni. Come le eclissi solari o i cicli di siccità e inondazioni. Ciò che accomuna molti dei santuari rupestri sono però due elementi costanti. Innanzitutto l’ubicazione di questi luoghi in aree di margine tra comunità. Se il limite è là dove qualcosa finisce, ma anche là dove qualcosa comincia, il confine presuppone una divisione e un rapporto tra sé e l’estraneo. Il margine, viceversa, definisce ciò che non è né del dio di qua né di quello al di là del confine: la terra di nessuno, il luogo di passaggio, di trasformazione. In Grecia, per esempio, i 4/5 dei santuari di Artemide si trovano in territori di margine, nei pressi di aree montuose, boschive, sorgenti o corsi d’acqua. L’altro elemento è il coinvolgimento in queste pratiche, quasi in via esclusiva, della componente femminile della popolazione. In alcuni casi sono testimoniati veri e propri divieti, rivolti ai maschi adulti, di accostarsi a certi luoghi, sotto pena di suscitare reazioni spaventate e spaventose da parte delle divinità ivi dimoranti.
Le coppelle
Sul masso del Lulseto, sono incise molte coppelle, incisioni su roccia a forma di coppa o scodella, di dimensione variabile. In alcuni casi si rilevano isolate, in altri sono numerose e vicine, fino a far pensare a qualche costellazione. Le ipotesi sui perché di questi manufatti sono diverse. Uso pratico: marcatura dei territori, dei percorsi, dei confini o, semplicemente, contenitore per l’acqua con cui abbeverare le greggi, oppure recipiente per pestare sostanze, coloranti, erbe. Uso cultuale religioso: culti della religiosità popolare alla fertilità, alle acque, agli alberi, alla cima delle montagne.
Un episodio del genere è ben documentato a Vione, in Val Camonica: “Nel 1624, su ordine del cardinale di Milano Carlo Borromeo, il parroco di Vione in alta Valcamonica distrusse sul monte Fossano quella diabolica e superstiziosa pietra, in mezzo della quale ci stava un buco tondo, a cui come a Dio per impetrare la pioggia faceva ricorso nella siccità la Comunita medesima cavando a sorte nelle necessità dal numero delle zitelle dodici vergini, che adornate di bellissime galle e disponibili d'un vaso per cadauna si spedivano come processionalmente verso del monte cantando superstiziose preci e invocando sovente il nome del falso Nume di quella pietra: 'Santa Paola mitte nobis pluviam'.” In altri casi, la coppella è da ritenersi il risultato di una micro escavazione per procurarsi la polvere di pietra da usare come medicamento. Il rapporto tra pietre, polvere di pietre, alchimia e religiosità ci viene tramandato dal V secolo con i sermoni contro il paganesimo di Massimo, vescovo di Torino. E nell’ “Indiculus superstitionum et paganiarum”, che identifica e condanna le credenze pagane che si trovavano in Gallia e tra i sassoni già sottomessi a Carlo Magno, nel 750 circa, tra i ventinove “reati”più gravi, troviamo: “De his quae saciunt super petras” che significa “di quello che fanno sulle rocce”. D’altra parte, il medico, filosofo e alchimista Paracelso, all’inizio del XVI secolo, preparava rimedi con pietre polverizzate e poste sulle ferite, sciolte nel vino, nel miele o messe a bagnomaria per ottenere l’acqua impregnata della loro energia. Le coppelle venivano utilizzate anche per l’acqua sacralizzata capace di guarire le malattie (e come non pensare a Lourdes e alle proprietà miracolose della sua acqua, o al cieco guarito da Gesù e mandato a lavarsi alla piscina di Siloe?). Ma c’è un altro utilizzo: in alcune zone del mondo, le coppelle vengono “suonate” battendole con le pietre; lo ha scoperto in Tanzania un americano appassionato di arte rupestre, quando il suo autista, davanti a una serie di coppelle, iniziò a batterle, ricavandone precise note musicali e un motivo piacevolmente armonico. Se il Lulseto era luogo sacro, può essere che la gente vi salisse non solo per i riti sacrificali, ma per procurarsi polvere di roccia o altri frammenti con cui curarsi.
Le scanalature e i sacrifici degli animali
Nei pressi di Città di Castello (PG), a Sasso di San Donnino, si sono tramandate pratiche che rimandano a culti precristiani di divinità agresti. C’è un masso con scanalature, forse un altare sacrificale, ove in passato si immolavano vitelli o altri animali con riti simili alle feste Ambarvalia, celebrate a Roma a fine maggio in onore di Marte e di Cerere. Un altro caso è costituito da una festa nel Mugello, al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, nel Comune di Pontassieve. Qui, ogni anno, fino a pochi decenni fa, avveniva un rito chiamato la ‘Bifolcata’: “Dopo la festa della seconda domenica di maggio, i popoli sorteggiavano un capofamiglia affinché acquistasse un bel giovane manzo (la cosiddetta ‘bestia della Madonna’) da ingrassarsi e poi mangiarsi da tutti al Sasso per la fine dei lavori agricoli. (...) Nel pomeriggio di questo giorno infatti la bestia veniva spinta fino al mattatoio del santuario, ove l’aspettava un rappresentante del popolo di Remole a cui per tradizione spettava il compito di compiere il sacrificio. Richiamati dal suono delle campane, salivano al Sasso i fedeli recanti appositi recipienti per la raccolta del sangue dell’animale…” Potrebbe essere dunque, il masso del Lulseto, un altare sacrificale per riti simili? O potrebbero essere, le canalette, semplici “scivoli della fertilità” usati dalle donne per favorire le gravidanze?
Il diavolo di Crovara
Su una parete esterna della chiesa di Crovara è murata una scultura della stessa roccia scura del Lulseto. La chiamano “il diavolo”, ma più che le corna sembra avere due orecchie e, nell’insieme, somiglia a un orso. Silvia, una signora di Felina che ha vissuto da quelle parti da bambina, ricorda: “Raccontava don Angelo (che veniva spesso a casa mia insieme a don Giorgio e don Raimondo), che quella l’aveva portata giù lui. Ma da lassù, dove c’erano le canalette... Non era qua dal castello, era lassù. Diceva anche che avevano portato via moltissimi reperti storici, da lassù in cima, quindi lui è andato, ha trovato quella, l’ha portata giù e l’ha fatta murare sulla chiesa. Di quello ne sono sicura perché ce l’aveva detto lui…” Tutto ciò è molto interessante, perché la dea etrusca Hortia, o Nortia, era rappresentata, in alcuni casi, come un’orsa con un piccolo in braccio.
E ad Artemide era sacra l’orsa, anzi... In origine, era essa stessa un'orsa, la temibile "Signora delle belve" (Potnia theron) detta anche Hortia. C’è chi parla di sabba delle streghe sul Lulseto, ma forse era solo un modo per tenere lontano i bambini dai posti pericolosi. Certo, l’incisione di una croce “di cristianizzazione” sul masso indica che lassù si tenevano culti pagani, poi a fatica sradicati dal cristianesimo; un luogo dove cresceva una pianta resistente al fuoco, con la quale gli sciamani o le sacerdotesse costruivano le scope usate per aspergere l’acqua della sorgente sui partecipanti.
Scope: come quelle delle streghe.
Affascinante a dir poco!
RispondiEliminaL'abbiamo "dietro l'uscio di casa", ma ormai completamente immemori del nostro passato remoto sorvoliamo distratti la pietra magica in cerca d'altro, cos'altro bene non si sa...
Nel commento successivo mi permetto di unire il collegamento ad alcuni estratti di un moderno studio di autore diverso su altri luoghi del pianeta, i cui contenuti sorprendentemente confermano le varie ipotesi enumerate in questo prezioso articolo.
https://docs.google.com/document/d/1Q81rVtNh6t29xjPUWqDqTACpH2FqdAuy1upsbqCR8Ls/edit?usp=sharing
RispondiEliminaGrazie, Luca, chiedo scusa se non ho visto subito i commenti in moderazione. Prima di pubblicarli, preferisco leggerli, perché arriva tanta pubblicità che vorrei evitare.
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